Le Giravolte




AA. VV.



Trekking nel Salento

Niente più dell'escursionismo procura scoperte piacevolissime pur rimanendo entro i confini del territorio di residenza, che spesso affermiamo di conoscere soltanto perché... lo intravediamo dal finestrino dell'auto!
Questo tipo di "escursione con un lungo percorso a piedi in luoghi difficili" (come si traduce letteralmente l'inglese trek = viaggio, migrazione) è possibile effettuarlo anche nel Salento. Provate a raggiungere la "piana della Lea" (Porto Selvaggio) o il Faro di Punta Palascìa (Otranto) dopo aver calpestato l'arida roccia carsica o superato quei calanchi di bauxite indurita dal vento! Vi assicuro che le emozioni e le sorprese non mancano.

Dintorni di Gallipoli
P.ta Pizzo-Serra di Castelforte - Porto Selvaggio
Il percorso, lungo una ventina di chilometri, comincia da Punta Pizzo, una delle zone naturalistiche più interessanti della provincia di Lecce, caratterizzata da brandelli di palude retrodunale (ideale sosta degli uccelli migratori), di pineta e di gariga dove crescono un'incredibile infinità di orchidee e una rara leguminosa arbustiva.
Percorrendo alvei di fiumi preistorici ormai prosciugati e colmati, che la straordinaria laboriosità dei contadini locali rende fertili e produttivi, si giunge nei pressi della Serra di Castelforte, luogo incantevole, contornato da maestosi ulivi, da cui è possibile scorgere il mare di Gallipoli. Qualche pietrafitta sopravvissuta all'incauta distruzione, magari utilizzata per sostenere i muretti di recinzione, è testimonianza della millenaria presenza umana, mentre un brusio di sottofondo segnala la presenza delle vore, sprofondamenti carsici dove si raccolgono le acque di superfici e alimentano la falda freatica. Ecco spiegato non soltanto il sottofondo "musicale", ma anche l'improvvisa oasi di vegetazione particolarmente verdeggiante e rigogliosa. In alcuni tratti si devono superare dislivelli, attraversare lacerti di antichi querceti o circuire pareti rocciose che, oltre ad essere ripide, sono insidiosamente sdrucciolevoli. Se si richiede un supplemento di pazienza questa viene ripagata quando si giunge in prossimità di Porto Selvaggio. Il paesaggio è semplicemente incantevole. E se il cielo è terso e non spira il fastidioso scirocco si può vedere perfino l'isola di S. Andrea (di fronte a Gallipoli), riconoscibile dalla sagoma del faro come se spuntasse dal mare.
Per chi ancora non lo sapesse, il luogo non è soltanto natura da ammirare o scorci da fotografare, ma è un tratto costiero dove è stato trovato un ineguagliabile patrimonio preistorico sedimentatosi nelle grotte di Uluzzu (nome arcaico che indica l'Asfodelo), di Carlo Cosma e del Cavallo. I segni della frequentazione umana risalgono alla fine del Paleolitico medio, circa 40 mila anni fa, e al Paleolitico superiore, ossia almeno 31 mila anni fa! L'ampia "piana della Lea", apparentemente arida e inospitale, è un importantissimo luogo di sosta per uccelli migratori e regno di specie rupicole, alcune "nobili", quelle piantine grasse che riescono a radicare e a vivere nei buchetti delle rocce.
Passo dopo passo si giunge all'insenatura di Porto Selvaggio, sovrastata dalla poderosa Torre di S. Maria dell'Alto (XVI sec.), indicata come la "dannata", perché evoca sinistre leggende e fu utilizzata anche come lazzaretto. In questo mare sgorgano sorgenti di acqua dolce (provenienti dalle numerose grotte marine), si identificano per la diversa solidità dell'acqua e ci permettono di rinfrescarci prima di inerpicarci lungo la parete dominata dalla Torre. L'escursione termina per i trekkisti, ma non per chi è esperto di arrampicata libera (freekline): scalando con apposite corde la parete rocciosa alta almeno 40 metri, proprio sotto la torre, sul lato del mare, si può vedere l'insediamento dell'Alto, i cui reperti sono stati datati a circa 120 mila anni fa.

Dintorni di Otranto
Giurdignano - Giuggianello - Serra di Poggiardo Vaste - Porto Badisco
L'escursione inizia da Giurdignano, epicentro di un'area particolarmente interessata da monumenti megalitici, i menhir, e da grotte rupestri che sforacchiano i costoni rocciosi di delimitazione dei campi. Espressioni di ancestrali culti pagani, i menhir furono successivamente cristianizzati e dedicati, per esempio, a S. Vincenzo, a S. Paolo, alla Madonna di Costantino-poli. Si incontrano improvvisamente, in aperta campagna, e ci sorprendiamo sempre della loro salda presenza in luoghi inusitati.
Giuggianello, invece, custodisce il dolmen Stabile, alto almeno 1 metro e coperto da una lastra di pietra veramente grande. Con quale metodo l'avranno poggiata senza romperla? E' incisa lungo il bordo da un canaletto su cui confluiscono altre due incisioni perpendicolari tra loro. Naturalmente le spiegazioni, le interpretazioni e le congetture si sprecano letteralmente e ci accompagnano dinanzi a ciò che appare veramente sorprendente!
Un enorme blocco monolitico, a forma di fungo, identificato popolarmente come "lu furticiddhu te la ecchia e te lu Nanni" (l'arcolaio della vecchia e di Nanni [l'orco]), è legato naturalmente ad una leggenda.
Ma non è tutto. Poco distanti vi sono altri ciclopici monoliti indicati, rispettivamente, con il "letto della vecchia" per la forma di cuscino, e con il "piede di Ercole" perché appare proprio come un enorme piede. Si tratta di massi rocciosi modellati dagli agenti atmosferici e, soprattutto, dall'acqua piovana che, agendo sulla calcarenite ricca di carbonato di calcio, ha dato forme puntualmente personalizzate dalla fantasia popolare.
Tra un'osservazione scientifica e l'altra si raggiunge la Serra di Poggiardo, interessata oltre che da una bella pineta e da un bosco abitato da querce, lecceti e cespugli di macchia mediterranea, da cave dismesse di bauxite (per l'estrazione dell'alluminio) con annesso impianto industriale forse mai funzionante.
Inutile dire quanto il paesaggio appaia irreale, inospitale, duro e fuori dal contesto paesaggistico salentino che pure si presenta con la tipica terra rossa, il bolo, su cui vegetano bene olivi, ortaggi, tabacco e vite. In questo tratto la superficie da calpestare è incisa da rughe a volte indurite, a volte friabili oppure è ingobbita da mucchi di pisoliti di bauxite che rallentano l'andatura. A suo modo è un paesaggio suggestivo che suscita emozioni.
Al territorio di Poggiardo appartiene l'area archeologica di Vaste, l'antica Bastae, circoscritta da imponenti mura megalitiche lunghe oltre 3 km. Ne sono emersi reperti risalenti all'Età del Ferro (IX-VII sec. a.C.), alla civiltà romana, bizantina e medioevale. Una visita stimolante è l'attigua cripta dei SS. Stefani, a tre navate, interamente affrescata da immagini di Santi orientali e da più di un Santo Stefano da cui la denominazione del luogo - che ebbe funzione essenzialmente funeraria. Il corredo iconografico è giudicato uno dei documenti pittorici più alti del Salento bizantino. Poco distante dalla cripta vi sono i resti di una chiesa paleocristiana dotata di tre ambienti riconducibili al pronao, al naos e al bema.
Si riprende il cammino e si attraversa un paesaggio tra i più pittoreschi anche se austeri della fascia adriatica: da un lato distese di roccia carsica, dall'altro scogliere a strapiombo sul mare. Eppure questa pietraia infinita, battuta dal mare e dai venti, soltanto apparentemente è priva di vita: ospita insediamenti di vegetali tipici, le citate rupicole, che botanicamente ci legano alle coste dirimpettaie, e cespugli di finocchio selvatico marino, dal forte sapore di anice.
La gente del posto raccoglie i getti teneri e, dopo averli sbollentati, li conserva sott'olio e li gusta come contorno alla carne o al pesce oppure come companatico. Siamo nei pressi di Torre S. Emiliano che, dall'alto della sua posizione (51 metri s.l.m.), vigila la costa sottostante e il fiordo di Porto Badisco. Prima di raggiungerla, una deviazione èdoverosa per vedere un singolare fenomeno di erosione marina costituito dalla marmitta dei giganti, un'enorme "pentola" negli scogli in cui si trova una sfera perfetta pur'essa rocciosa, dal diametro di almeno un metro. In particolari condizioni atmosferiche, quando il mare è molto agitato, la sfera riesce a spostarsi e a collocarsi in una marmitta attigua.
Per i geologi e gli storici, Porto Badisco è il "santuario della preistoria", rappresentato dalle "Grotte dei Cervi", cavità naturali con un complesso di pitture rupestri datato grossomodo tra i 4.500-3.000 anni a.C., il più importante d'Europa nel suo genere. Purtroppo non possiamo vedere le scene di caccia né il famoso stregone danzante che hanno fatto il giro del mondo quando nel 1970 gli speleologi scoprirono siffatta meraviglia.
Allora ci concediamo un altro po' di scarpinata raggiungendo la cresta della serra, parallela al tratto costiero, per fermarci all'interno della grotta degli amanti, tipica per le due aperture comunicanti attraverso un cunicolo. La leggenda popolare vuole che vi fossero stati rinchiusi due innamorati e che le loro copiose lacrime abbiano prodotto le citate cavità.
rossella barletta

