LEOPARDI CRITICO "PROGRESSISTA" DEL PROGRESSO




Nicola Carducci



Il "ribelle"
L'alterità di Leopardi nell'età che fu sua, l'età della Restaurazione, investe i tre aspetti della sua attività intellettuale: il poetico-letterario, il filosofico, l'ideologico-politico. Nella conclamata ufficiale adesione alle idee della Staël, la presa di posizione di Leopardi è discorde e, a vent'anni, scrive il "Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica", tanto lontano dalle opinioni del Manzoni in proposito; e non importa che con gli anni la tesi giovanile subisca dei mutamenti.
Il pensiero dominante nel "secol superbo e sciocco" è di segno spiritualista, ed è il pensiero nel quale si riconoscono gli "amici di Toscana" dell'"Antologia" e gli scrittori napoletani del "Progresso", mentre Leopardi si orienta con crescente convinzione verso il materialismo. Gli ideali risorgimentali, infine, accendono gli animi dei più, e Leopardi, dopo il giovanile tributo delle canzoni "All'Italia" e "Sopra il monumento di Dante", non li rinnega ma certo li ridiscute, riconoscendo nel loro culto elementi di mistificazione, senza con ciò confondersi in tendenze reazionarie o con il riformismo aristocratico dei moderati, e concepisce i "Paralipomeni della Batracomiomachia".
Leopardi dunque si colloca agli antipodi del "savio" Alessandro Manzoni (1). Il nodo della contrapposizione, che coinvolge il più vasto schieramento dei sodali dell'"Antologia", si intriga nell'idea di progresso, che è uno dei cardini della nozione di civiltà, dal significato non univoco (2). Nel 1828 Leopardi è a Firenze e al primo impatto con i riformisti dell'"Antologia" il rapporto non si rivela dei più facili, è, anzi, apertamente conflittuale. Il loro finalismo, intento a perseguire la causa del "progresso", si inseriva in una visuale storica che ne eludeva le profonde contraddizioni interne. Leopardi così si confidava con il Giordani, con lettera del 24 luglio: "Mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente la inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall'età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli Stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente mi domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degli individui. I quali sono condannati alla infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso; e per conforto di questa infelicità inevitabile mi pare che vagliano sopra ogni cosa gli studi del bello, gli affetti, le immaginazioni, le illusioni" (3). Sul carattere non pragmatico della cultura letteraria, "staffetta del progresso civile", Leopardi insiste in varie occasioni, per rivendicarne piuttosto la pura funzione "consolatoria". Intanto il porro unum necessarium è predeterminato, cioè il perseguimento della felicità degli individui quale presupposto della felicità dei popoli; interesse teorico, peraltro, risalente alla adolescenziale acerba "Orazione agli Italiani", del 1815, sotto forma d'interrogativo retorico: "Un popolo, come il nostro generoso e nobile, colle immense risorse somministrate dal suo territorio e dalle sue facoltà intellettuali, potrebbe concepire dei vasti disegni e ottenere dei grandi successi [...]. Ma l'Italia sarebbe perciò felice?"(4).
I temi chiave che sostengono il sistema d'idee di Leopardi, la natura, la ragione, la felicità, alternativamente o contrastivamente interferenti, ispirano al tempo stesso riflessione e sentimento in lui, in un nesso dialettico che giustifica la definizione, che già Heidegger ebbe ad adoperare per Hölderlin, di "poesia pensante" e di "pensiero poetante" anche per l'opera leopardiana. La nozione di progresso e correlativamente di civiltà si commisura alla stregua dei tre temi su riferiti, già nel "Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani", del 1824: "Non è da dissimulare che considerando le opinioni e lo stato presente dei popoli, la quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possono fondare i principi morali, e di tutte quelle opinioni fuor delle quali è impossibile che il giusto e l'onesto paia ragionevole, e l'esercizio della virtù degno di un savio, e d'altra parte l'inutilità delle virtù e la utilità decisa del vizio dipendenti dalla politica costituzione delle presenti repubbliche; la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d'altra cagione, e riesce veramente meraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano, si insidiano e cercano in tutti i modi di nuocersi gli uni agli altri" (5). Dove poi, come in Italia, il vincolo e il freno delle leggi, che "sembra ora essere l'unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene" (6), non possono sussistere le condizioni della felicità degli individui e dei popoli. Inoltre, poiché "le leggi senza i costumi non bastano ed i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni", ne discende che, nella universale disgregazione dei principi sociali, in "questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in gran forse circa il futuro destino delle società civili e in grande incertezza del come elle possano durare e sussistere in avvenire" (7), la anodina fiducia degli intellettuali dell'"Antologia" nelle scienze pratiche è votata al fallimento, destituite come esse sono di un fondamento etico (8).