 

Farsaglia

L'epilogo della guerra civile tra gli eserciti di Giulio Cesare e Pompeo si ebbe nell'agosto 706 di Roma, ossia a quarantotto anni dalla nascita di Cristo, nei pressi della città di Farsaglia dove si svolse la famosa battaglia che prese il nome da quella località. Vedremo come si giunse al drammatico epilogo, affrettato dalla inaspettata vittoria di Pompeo nello scontro di Durazzo il cui porto Cesare aveva destinato a propria base navale per i rifornimenti provenienti da Brindisi.
Pompeo a Durazzo aveva vinto e spettava a lui prendere l'iniziativa delle operazioni e a ciò egli era deciso. Cesare, quindi, era praticamente tagliato fuori dalle sue basi, anche in seguito alla distruzione della flotta che le riforniva attraverso l'Adriatico ad opera del magistrale colpo di mano di Gneo, figlio maggiore di Pompeo.
E' pur vero che nella battaglia Pompeo non aveva gettato tutte le sue forze a causa della asperità del terreno ed è pure vero che le legioni di Cesare avevano perduto soltanto mille uomini, i migliori, ma le conseguenze del fatto d'arme causarono lo scompiglio dei suoi piani e la perdita del naviglio lo mise in gravi difficoltà logistiche. Infatti il controllo delle rotte per Brindisi in quella campagna si dimostrò decisivo per l'ulteriore proseguimento della guerra. Fino a quel momento Pompeo aveva condotto le azioni belliche senza un piano prestabilito, sfruttando l'ipotesi del logoramento delle forze dell'avversario privo delle fonti di rifornimento. Egli ben conosceva la situazione tattica e strategica del suo avversario, e conscio dei mezzi di cui disponeva tirava alla lunga contando sull'ammutinamento e dissoluzione dei soldati di Cesare. Ma le vedute di Pompeo ebbero una smentita dai fatti. La grande energia militare dei veterani di Cesare impedì che l'esercito fosse ridotto dalla fame e dalle sommosse ad una massa di legionari pronti ad arrendersi.
All'indomani della vittoria di Durazzo, Pompeo poteva scegliere due vie: la prima e la più semplice era quella di non perdere di vista l'esercito vinto e di mettersi in marcia per inseguirlo; poteva inoltre lasciare nella zona Cesare col fiore delle sue truppe e passare, come da lungo tempo ne aveva il pensiero, col grosso delle sue truppe in Italia e qui tentare, mercé lo scontento ormai dilagante, di distruggere il potere politico e militare del suo nemico. Cesare invece non aveva possibilità di scelta e risolse di ritirarsi nell'interno del Paese e attendere i rinforzi costituiti da due legioni comandate dal Console Quinto Cornificio. Così, dopo estenuanti marce forzate, si acquartierò in Tessaglia e in queste regioni prese a riordinare le sue forze.
Nel frattempo Pompeo, che non poté seguire col suo pesante esercito le leggere truppe nemiche, rimase a cullarsi sulla vittoria riportata a Durazzo e a lasciarsi convincere dai suoi miopi consiglieri che la sorte di Cesare fosse ormai segnata. Presto però ogni illusione cadde e Pompeo dovette decidere di venire a battaglia campale con l'avversario e a tal'uopo mosse il grosso dell'armata incontro al nemico attestato nella zona di Farsaglia (oggi Farsalo) e precisamente a sud di Larissa, nel piano che si allarga tra le colline di Cinocefale e il monte Orri, sulla sponda sinistra del fiume Enipeo.
Pompeo, quindi, prese posizione sulla sponda destra dello stesso fiume sul pendio delle alture di Cinocefale. L'esercito di Pompeo era in ordine; Cesare per contro stava attendendo altre due legioni che aveva inviato nell'Etolia al comando di Quinto Furio Galeno oltre a quelle di Cornificio. Pompeo disponeva di undici legioni per complessivi 47.000 uomini e 7.000 cavalieri contro i 22.000 del suo avversario, cioè più del doppio di forze combattenti.
Tutta la situazione militare consigliava a Pompeo di non indugiare troppo a venire ad una battaglia decisiva, e più di questo motivo valse nel consiglio di guerra l'impazienza dei tanti ufficiali nobili fuggiti da Roma insieme ai politici e altri già compromessi nella corruttela affaristica. Questi erano da tempo convinti che il loro partito avesse ormai vinto la contesa; già divisavano di tornare a Roma e scrivevano alla capitale per prendere in fitto delle case sul foro per le prossime elezioni.

Pompeo tentenna
Pompeo, forse presago della sconfitta, non si decideva a passare il fiume e lo fece solo a seguito delle forti pressioni e del malumore dei suoi numerosi consolari e pretori.
Cesare intanto, che aveva capito come nel campo avverso si fosse riluttanti ad ingaggiare battaglia, aveva ideato il piano di aggirare l'esercito nemico, ed era a questo effetto in procinto di muovere, quando ordinò lo schieramento delle sue legioni per la battaglia, dal momento che i Pompeiani gliela offrivano sulle rive del fiume da loro occupate.

La battaglia
Era il 9 agosto 706 (a.C.). Pompeo appoggiò la sua ala destra all'Enipeo; Cesare, a lui di fronte, la sua sinistra sul terreno rotto che si estendeva dinanzi allo stesso fiume; le altre due ali occupavano il piano, entrambe coperte dalla cavalleria e da truppe leggere.
Era intenzione di Pompeo di tenere riservata la sua fanteria per la difesa, di sbaragliare con la sua la debole schiera di cavalleria, che alla maniera germanica mista con fanteria leggera le faceva fronte, e di assalire poi alle spalle l'ala destra di Cesare le cui forze, appiedate, sostennero con coraggio il primo urto dell'ondata nemica. Qui il combattimento si fermò.
Il console pompeiano Labieno sbaragliò da parte sua la cavalleria nemica dopo una valorosa sua resistenza. Ma Cesare, da quel condottiero che i fatti avevano dimostrato che egli fosse, prevedendo la sconfitta della sua cavalleria, aveva schierato dietro la medesima sul fianco minacciato della sua destra, circa duemila dei suoi migliori legionari.
Mentre la cavalleria di Pompeo, sbaragliata quella nemica, effettuava il movimento di diversione per aggirare e prendere alle spalle l'avversario, i legionari di Cesare balzarono improvvisamente all'attacco.
I cavalieri, assaliti in piena crisi di movimento, con le fila sconvolte dal terribile attacco, fuggirono dal campo in rotta completa. A loro volta i frombolieri, che seguivano la cavalleria di Pompeo con il compito di distruggere le forze nemiche situate in quel settore del campo di battaglia, furono fatti a pezzi. Quindi tutta la destra delle forze di Cesare, facendo perno su se stessa, si mosse avviluppando la sinistra di Pompeo. Al tempo stesso si spinse avanti su tutta la linea la terza divisione di Cesare, completando l'aggiramento dell'avversario. Il cedimento dell'esercito pompeiano aumentò il coraggio delle forze nemiche, le quali completarono la loro offensiva costringendo alla ritirata l'avversario.
Quando Pompeo vide il crollo delle sue forze migliori si ritirò dal campo di battaglia senza nemmeno attendere la fine dell'attacco generale ordinato da Cesare. La giornata era dunque perduta.
L'esercito di Pompeo però si trovava ancora con il grosso quasi intatto e la sua posizione era ancora in quel momento di gran lunga meno scabrosa di quella di Cesare all'indomani della battaglia di Durazzo. Epperò, Pompeo, che aveva conosciuto fino allora la fortuna, si sentì comunque perduto, a differenza di Cesare che nell'avversa sorta sviluppava nella sua personalità reazioni sempre più forti.
Pompeo soggiacque allo scoramento e cadde nell'abisso della disperazione. Il suo esercito, avvilito e senza guida, sperava di trovare asilo dietro i ripari del campo trincerato, ma Cesare non gli concesse un attimo di riposo; l'ostinata difesa dei soldati fu vinta con la celerità del lampo, e la massa fu costretta a salire in disordine le alture ai piedi delle quali era piantato il campo. Muovendo su questi colli tentò di ricondursi a Larissa, ma le truppe di Cesare non curando né il bottino né la stanchezza e procedendo su strade migliori nella pianura tagliarono la ritirata agli avversari, e quando costoro a tarda sera si fermarono, gli inseguitori ebbero la forza di costruire una linea di trincea per togliere ai fuggiaschi il sollievo dell'acqua che scorreva da un ruscello che si trovava in quella vicinanza. Così ebbe termine la battaglia di Farsaglia.
L'esercito di Pompeo non fu solamente sconfitto, fu distrutto. Quindicimila nemici tra morti e feriti coprirono il campo di battaglia, mentre Cesare non ne aveva perduti che duecento. Il rimanente delle forze di Pompeo, circa ventimila uomini, consegnò le armi.
La mattina dopo i distaccamenti nemici isolati al comando dei quali si trovavano i più ragguardevoli ufficiali tentarono di salvarsi attraverso le montagne; delle tredici aquile romane, supreme insegne delle undici legioni, nove furono consegnate a Cesare. I soldati semplici furono inquadrati nell'esercito vincitore, ai gradi intermedi furono inflitte pene pecuniarie e confisca dei beni. I senatori fatti prigionieri e i cavalieri di grado elevato furono condannati alla pena di morte.
Con la giornata di Farsaglia finì praticamente la guerra civile, perché con la sconfitta era caduto anche il mito di Pompeo, della sua invincibilità, della sua potenza politica. Gravi furono le conseguenze del fatto d'arme. Esse si ripercossero in tutto l'Oriente, che si sottomise rapidamente a Cesare, ormai libero da ogni contrasto interno che potesse ritardare la sua marcia verso l'Impero di Roma.
fulvio summaria

 

La prigione dei favoni

In questa "prigione" di Pino Mariano - e per involontario contrasto - aleggia lo spirito del nativo Mediterraneo: in simbologie discrete iscritte nel culto, scontato quasi, di coesistenze pacifiche, di meticciati razziali e culturali. Non è, a scanso di equivoci, la semplice volontà di riportare all'ovile del paese natale nel suo contesto meridionale, nel Salento, la classica pecora smarrita nel labirinto dei corridoi freddi delle Comunità Europee. E' piuttosto -e prima di tutto - un tentativo di organizzare, all'interno della sua più intima esperienza poetica e di uno slancio lirico, al limite del sacro, una fusione armonica fra eredità greca, se non proprio pagano-ellenica, e un cristianesimo ricondotto alla dolcezza delle sue antiche radici, spesso ridotte nel nostro mondo a impalpabili reliquie. A rapidi tratti introduce se stesso e la sua famiglia in questa visione. Fra la canicola d'un paesaggio salentino, in fondo africano, della Terra d'Otranto e lo splendore di una Cipro leggendaria il Poeta evoca e convoca ogni apporto, ogni contributo: semitico, arabo, romano, fino all'"occidentale" più vicino, attuale e cruciale.
Le allusioni ai fatti storici - l'Impero bizantino, l'invasione turca - servono da scenario ad una volontà di appartenenza che, secondo l'immagine poetica, rischia di perdere la vela, mentre è in navigazione spirituale tra "le due sponde", separate dal sangue versato in battaglie forse più isteriche che storiche. La stupidità politica è l'argomento "source" inevitabile, il supporto dell'ispirazione poetica. Ma l'ipocrisia dell'ambiente, più dura da accettare, spinge contemporaneamente il Poeta, cantore di oppressioni, verso l'annotazione personale di un esilio soffocante, consolidato; incarnato dalla torre abbandonata sul mare delle schiume e degli abissi: "giacciono nel blu / i frammenti del nostro antico cuore... / l'abisso profondo e blu è vapore di lacrime / e tu te ne disseti o torre / che guardi di qua e di là dal promontorio ... ".
Questa poesia comunica un'impressione prepotente d'esclusione, la ridondanza inesorabile di un ritorno che non avviene mai, in cui il Poeta, l'uomo, è disorientato dal continuo cambiare dei venti, e degli eventi, cui non contribuisce certo la marcia trionfale a ritroso nel tempo. Nello spazio: che si tratti dell'ultimo ambiente lussemburghese, del precedente soggiorno svizzero o dell'attuale dimora salentina, il Poeta non può che annotarne la sua estraneità. Tutto sembra convergere verso un deserto categoriale. Il profumo degli aranceti, dopo un viaggio in Palestina, la stessa attrazione per la Terrasanta, sono immersi in un silenzio, in un'amarezza ineluttabile, attonita. La vita - e la scrittura - ridotti, in questo contesto, ad una specie di gioco a dadi: "la mano più non crede / di sognare fra le acque / è freddo il verso / nude le parole, / è riluttante il cuore ... ".
Ma bisognerà andare oltre il disprezzo maturato nei confronti della gentilezza apparente dei consanguinei italiani, "popol gentile". Solo la lotta allora - con tutti i suoi oggetti, soggetti e progetti - conta per il Poeta, così come per il gabbiano dopo la lunga caccia in mare: una lotta unica, un unico eterno ritornare. Una lotta categoriale per uscire dalla prigione, esilio metafisico che porta le sembianze della terra natale. C'è uno strano, curioso splendore medioevale in questa concezione quasi cavalleresca dell'esistenza: "la lotta per il continuo ritorno / la lotta continua al ritorno / il ritorno alla lotta continua / continuamente ritorna la lotta / lottare per continuare il ritorno ... ": e il tono che l'accompagna è saggio e, malgrado tutto, sereno, tipico delle "berceuses" popolari.

…………..
non ci fu casa come dite l'Europa
noi espulsi settimini
dal tenero grembo del sud

ci fu casa il treno
che corre da casa a casa

casa fu
il tetto dei grigi cieli delle Ardenne
e la prigione dei favoni

tu credi italo idiota
avezzo a ben altre apparenti libertà
che fu ricchezza la nostra

o malattia

vi si chiede di cambiare la vostra ipocrisia
con sospetto richiedete
se non avrete
qualcosa in cambio
e così sia

Pino Mariano

Questi canti di Ombre e di venti, che richiamano il silenzio delle "assurde nozze" in Camus, pongono talvolta dei punti fermi, delle aree di riferimento provvisorie. Tutto, è vero, subisce il fardello del dubbio, tutto subisce l'eco lugubre, lo scherno del destino in questa ricerca di identità: perché La prigione dei favoni esprime in fondo la nostra malattia della libertà.
In una di queste aree ci sono le "nozze reali", la sposa, i segnali luminosi sul cammino ancora da percorrere. Il dubbio, persistente come la lotta, infinito come il ritorno, perde la sua ferocia: la donna, la sposa, è un'oasi, il rifugio, la vera salvezza: "tu sola è certo mi redimi... / è vero tu emergi dal paesaggio all'improvviso e ridi... / tu metti ordine al tempo / dai una famiglia ai miei pensieri".
myo kapetanovich

 