L'autore delle "Canzoni" e dei piccoli "Idilli", nell'imminenza delle Operette morali con sottesa disposizione pedagogica, reclama il primato della poesia nel novero delle scienze umane: "E' tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la filosofia ch'essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più contraria al bello, sieno le facoltà più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad essere gran filosofo, anzi né l'uno né l'altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s'ei non partecipa più che mediocremente dell'altro genere, quanto all'indole primitiva dell'ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell'immaginazione" (9).
Nella "Storia del genere umano", di qua dalla fabulazione mitica, il problema della felicità, "aspirazione massima dell'amma umana", è la chiave di volta di quella "storia" o, meglio ancora, della sua decadenza nella illusorietà di quel fine (10): illusorietà che il progresso tecnico e industriale non attenua, perché impone, a sua volta, enormi costi umani e molteplici inganni (11).

Il paradosso dei Sillografi e l'"eterno ritorno"
Nell'accostarsi al mito delle macchine il disincanto leopardiano erompe in sarcasmo, appena velato di giocosa comicità, nella "Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi", del 1824. Il ruolo delle macchine sconfina in una disarmante feticizzazione; esse fungono da strumenti di alienazione vera e propria, e i tre prototipi, che le macchine producono, nella loro fittizia sublimazione, rivelano, paradossalmente, un bisogno di umanità; ed i loro stampigli, più che una condizione di umanità, tradiscono una grottesca assenza di umanità; assumono la funzione di maschere tragiche del non essere: "Si vanno tutto giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita".
L'Accademia ha così motivo di sperare che "gli uffici e gli usi delle macchine, in successo di tempo, comprendano oltre le cose materiali anche le spirituali", e quindi siano in grado di rigenerare "la persona di un amico, il quale non biasimi e non motteggi l'amico assente" (come non di rado si comporteranno con l'autore della "Palinodia" gli "amici di Toscana"); oppure "un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime" (strabiliante prodromo della clonazione nel terzo millennio dell'èra cristiana); o infine, "una donna conforme a quella immaginata, parte da Baldassar Castiglione, parte da altri, i quali ne ragionano in vari scritti che si troveranno senza fatica", con quelle mansioni che era riuscito a "fabbricarsi, in tempi antichissimi, Pigmalione".
Un possibile superamento della "civiltà delle macchine" non consiste, evidentemente, nell'improbabile abrasione del loro impiego, perché si regredirebbe all'età della pietra e della fionda, bensì nella sussunzione umanistica della loro funzione, che non sarebbe dunque né sostitutiva né alternativa ma organicamente subalterna, finalizzata cioè alla rifondazione di un modello di umanità affrancata da ogni forma di schiavitù. E' la "ragione negativa" che stimola alla grande utopia leopardiana, di un genere umano "altro", libero da condizionamenti che non siano eticamente autonomi, di qua da ogni infatuazione del progresso tecnico (12).
Il rifiuto del macchinismo feticizzante muove innanzitutto in Leopardi dalla visione di una Natura sinonimo di autenticità dello specifico umano: la Natura degli antichi, antropologicamente scevri degli artifici delle macchine, il cui abuso, nei tempi moderni, appare segnacolo piuttosto d'imbarbarimento che d'incivilimento. In un passo zibaldoniano del 1826 si legge: "Se una volta in processo di tempo l'invenzione per esempio del parafulmine (che ora bisogna convenire di molto poca utilità) piglierà più consistenza, diverrà di uso più sicuro, più considerevole e più generale; se i palloni aerostatici, e l'aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l'uso ne diverrà comune, e l'utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà, cc.; se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi ce. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cambiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverosimile; e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questi effetti; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui ed estremi timori di difficoltà, stenteranno a comprendere come si potesse menare e sopportare la vita essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste, dei fulmini cc., navigare con tanto rischio di sommergersi, commerciare e comunicare coi lontani essendo sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l'uso dei telegrafi, ce., considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di comunicazione, la loro incertezza cc. Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo di questa tanta impossibilità o difficoltà di vivere che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me che altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l'uso del fuoco, della navigazione cc. cc., quegli uomini che noi, specialmente in questo secolo, con magnifiche dicerie rettoriche predichiamo come esposti a continui pericoli, continui ed immensi disagi, bestie feroci, intemperie, fame, sete; come continuamente palpitanti e tremanti dalla paura, e tra perpetui patimenti, cc. E credete a me che la considerazione detta di sopra è una perfetta soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione" (13).