Lo spirito del mondo

"Chi conosceva la storia di Jézabel, terrore del profeta Elia? Chi conosceva la storia di Elissa, fondatrice di Cartagine? O quella di Athalia, regina di Gerusalemme? Chi di noi ha letto i canti di Ezechiele sull'impero di Tiro? Chi di noi ha studiato i rapporti di questa città con Nabuccodonosor, prima; con Alessandro, poi, fino a Cleopatra e all'epoca di Augusto? ... ".
Poche righe di Florio Santini (E trovai lo spirito del mondo, Congedo Editore) sul Libano: una tranche che ho ripreso per focalizzare emblematicamente un aspetto dei suoi interessi "di scrittura", altri e numerosi essendoci in questo e in altri suoi lavori, di straordinaria duttilità espressiva e di complessa (e a modo suo urgente) polivalenza di segnali culturali che mai si concludono in se stessi, perché generati da esperienze perentorie, totalizzanti.
Bisogna aver levato le ancore dai nostri porti stagnanti ad ogni alba, aver percorso direttrici solo in parte progettabili e in più gran parte esplorate per istinto e vocazione, aver messo in moto i meccanismi profondi e sensibili dell'attrazione per i luoghi magnetici, per i linguaggi ignoti, per le civiltà ignorate, per realizzare l'attraversamento - però alla luce di una personalissima coscienza estetica - delle storie e dei luoghi, cioè dei miti e dei sogni, delle realtà e delle metafore. Ciò pone necessariamente Santini in una condizione di centralità rispetto a tutti gli scenari d'azione, senza che vada perduto il rapporto di reciprocità tra questi e l'autore.
Perciò si leggono queste pagine dense, intriganti, persino provocatorie, e si è contagiati dal panico espressivo, dalle tensioni spirituali, dalle nervature intellettuali che esplicitano o sottendono. E chissà perché (forse per affinità elettiva, o ideale, o virtuale) viene in mente Le sang d'un poète, di Jean Cocteau, in cui la statua dice allo scrittore: "Ti resta una via d'uscita, entrare nello specchio e passare al di là ... ". Ad ogni ancora levata, un attraversamento che salda conoscenza, memoria, scrittura. Sigillo: il cuore del poeta, che non brucia mai.
a. b.

 

Restauro a Galatina

"La soluzione vivamente raccomandata per la collocazione della riserva eucaristica è una cappella apposita, facilmente identificabile e accessibile, assai dignitosa e adatta per la preghiera e per l'adorazione. In essa sarà ospitato il tabernacolo che, tuttavia, non deve mai essere posto sulla mensa dell'altare, ma piuttosto collocato al muro su colonna o su mensola".
Queste raccomandazioni espresse al punto 20 del Il capitolo dell'ultimo documento della CEI, Adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica (maggio 1996) ha rappresentato un riferimento continuo nella progettazione di sistemazione della cappella laterale sinistra della chiesa di Santa Caterina d'Alessandria di Galatina.
Infatti la richiesta di sistemazione del ciborio ligneo del XVII secolo scaturiva da una duplice necessità:
a) trovare nella chiesa una collocazione adeguata per rendere funzionale e visibile il ciborio come custodia per l'Eucarestia, per l'esposizione del Santissimo, e garantire nello stesso tempo un uso liturgico corretto;
b) apprezzare le sue qualità intrinseche recuperate ed esaltate dalle tecniche di restauro magistralmente adottate dalla restauratrice Maria Prato e dal suo collaboratore Antonio Congedo.
Per soddisfare tali necessità si è ipotizzato di utilizzare la "cappella" di fondo alla navata laterale sinistra, già adibita per la conservazione dell'eucarestia in un tabernacolo appoggiato sulla parete di fondo.
Davanti al tabernacolo era collocato, su un basamento di 160x60 cm., un ingombrante altare in pietra leccese (cm. 200x80), realizzato e collocato a seguito delle nuove disposizioni conciliari (1963), ed utilizzato per la celebrazione eucaristica nei giorni feriali. Sul fondo della parete, sopra al tabernacolo, era posta, in una nicchia illuminata con neon, una statua della Madonna.
Così come si presentava, questo spazio appariva disarticolato ed estraneo alla monumentalità e al prestigio della chiesa. Le sovrapposizioni dei "segni" (Madonna ed Eucarestia), la modestia dei materiali, la casualità degli arredi e la mancanza di un'illuminazione adeguata incoraggiavano la scelta di un intervento di riqualificazione.
Ferme restando le dimensioni degli spazi attuali si è spostato l'altare in pietra leccese in un luogo più idoneo, si sono rimossi i gradini in pietra calcarea esistenti per consentire il rifacimento di un piano di appoggio più adeguato alla consistente dimensione del ciborio ligneo (3.50x1.70x1.00), e alla sua visibilità da parte dell'assemblea. A tale scopo si è realizzato in legno lo sportellino mancante che chiudeva la custodia.
A queste motivazioni si è aggiunta la necessità di dover intervenire periodicamente a trattare il legno così da impedire nuovi attacchi di insetti xilofagi (tarli).
Per questo motivo il ciborio è stato collocato su una pedana in legno, distanziata dalla parete di fondo, scorrevole su guide per consentire facilmente il suo spostamento da effettuare in occasione dell'accesso al retro per interventi di manutenzione.
Davanti ad esso, in sostituzione dell'altare in pietra leccese, un nuovo altare più sobrio e "trasparente", che, pur svolgendo al meglio la sua funzione di mensa per le sole messe dei giorni feriali, consenta la vista del ciborio e l'adorazione dell'Eucarestia.
A questo scopo, per meglio esprimere il concetto di unicità dell'altare, quando non si celebra questo della cappella feriale deve rimanere spoglio e privo di tovaglia; ciò consentirà anche di valorizzare ancor più la "presenza" del ciborio e la sua funzione per l'adorazione del Santissimo.
L'altare con la sua base in travertino, "segnata" con tratti che ricordano i frammenti degli affreschi, con scolpiti i simboli eucaristici in bronzo che lo impreziosiscono, va ad integrarsi con il resto dello spazio.
I nuovi gradini in pietra calcarea sono stati sovrapposti (compatibilmente con le esigenze strutturali della base di appoggio del tabernacolo) alla pavimentazione esistente, tenendo conto di quel concetto di reversibilità degli interventi propri del restauro.
Il sistema di illuminazione è costituito da due lampade a parete in marmo statuario per illuminare il ciborio e una terza a testimoniare la presenza del Cristo (lampada del Santissimo), mentre una luce centrale, tesa su un filo, sarà usata, quando serve, per illuminare l'altare durante le celebrazioni.
rosario scrimieri


PRECISAZIONE
A parziale rettifica e a completamento dell'articolo "Restauro a Galatina", a firma di Rosario Scrimieri, pubblicato sul n. 3, Settembre 1998, si riporta la scheda con le precisazioni dell'intervento.

Restauro a Galatina:
Sistemazione della Cappellina feriale e ricollocazione del ciborio ligneo del XVII secolo nella chiesa di Santa Caterina di Alessandria.
Committente:
Parrocchia di Santa Caterina di Alessandria a Galatina (Lecce).
Coordinamento:
Centro per l'Arte SIGNUM - Roma.
Progettazione e direzione dei lavori:
Arch. Rosario Scrimieri.
Scultore:
Armando Marrocco.
Restauro del ciborio ligneo:
Maria Prato con la direzione dei lavori della dott.ssa Tina Piccolo della Soprintendenza di Bari.
Opere di falegnameria:
Rossetti Arredamenti - Galatina (Le).
Foto:
Francesco Congedo - Milano.

 


L'infanzia negata

Bambini di ambienti depressi
La povertà che nei Paesi in via di sviluppo, e in passato anche da noi, affliggeva buona parte della popolazione, si è ora ridotta relativamente a pochi gruppi e ambienti, ma laddove permane si presenta sempre con connotati gravi.
Definendo povero un nucleo familiare che gode di un reddito inferiore alla metà di quello medio nazionale, i poveri sarebbero circa il 10% della popolazione e il 70% di essi sarebbe concentrato nel Sud.
Non si tratta solo di disagio economico, ma anche di crisi e di insoddisfazione familiare legata alla disoccupazione, all'isolamento sociale e culturale. Il bambino si trova spesso esposto all'evasione dall'obbligo scolastico, alla delinquenza da strada e al lavoro clandestino. Si pensi che solo a partire dal 1841, Austria e Francia per prime regolarono il lavoro minorile ad un massimo di 8 ore al giorno e non prima degli otto anni. Tali norme, che ci sembrano assurde oggi che le leggi ammettono il lavoro solo dall'età di 15 anni, con tendenza all'ulteriore innalzamento dell'età, non sono ancora rispettate in certi ambienti.
Spesso la povertà si associa oggi alla tossicodipendenza e all'alcoolismo dei genitori, al degrado dei rapporti familiari, alla promiscuità, alle madri sole e senza appoggi, alla scarsa sorveglianza del bambino e agli incidenti domestici.

Bambini di aree depresse
Con il miglioramento sia economico sia delle strutture sociali e sanitarie di tre zone povere del Nord (la campagna veneta, la Bassa Ferrarese e l'hinterland torinese, quest'ultimo comunque popolato da meridionali), le zone a rischio in Italia per i bambini sono dislocate quasi esclusivamente nel Sud. I bambini di zone depresse italiane hanno mortalità infantile e perinatale 2-3 volte superiore a quelle di altre regioni:


Vedendo però l'andamento negli anni della mortalità infantile e perinatale si nota un progressivo miglioramento. Val la pena di ricordare che in Italia la mortalità infantile nel 1946 era del 90 per mille e che oggi è del 7 per mille, così come val la pena sottolineare che pur rimanendo le regioni del Sud indietro, specie rispetto a quelle del Nord Est, alla Toscana e all'Umbria, il loro "gap", che era rispetto a queste regioni di circa 15 anni, si è ora ridotto a meno di 5 ed è pertanto destinato ad annullarsi.
Vi è però un altro fenomeno, non meno inquietante: nel Mezzogiorno è presente una mortalità del lattante a domicilio (Menichella e coll.) quattro volte più elevata che nel Centro Nord, rappresentando il 16,91% della mortalità infantile dell'area contro il 4,33% nel Centro Nord. Il fenomeno è dovuto a due componenti: i bambini non portati in ospedale, nonostante la gravità dei casi, e i bambini riportati moribondi a casa, per non farli morire in ospedale. Esaminando però le diagnosi di morte, in genere banali, risulta chiaro che un alto grado di trascuratezza esiste e molti bambini a causa di questa non raggiungono l'ospedale (Tab. 2).


Oltre al fenomeno della mortalità domiciliare e dello scarso uso dell'ospedale, vi è quello della migrazione Sud-Nord in campo ospedaliero. E' calcolato che almeno un ricovero su dieci di bambini del Sud avviene in ospedali del Nord (Greco) e se si tiene conto che molti ricoveri sono urgenti e non consentono simili trasferimenti e che altri sono per cause lievi e diagnosi banali, la percentuale di affezioni di bambini del Sud curati al Nord diviene molto più elevata. Se poi si considerano alcune regioni, come la Calabria, che, anche senza tali delimitazioni, ricovera oltre il 35% dei casi pediatrici al Nord, si vede che in tali regioni la maggioranza dei casi importanti emigra.
Ma il danno per questi bambini viene anche dal fenomeno "migrazione". I ricoveri Sud-Nord, secondo Greco, hanno quattro origini: ricoveri della speranza, che spesso vengono consigliati dalla stessa istituzione ospedaliera del Sud, ricoveri di comodo e ricoveri di ignoranza, legati alla scarsa conoscenza delle strutture nella propria regione, ricoveri di insoddisfazione, dovuti ad esperienza negativa fatta negli ospedali della propria zona.
Tale inutile migrazione, oltre a depauperare i propri ospedali di attività e di esperienze, costringe anche a frequenti viaggi, perché ogni bambino, una volta dimesso, deve essere seguito e gli stessi ospedali del Nord nel 95% dei casi consigliano il controllo nella propria struttura.
In sintesi, nel Sud vi sono buoni ospedali, anche se non tutti lo sono, ma sono poco conosciuti; più che una migrazione Sud-Nord potrebbe essere a volte necessaria una migrazione Sud-Sud.
Poco validi nel Sud sono spesso i servizi territoriali e il coordinamento tra questi ultimi e gli ospedali. In conclusione (Borrone), solo una minima parte dei ricoveri di bambini al Nord è realmente utile. Quasi la metà del fenomeno migratorio è poi diretto al "Gaslini" di Genova con la creazione di problemi organizzativi e finanziari in tale sede. Bisogna infine dire che migrano in Francia, per ricoveri, molti bambini italiani e che, perciò, il fenomeno non è circoscritto soltanto al Sud.
Il problema non è quindi solo di migliorare le strutture del Sud, ma di svolgere un'adeguata educazione sanitaria sulla popolazione e anche a livello dei medici di base; spesso i medici danno il consiglio di emigrare, senza poi accompagnare il paziente con notizie cliniche, anche per non esporsi di fronte ai colleghi ospedalieri della zona.

Figli di alcoolisti e di tossicodipendenti
I figli di alcoolisti possono essere danneggiati dai genitori sia per le carenze educative e la violenza familiare, legata all'alcool, sia per il danno diretto dell'alcool sul feto e sul bambino.
La violenza da parte di un genitore alcoolista è nota da sempre: l'alcoolismo del sabato sera rappresenta un terribile appuntamento settimanale della famiglia, ma può consentire una vita accettabile durante gli altri giorni; rimane per il bambino il segno della violenza subita o di quella alla quale si è assistito contro la madre e si determina la svalutazione di se stesso per l'inevitabile identificazione del bambino con il proprio padre, che rappresenta un modello negativo, sia quando è violento, sia quando è in stato di incoscienza o di sopore. L'alcoolismo di tutti i giorni si accompagna spesso a miserie del nucleo per incapacità lavorativa del capo famiglia. Situazione più grave si ha per alcoolismo anche della madre.
Il figlio perciò subisce il danno dal disaccordo e la violenza tra i genitori e spesso lui stesso è oggetto di violenza fisica, scarso soddisfacimento delle sue necessità materiali per miseria, deficienza dei modelli pedagogici e una certa facilitazione ad iniziare anche lui un consumo di alcool, come avviene in alcune regioni, dove sono stati descritti stati di etilismo in bambini di 7-9 anni.
Studi recentissimi (Allnutt e Braford et al., 1996) hanno poi messo in evidenza la frequenza di alcoolisti tra i pedofili, gli autori di incesti, gli esibizionisti e i feticisti, ma specialmente tra i sadici: gli alcoolisti sono tra questi ultimi oltre il 50%. Viceversa (Green, 1995), le vittime di pedofili e comunque di violenza sessuale divengono facilmente tossico e alcool dipendenti per l'azione ansiolitica e antidepressiva di queste droghe.
Veniamo a parlare ora della sindrome feto alcoolica. Il problema dei figli di alcoolisti diviene sempre più grave con l'aumento del consumo di alcool in Italia, rispetto ad altri Paesi e nelle donne rispetto agli uomini; il rapporto maschi/femmine è passato da 1/9 a 1/4 negli ultimi trent'anni (Eibenstein, 1994) con larga probabilità di una sottovalutazione per le donne. La sindrome feto alcoolica, conclamata o frusta, è la terza causa di handicap mentale dei bambini, dopo la sindrome di Down e i difetti del tubo neurale. Per i figli di tossicodipendenti è nota la frequenza dell'epatite B e C, dell'HIV e la facilità di malnutrizione è legata a trascuratezza dei genitori.
L'HIV del bambino è proporzionalmente molto frequente in Italia, dove l'HIV è particolarmente legato alle tossicodipendenze e perciò anche alle pazienti di sesso femminile. Gli operatori sociali tendenzialmente, di fronte a propositi e manifestazioni di affetto, vorrebbero, per favorire il recupero della madre e a volte anche del padre, affidare loro il bambino.
Non abbiamo grande esperienza al riguardo, ma abbiamo spesso dovuto contrastare tale tendenza in caso di alcooliste o di psicotiche: sono stati bambini esposti a grave rischio con risultati il più delle volte nulli per la madre.
Studi (Ripple, Luther, 1996) sono stati recentemente condotti sui fattori familiari nell'infanzia tossico e alcool dipendenti e in particolare sono interessanti gli studi di Risser, Bonsch e Schneider sull'infanzia di tossicodipendenti morti (Vienna 1996), che constatarono come l'80% di questi soggetti avesse subito gravi eventi traumatici familiari (morte di un genitore, divorzio, alcoolismo specie del padre e violenza sempre da parte paterna; tra le madri vi era un elevato numero di psicotiche).
Bisogna però anche citare le esperienze di Yater e coll. (1996) che in soggetti figli di alcoolisti e tossicodipendenti adottati precocemente e immessi in famiglie normali hanno riscontrato un'incidenza abbastanza elevata di tossicodipendenze e di alcool dipendenze, confermando precedenti autori che avevano trovato un'influenza genetica dei disturbi.