La definiremmo una pagina di filosofia della storia per la complessa struttura concettuale di taglio ipotetico, che pone a nudo una sorta di fenomenologia dell'"eterno ritorno". E se le invenzioni assicurano oggettivamente una certa quantità di benefici all'uomo, non per questo esse rappresentano obbligati parametri di paragone, cui debbano confrontarsi le varie epoche per definirne il grado d'incivilimento in assoluto: la storia umana, insomma, "non può essere pensata come una strada in salita della quale è un privilegio percorrere gli ultimi tratti" (14).
La prospettiva parmenidea del presunto flusso avvenimentizio, percepito con occhio ippocratico, restituisce all'osservatore non prevenuto l'immagine di una folle e fatua rincorsa dei "trovati tecnici e scientifici", che, di fatto, nasconde la chimerica lusinga di un "progredire" indefinito sulla strada della felicità dei popoli, nonostante la sua propria condizione di aleatorietà e instabilità. Un suo effetto è semmai l'acuirsi delle occasioni di dolore o l'intensificarsi dei ritmi angosciosi del Dasein, il rischio di un'insidiosa Geworfenheit, che esclude il naturale protagonista degli scenari della storia. E' un "progredire" estraniante più che coinvolgente, connivente la cinica "seconda natura", in cui s'imbatte l'Islandese, non meno della "ragione proditoria" del "Dialogo di Plotino e di Porfirio", del 1827.

I costi umani del progresso
Ma l'interesse critico di Leopardi per l'uso delle macchine e per il connesso incivilimento affonda anche nella considerazione delle conseguenze dannose per la salute fisica di quanti si dedicano al loro funzionamento; considerazione che non si risolve in un atteggiamento populisticamente umanitario, perché si riporta piuttosto allo stesso leopardiano sistema di idee, con relativa area problematica (15). Leggiamo in un brano dello Zibaldone: "Osservate ancora quanti di quel mestieri che servono alla preparazione di cose anche utilissime, e stimate necessarie alla vita oggidì, sieno per natura nocivi alla salute e alla vita di coloro che gli esercitano. Che ve ne pare? Che la natura abbia molte volte disposto alla sussistenza o al comodo di una specie la distruzione o il danno di un'altra specie, o parte di lei, questo è vero, ed evidente nella storia naturale. Ma che abbia disposta ed ordinata precisamente la distruzione di una parte della stessa specie, al comodo, anzi alla perfezione essenziale dell'altra parte (certo niente più nobile per natura, ma uguale in tutto e per tutto alla parte sopraddetta), questo chi si potrà indurre a crederlo? E questi tali mestieri, ancorché usualissimi, e comunissimi, e riputati necessari alla vita, non saranno barbari, essendo manifestamente contro natura? E quella vita che li richiede e li suppone, non verrà dunque ella pure ad essere evidentemente contro natura? Non sarà dunque barbara?" (16).
Il dissenso leopardiano dalla cultura dominante del suo tempo, che si esalta di economia e di statistica, di monetarismo e d'incivilimento, non deriva da agnostica diffidenza ma poggia sui supporti filosofici medesimi del suo pessimismo attivo, che può così consentire lo smascheramento dei nuovi miti e dei nuovi riti. E Leopardi torna a chiedersi, con lucida ed accorata consapevolezza, "se la natura poteva ragionevolmente porre sì grandi, numerosi, incredibili ostacoli al ritrovamento di un mezzo necessario e principale per ottenere quella che noi chiamiamo perfezione e felicità del genere umano, cioè l'incivilimento, e dico al ritrovamento dell'uso della moneta.
Osservate poi, nella stessa moderna perfezione delle arti, le immense fatiche e miserie che son necessarie per procurar la moneta nella società. Cominciate dal lavoro delle miniere ed estrazioni dei metalli e discendete fino all'ultima opera del conio. Osservate quanti uomini sono necessitati ad una regolare e stabile infelicità, a malattie, a morti, a schiavitù (o gratuita o violenta o mercenaria), a disastri, a miserie, a pene, a travagli d'ogni sorta, per procurare agli altri uomini questo mezzo di civiltà, e preteso mezzo di felicità" (17). Ad un esegeta d'oggi, poco incline a storicizzare, le rimostranze di Leopardi circa l'uso e la circolazione della moneta possono sembrare retrograde nostalgie della "civiltà del baratto", giacché la via maestra dell'incivilimento è stata spianata dalla circolazione del prezioso metallo.