Figli di immigrati
Studi recenti (Salvioli, Bertollini, Di Lallo) sono stati compiuti, anche in Italia, sui figli di immigrati. li problema in Italia è meno grave che in altri Paesi, ma è in rapido aumento sia per i bambini di immigrati nati in Italia, sia per quelli entrati in Italia soli o con la famiglia.
Un primo problema è quello del basso peso alla nascita (inferiore a kg. 2,500) e ciò specialmente tra i nomadi (18,4% contro il 5,5% degli italiani), correlativamente vi è una più alta mortalità perinatale.
Per quanto riguarda i ricoveri ospedalieri, risultano molto più frequenti tra gli immigrati quelli per malattie dell'apparato digerente e respiratorio nei primi anni di vita, in particolare da 0 a 14 anni, quelli per traumi dovuti in parte a violenza familiare ed extrafamiliare e in parte a mancata sorveglianza.
Per quel che riguarda le malattie infettive si può affermare errata l'opinione che gli immigrati abbiano prodotto una diffusione di malattie infettive e particolarmente di tubercolosi, malaria, parassitosi intestinali, Leishmaniosi, echinococcosi, tripanosomiasi, etc. nella nostra popolazione. Questo non esclude che il pericolo possa in futuro esserci per i bambini italiani, specie quando si sarà ristretto lo stato di segregazione in cui vivono gli immigrati.
Risulta invece, ad esempio per la tubercolosi, che le condizioni di sovraffollamento, le tossicodipendenze, la difficoltà di accesso ai servizi sanitari creano nell'immigrato un rischio di malattia superiore a quello dei suoi coetanei rimasti in patria. L'immigrato rischia più per le malattie che può contrarre nelle sue condizioni di miseria, che per la patologia da importazione.
Da ricordare che affezioni ereditarie la drepanocitosi, la talassemia, il deficit di G6PD.
Non bisogna fidarsi delle vaccinazioni eseguite nel luogo di origine, sia per la non attendibilità delle registrazioni, sia per la poca affidabilità nella conservazione dei vaccini in Paesi sottosviluppati. Affezioni nutrizionali gravi, come il marasma o il kwashiorkor sono rare tra gli immigrati, frequenti sono invece il deficit di accrescimento staturale e specie ponderale, il rachitismo e la sideropenia (Salvioli).
Una patologia da non sottovalutare è quella della sfera psico-comportamentale, legata a condizioni socio-economiche, a difficoltà di comunicazione linguistica, all'insuccesso scolastico o alla ascolarità e, in particolare presso i nomadi, ai maltrattamenti, all'accattonaggio, al rifiuto dei servizi e all'apprendistato di attività asociali.

Figli di nomadi
Non si può ridurre il problema dei nomadi ad un'unica dimensione, perché si tratta di popolazioni diverse, con diverso grado di assimilazione della nostra civiltà.
In Italia dovrebbero esserci poco meno di 100.000 zingari, di etnia Sinti, provenienti nei secoli passati sia dai Balcani sia dai territori slavi, ungheresi o montenegrini; di questi gli ultimi arrivarono dopo la prima guerra mondiale. Si tratta di popolazioni in parte integrate, viventi in larga misura in abitazioni fisse.
Dal 1960 si è sviluppata invece un'emigrazione in Italia di nomadi Rom, di origine iugoslava, che raggiungono le 10.000-15.000 unità, che vivono nei campi e che, essendo venuti meno i mestieri tradizionali, come l'allevamento dei cavalli, l'artigianato del rame, la musica nei locali e anche, il più nuovo, quello delle giostre, si sono trovati in condizioni precarie, non sapendo trovare immediate alternative occupazionali.
Una delle caratteristiche di queste popolazioni è l'enorme incremento demografico, come da Terzo mondo; si accompagnano alla natalità un insieme di matrimoni precocissimi e una vita media molto bassa, cosicché ben il 70%, in uno studio torinese, aveva meno di 20 anni e solo un 3% aveva più di 50 anni. Ora che i Rom cominciano a sapersi servire dei servizi sanitari pubblici e che sta crollando la mortalità infantile, nascono i problemi di assistenza, di scolarizzazione e di prevenzione della devianza.
I problemi economici sono aggravati proprio dal fatto che le comunità di Rom venivano mantenute dal lavoro dei bambini e delle donne: i bambini sono a tal punto ricchezza che altri ne vengono comprati o rubati, spesso in Iugoslavia, i cosiddetti "argati", per essere utilizzati nel furto o nel "menghel", cioè nell'accattonaggio. Sono le donne e i bambini che reggono la comunità, e in particolare i bambini, senza documenti, dichiarati sempre infraquattordicenni, al riparo del nostro Codice penale. Specialmente negli anni Ottanta sono stati sistematicamente adibiti al furto. Si immagini l'aggravamento per la comunità se vietiamo anche il lavoro minorile e pretendiamo un certo obbligo scolastico!
I loro problemi sanitari sono numerosissimi: peso alla nascita molto basso, percentuale di immaturità quattro volte quella della restante popolazione; broncopolmoniti gravi e ripetute, gastroenteriti con esito in grave disidratazione: uno di noi, primario pediatra nella provincia di Roma, ritiene di aver avuto casi gravi, nel suo reparto, più tra i Rom che rispetto a tutto il resto della popolazione. Le madri trattenute a curare i figli in ospedale lo fanno con affetto, anche se vengono, in genere, richiamate dalla comunità che ha bisogno di loro. Spesso il bambino non viene ritirato al momento della dimissione, ma non si tratta di abbandono: sono proprio le condizioni di precarietà in cui vivono a consigliare le madri a lasciare il bambino in ospedale, dove sta sicuramente meglio, più tempo possibile.
Un fenomeno analogo succede per donne in stato di detenzione per piccoli furti: a volte preferiscono non uscire, per non tornare ad essere picchiate sistematicamente dai mariti.
Altro motivo di ricoveri tra i bambini nomadi sono le lesioni da incidenti domestici, specie ustioni, frequentissime per la mancata sorveglianza e per le precarie condizioni delle abitazioni.

Morte dei genitori
Le difficoltà e i disturbi che un bambino può incontrare in seguito alla morte dei genitori sono in rapporto all'età del bambino, alle circostanze del decesso, alla qualità dei rapporti tra il defunto e il bambino e a quella che si riesce ad instaurare, il senso vicario, con altri membri della famiglia e anche al modo in cui la famiglia affronta l'evento e il successivo lutto. In condizioni di vantaggio si trova spesso un nucleo con una religiosità di base che aiuta ad affrontare meglio il lutto; negativa è invece la tendenza a tenere segreto il lutto come un problema che non deve andare al di fuori della famiglia e altrettanto negativo è non affrontare con il bambino, apertamente, il lutto: si è riferito a tale atteggiamento l'insorgere in giovani orfani di alcuni casi di schizofrenia e di asocialità.
L'età è naturalmente fondamentale: il lattante perde le cure in senso quantitativo e specie le cure individualizzate, se a scomparire è stata la madre, mentre nel secondo anno di vita si ha principalmente una sindrome depressiva analoga alla sindrome abbandonica, secondo Spitz.
Ma nel terzo e quarto anno il bambino tende ad interpretare la scomparsa di un genitore come legata anche al comportamento colpevole del bambino stesso, fino a giungere, tra i 4 e i 6 anni, nel caso di morte di un genitore dello stesso sesso del bambino, a farlo ritenere responsabile dell'evento, come legato alle fantasie conflittuali di natura edipica. Il senso di colpa non sparisce mai completamente, anche nel l'adolescenza, come del resto avviene in caso di separazione tra i genitori, che il bambino addebita a sua colpa.
Ugualmente a propria colpa il bambino tende ad interpretare la morte di un fratello, specie se vi erano condizioni di gelosia: sconvolgente può essere la morte improvvisa, sia per AIDS che per incidente.
Il bambino percepisce la morte come un evento permanente solo intorno ai 10 anni, anche se il dolore e il senso di abbandono precedono di molto tale età. I familiari, eventualmente aiutati da psichiatri, debbono spiegare al bambino la causa della morte del genitore: assicurarlo che non ha alcuna colpa, consentirgli di piangere apertamente la perdita e di parlarne.
Il suicidio di un genitore va spiegato nel senso di una sua malattia, senza caricare l'evento di un senso di colpa, sia sul suicida, che sui familiari.
I casi di psicosi più o meno larvate sono spesso l'esito di un lutto che si sovrappone a precedenti disturbi della sfera emotiva con limitate capacità di adattamento.

Malattia mentale dei genitori
L'influenza di malattie mentali dei genitori in senso ereditario è stata sopravvalutata, ma non si può negare; molto importanti invece, anche perché su di esse si' può agire, sono le distorsioni che si creano nei rapporti di un genitore psicotico con il figlio.
Una madre depressa può determinare Una carenza di cure, se non vi sono altri parenti in grado di supplire, con esito nel bambino di un ritardo di sviluppo. Alcune volte le pazienti depresse si aggrappano al figlio per trovare un aiuto e tentano di fare in modo che anche il piccolo si aggrappi a loro. Genitori, e specie madri con sindromi depressive, possono determinare nei figli crisi di depressione, sbalzi nell'umore e nella affettività. In figli di donne schizofreniche si sono osservati anche disturbi del linguaggio.
In figli di psicotici sono abbastanza comuni disturbi emotivi e del comportamento. In alcuni bambini vi è un senso di colpa nella convinzione di aver contribuito essi stessi alla malattia dei genitori.
Nei casi di ospedalizzazione della madre la reazione, se vi era stato un lungo periodo di gravi disturbi, può essere di miglioramento della situazione. In casi in cui il ricovero avviene in un periodo di relativa tranquillità, l'ospedalizzazione è invece vissuta come la perdita del genitore.
E' molto frequente che un genitore fortemente disturbato sia convinto che è il figlio ad avere delle reazioni anormali; vi è spesso, anzi, la tendenza a riempire il figlio di medicine, rappresentando la cura del figlio un modo di scaricare la tensione della madre.
Figli di madri subnormali dovrebbero giovarsi di servizi di aiuto familiare, di scuole materne e di scuole ad orario prolungato.

Rifiuto di cure - Eccesso di cure
Passando ai bambini in difficoltà per rifiuto di cure essenziali da parte dei genitori o per trattamenti anomali, empirici e dannosi, dobbiamo citare innanzitutto il caso di sottrazione del bambino ad un centro immaturi o ad un intervento chirurgico.
li rifiuto di trasfusioni può avere carattere religioso (testimoni di Geova). Vi sono stati casi seguiti da processi penali per la morte del bambino. In casi del genere il medico deve agire in senso preventivo; deve, cioè, rivolgendosi al Tribunale per i Minorenni, far eseguire coattivamente il ricovero o l'intervento, non, invece, far condannare, dopo il decesso, i responsabili, specie nel caso di omissioni per motivi religiosi. Vi sono problemi a far condannare qualcuno per la propria fede, ma si deve essere decisi nel far praticare gli interventi essenziali, a vantaggio di minori.
Pratiche di medicine alternative sono dannose perché si trascura la diagnosi e la cura corretta. Per quanto riguarda pratiche crudeli, come l'infibulazione, il medico deve opporsi, nonostante il rispetto dovuto alla varie culture e religioni.
Un aspetto a sé riguarda il rifiuto di vaccinare i figli, diritto rivendicato da privati e associazioni sulla base che nel nostro ordinamento costituzionale, di tipo personalistico, il trattamento coattivo non dovrebbe essere ammesso. A far chiarezza era intervenuta la Corte Costituzionale che con sentenza n. 307 del 1990, facendo riferimento al concetto di salute (Costituzione, art. 31) non solo come diritto del singolo ma anche come interesse della collettività, aveva sancito la legittimità delle vaccinazioni obbligatorie in quanto finalizzate a preservare la salute del vaccinato e della collettività. Infatti, salvo che per la vaccinazione antitetanica, la copertura con la vaccinazione di larga parte della popolazione (80-90%) elimina la circolazione dell'agente morboso (Andersen) e perciò viene assicurata anche la protezione della comunità.
Ma una recentissima sentenza della Cassazione (1997) ha mandato assolti dei genitori che si erano rifiutati di vaccinare i figli, sul principio appunto che in Italia non sono ammesse cure coatte. Non conosciamo le motivazioni della sentenza, ma vi è da osservare che, nell'applicazione di un principio di libertà, se ne calpesta un altro, che sembrava una conquista della civiltà e cioè che il diritto di patria potestà non è assoluto, ma è subordinato agli interessi del figlio. Se il rischio da vaccinazione è inferiore a quello delle malattie contro cui ci si vaccina, il genitore non dovrebbe avere il diritto di non vaccinare il figlio; la libertà di non curarsi è per sé, non per i figli.
L'assurdo nella lotta alle vaccinazioni è che si calcola il rischio delle vaccinazioni in confronto con quello della malattia in una popolazione di vaccinati ove la malattia è sparita (vedi il caso della poliomielite) proprio grazie alla vaccinazione. Quanto ai farmaci inutili o dannosi vi è un abuso senza limiti. I ricostituenti negli anni '50-'80 erano prescritti sempre, specie dai medici degli enti mutualistici, perché la mancata prescrizione veniva interpretata come un asservimento del medico all'ente di assistenza, per esigenze di risparmio di quest'ultimo. Spesso rimanevano negli armadi, ma a volte, purtroppo, venivano usati.
Dannosi sono stati particolarmente i preparati di vitamina D a dosi urto, che, in seguito a relazioni autorevoli, non avrebbero avuto più diritto di cittadinanza, per nessuna diagnosi in pediatria, già dal 1952 (Frontali), perché pericolosi e che invece tuttora vengono usati; dannosi senz'altro anche i preparati anabolizzanti ormonali, usati nell'illusione di avere figli più grossi e più forti; inutili i prodotti per stimolare l'appetito e gli antianemici, salvo in casi di accertata diagnosi di anemia, specie con iposideremia.
L'uso degli antibiotici, senza la prescrizione medica, o prescritti in seguito a sollecitazioni pressanti, è un altro capitolo degli abusi che tuttora persistono.
Ma forse l'abuso più documentato, specie negli Stati Uniti, è quello degli psicofarmaci, sia in caso di bambino iperattivo sia in caso di bambino ipoattivo, sia in caso di difficoltà scolastiche. Circa un milione di bambini ogni anno in America ingerisce psicofarmaci (Schrag, Divory, 1980), così da essere farmacologicamente "controllato". Un'altra esigenza è che il bambino dorma e naturalmente il sonno, se non viene, bisogna provocarlo.
Passando alla trascuratezza alimentare, risulta chiaro che la ipoalimentazione è molto ridotta nelle nostre popolazioni; i pochi casi sono però in prevalenza dovuti non tanto a povertà quanto a disordine e inerzia (ad es., figli di alcoolisti e di tossicodipendenti).
Una pratica incongrua è la somministrazione di alcool (in genere vino). Marchi a Trieste e Gorizia, nel 1997, ha trovato che era abbastanza comune il consumo di vino a 8-10 anni e quello di superalcoolici a 12 anni.
Una forma di trascuratezza alimentare è quella di accettare, per evitare contrasti e per semplificare il proprio compito, un'alimentazione unilaterale, e perciò cadenzata su gusto e scelta del bambino. Frequentissima è l'alimentazione al biberon, per 3-4 anni, con latte, biscotti e zucchero.
E' trascuratezza anche l'eccesso. Fomon riporta che il 92% dei bambini americani di 2-3 anni assume più di 2-3 volte il fabbisogno in proteine. Da noi la situazione ci risulta analoga.
La trascuratezza in campo di istruzione si verifica nella maniera più evidente con l'evasione dell'obbligo scolastico, che coincide spesso con l'invio del bambino al lavoro in età non ammessa o con l'uso dello stesso per accattonaggio o per attività asociali (es. furto). Trattandosi spesso di famiglie in condizioni socio-culturali precarie o di nomadi, si può concedere un'assistenza contro certificato di effettiva frequenza scolastica.

Figli di divorziati
Lo studio dei figli di divorziati è stato, in passato, fatto su campione di bambini a divorzio già avvenuto, confondendo perciò l'effetto del divorzio con quello delle condizioni che avevano dato luogo allo stesso e assumendo il divorzio come un atto e non come l'esito di un processo, più o meno lungo, di difficoltà familiari. Si partì anzi dalla raccolta, in un'unica categoria, nell'immediato dopoguerra, dei figli di tutte le famiglie disgregate e si affermò (Heuyer) che tra essi si trova il 90% di adolescenti devianti; sulla stessa linea la rivista Pediatrie, che ancora nel 1981 affermava che i figli di divorziati erano numerosi tra i devianti.
La descrizione di tutti gli autori (es., Le Moal) fa perno su disturbi della psiche dei figli, che sarebbero anoressici, con personalità solitarie, ansiosi e depressi, con frequenza di "pavor nocturnus". Farebbero riscontro una certa ipermaturità e precocità intellettiva. Negli stessi studi i genitori appaiono emotivamente immaturi nell'insieme di un evento, il divorzio, che rompe il quadro della famiglia intesa come base della società. In questi studi vi è spesso una concezione manichea, il coniuge buono è quello che vive secondo la morale del gruppo, il cattivo, l'altro che rompe doveri e consuetudini.
Circa vent'anni fa si cominciò finalmente a studiare il divorzio sia durante il processo di crisi familiare che porta ad esso, sia longitudinalmente, negli anni successivi al divorzio stesso.
Nel Journal of divorze del 1981 si afferma che gli stessi bambini chiariscono che dopo il divorzio non aumentano i loro disturbi, già evidenti nel periodo della vita familiare conflittuale. Hetherington, con studi su bambini piccoli, dimostrò invece che i maggiori disturbi si avevano entro il primo anno dopo il divorzio, forse anche per le maggiori difficoltà dei genitori, che si mostravano più turbati dei figli. Si può affermare, in sintesi, che in un periodo di due anni si raggiunge un certo equilibrio, sia per i genitori che per i Figli, pur rimanendo per alcuni bambini una situazione difficile, che spesso riappare dopo anni di apparente adattamento.
La situazione conflittuale porta a violenza fisica tra i genitori e spesso sul bambino spesso; comunque i bambini più grandi vivono questo clima di violenza, mentre per i più piccoli può essere una sorpresa che uno dei genitori abbandoni la casa, creando naturalmente una brusca variazione degli schemi della loro vita.
Essendosi verificato con la separazione non solo il peggioramento della situazione economica, per una deficienza di contributi da parte del padre separato e per le difficoltà di lavoro della madre che, non avendo prima lavorato, non riesce ad assumere un posto ben retribuito, ma anche un danno per il bambino dal cambiamento di abitazione, la magistratura si è orientata in modo da lasciare nella loro casa i bambini e, naturalmente, il genitore al quale sono affidati, di chiunque sia la proprietà.
Dopo 1-2 anni si ha di solito un buon adattamento, ma altri problemi sorgono con la presenza di nuovi-partners dei genitori.
Da Wallenstein sono descritti i più comuni disturbi e atteggiamenti dei bambini in rapporto all'età in cui si è avuta la separazione dei genitori.
In sintesi, è difficile evidenziare i disturbi dei bambini al di sotto dei due anni, disturbi che in genere coincidono con crisi abbandoniche, se è la madre a sparire, e che sono meno evidenti per il padre.
Dai due ai 5 anni si può avere regressione, disturbi del sonno, irritabilità, ansia di separazione con richiesta di contatto fisico, riduzione dell'attività ludica, paura dell'abbandono anche da parte dell'altro genitore e senso di colpa per la separazione.
Tra i 5 e gli 8 anni la reazione è apparentemente più grave: vi possono essere il rifiuto della nuova situazione e un'aperta afflizione. Si accompagnano spesso un desiderio per il genitore che è andato via e fantasia su un suo ritorno. Grave è la paura di essere "gettati via", nei ragazzi lasciati dal padre. Vi è un declino delle prestazioni scolastiche e un deterioramento dei rapporti sociali con i coetanei, disturbi che sono vivi anche nelle età successive.
Tra i 9 e i 12 anni il ragazzo finge noncuranza per il problema familiare e di cui non vuole parlare, ma accompagnata a rabbia intensa contro uno o entrambi i genitori. In tale età viene facilmente eletto come alleato da parte di un genitore, spesso la madre, perché il padre viene accusato di essere stato la causa dell'abbandono, anche se alla stessa madre si rimprovera di non essere stata capace di conservargli il padre.
Dopo cinque anni di divorzio, in età adolescenziale, un terzo dei soggetti presenta angosce e turbe psichiche e il sintomo più frequente è la depressione. Non vi è rapporto tra l'adattamento alla nuova situazione, che si realizza, come si è detto, spesso entro due anni dalla separazione e la possibilità di questi danni permanenti in una, non irrisoria minoranza dei soggetti. Naturalmente gli adattamenti sono peggiori quando i bambini sono affidati ad una madre depressa o quando i contrasti tra i genitori continuano. Il trattamento dei figli di divorziati esige:
- che i bambini vengano rassicurati che la loro vita familiare non subirà altre perdite; perciò molto dannose sono le incertezze delle decisioni dei genitori sulla separazione: la nuova situazione deve essere ritenuta stabile;
- che vengano rassicurati che la separazione non ècolpa del bambino e che lui non può far niente per raddrizzare la situazione;
- che vengano edotti delle nuove abitudini di vita e di visita da parte dell'altro genitore;
- che si spieghi loro il perché della separazione, ammesso che sia possibile, rassicurandoli che potranno vedere ed amare entrambi i genitori;
- che non ci si aspetta da loro una presa di posizione a favore dell'uno o dell'altro genitore;
- che potranno esprimere anche le proprie posizioni di disappunto e di dolore.
Un ruolo particolare è quello dei nonni: i genitori della madre sono spesso chiamati ad aiutarla, creando dei ruoli vicari con reazioni a volte conflittuali con la propria figlia e immagini sovrapposte a quelle dei genitori. I genitori del coniuge che non ha i figli, sentendosi spesso declassati, sono i più impegnati a cercare di ottenere i favori dei nipoti e a trasformarsi in befane. Non deve avvenire che i nonni si facciano portavoce dei dissapori familiari, ponendo il bambino in una difficile situazione di arbitro di una condizione anomala. I figli di separati, a parte i danni legati alla loro condizione, vengono spesso danneggiati anche da provvedimenti incongrui dovuti alla necessità di garantire i diritti degli adulti, come l'affidamento un week-end al padre e uno alla madre, creandosi perciò una doppia casa, un doppio letto, un doppio insieme di rapporti e di abitudini. A volte al ritorno dal weekend con il padre, le madri, cui sono affidati nel 90% dei casi, portano i bambini in ambulatorio (in ospedale è classico l'ambulatorio del lunedì dei figli di separati) per farli esaminare sullo stato di salute e su eventuali abusi subiti dal piccolo e l'ambulatorio del sabato con le madri che portano i figli in ospedale per farli risultare malati e non darli ai padri per i week-end. Sarebbe opportuno che si creasse, come da alcune proposte di legge, il Tribunale della Famiglia che assorba i compiti del Tribunale per i Minorenni e quelli del Giudice Civile oggi competente per le separazioni, facendo in modo che un organo tecnico, come già è, in parte, il Tribunale per i minorenni, assolva anche i delicati compiti per l'affidamento nei casi di separazione o di divorzio. Le decisioni dovrebbero essere prese nell'esclusivo interesse del bambino, prescindendo da diritti, colpe e meriti degli adulti.

Lavoro delle madri - Bambini dei nidi
Per quanto riguarda i bambini dei nidi, non vogliamo qui affrontare gli aspetti psicologici; possono esservi danni da separazione e vantaggi da socializzazione precoce: dipende dall'età del bambino e dalla validità della istituzione. Certo, comunque, non vi può essere una socializzazione tra le culle: il nido per lattanti è dunque solo dannoso.
Vogliamo, invece, porre l'accento sulla patologia dei nidi, molto vicina a quella dei brefotrofi, con affezioni "banali" respiratorie 3-4 volte più frequenti che negli altri bambini, cori infezioni da hemophilus e da VRS anche dieci volte più frequenti, con elevato contagio per giardiasi e per citomegalovirus (Assenzio e coll., Menichella e Ricci, Pass e coll., Seal, Goodman, Osterholm, Loda). I giorni di assenza dei bambini dal nido sono intorno al 50% dei giorni di apertura dei nidi (90-120 giorni contro circa 200). I bambini dei nidi sono spesso destinati ad essere dei bronchitici cronici, degli affetti da adenoidismo e da otiti ricorrenti.
L'invio al nido è, a volte, una necessità per la famiglia, mai per la comunità, che con qualunque forma di assistenza alla famiglia spenderebbe molto meno che con i nidi. Il costo di un giorno di presenza del bambino supera il valore di una giornata lavorativa della madre. A Roma il costo è stato (1993) di 1.700.000 al mese a bambino iscritto.
A volte, però, l'invio al nido non è una necessità, ma è una scelta per evitare di affidare i bambini a prenti, a nonni o bambinaie e per la propaganda che viene fatta alla liberazione della lavoratrice e ai servizi di comunità. Bisogna però chiarire che l'interesse del bambino è innanzitutto quello di non ammalarsi.
La soluzione per la comunità è quella di dare assegni alle madri, per permettere loro di assistere direttamente i figli piccoli, al disotto di 2-3 anni. Naturalmente, è tutta una politica assistenziale che va rivista; bisogna favorire il part time, come in Olanda e in Inghilterra, dove oltre la metà delle donne, e quasi tutte le madri, hanno orari di 16-18 ore settimanali, e favorire le famiglie monoreddito, perché una madre operi, in piena libertà, una scelta.
vincenzo e giovanna menichella

(2-continua)


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000