In realtà, Leopardi "passa a contrappelo la storia" (per usare un'efficace metafora benjaminiana) (18), e l'esito dell'operazione riempie le cronache di tutti i tempi. E' il negativo che si annida fra le pieghe dell'incivilimento su cui non sorvola l'attenzione di Leopardi, che incalza: "Ditemi: 1 - se è credibile che la natura abbia posta da principio la perfezione e la felicità degli uomini a questo prezzo, cioè al prezzo della infelicità regolare di una metà degli uomini (E dico una metà considerando non solo questo ma anche gli altri rami della pretesa perfezione sociale, che costano il medesimo prezzo). Ditemi: 2 - se queste miserie dei nostri simili sono consentanee a quella medesima civiltà, alla quale servono. E' noto come la schiavitù sia difesa da molti e molti politici ec. e conservata poi nel fatto anche contro le teorie, come necessaria al comodo, alla perfezione, al bene, alla civiltà della società. E quello che dico della moneta, dico pure delle derrate che ci vengono da lontanissime parti, mediante le stesse e simili miserie, schiavitù, ec. [ ... ]. E vedete da questo come la civiltà (secondo il costume di tutte le false teorie) contraddica a se stessa anche in teoria, ed oltracciò non possa sussistere senza circostanze che ripugnano alla sua natura, e sono assolutamente incivili, anzi barbare in tutta la verità e la forza del termine" (19).
Quale termine implicito di confronto resiste ancora nel pensiero di Leopardi il mondo antico, ricco di generose illusioni, fervido di dilettevoli impegni e di eroiche passioni, cui è poi seguita la decadenza nello "incivilimento"; e alle illusioni è subentrata la "cognizione del vero", alla immaginazione il calcolo utilitaristico ed alle passioni il freddo distorcente raziocinio, il machiavellismo di società, che accresce il grado d'infelicità naturale. Ed ecco che "la perfetta civiltà non può sussistere senza la barbarie perfetta, la perfezione della società senza la imperfezione (e imperfezione nello stesso senso e genere in cui si intende la detta perfezione), e tolta questa imperfezione, si taglierebbero le radici alla pretesa perfezione della società. Torno a domandare se tali contraddizioni ed assurdi è presumibile che fossero ordinati e disposti primordialmente dalla natura, intorno alla perfezione, vale a dire al ben Essere della principal creatura, cioè l'uomo" (20).

"Ribellione" come "saggezza"
Altro che misantropia, come lo si accusava dagli "spiritualisti" di Toscana e di Napoli! Motivata, dunque, la risentita replica di Leopardi: "La mia filosofia non è conducente alla misantropia [ ... ], ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio non sistematico ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero essere chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente al loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini" (21).
Il groviglio delle contraddizioni, in cui annegano i sogni dell'umano progresso e dell'incivilimento, è aggredito da Leopardi con accenti di insolito pathos, specialmente nella contestazione del destino di schiavitù che incombe su masse ingenti di individui; con l'implicito richiamo generalizzato al diritto naturale all'uguaglianza tra gli uomini e tra gli Stati. L'auri sacra fames, che l'uso della moneta scatena, è infatti "l'uno dei principalissimi ostacoli alla conservazione dell'uguaglianza fra gli uomini, e quindi degli Stati liberi, alla preponderanza del merito vero e della virtù cc. ce., e l'una delle principalissime cagioni che introducono, e a poco a poco costringono la società all'oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed intima delle nazioni medesime in quanto erano nazioni" (22).
Le idee del progresso, dello sviluppo provvidenziale, della modernizzazione, della produttività, della libera concorrenza cioè della libertà proprietaria - come osserva Leone de Castris - sono stati i valori della cultura occidentale, magari protetti da una trascendenza che non turbava queste sue proiezioni mondane (23) ; sicché, ridiscutendole sino al rifiuto, Leopardi appare nel suo secolo "una contraddizione non integrabile [ ... ]. E per questa sua condizione perdente, che non è oggetto di giudizio ma va restituita alla sua storicità, vedeva con chiarezza inusitata fenomeni che in qualche modo durano ancora oggi" (24).
Ed in effetti, rimeditando certe sue acquisizioni teoriche, come la polemica antispiritualistica, il rigetto della fiducia assoluta in un progresso inarrestabile, la consapevolezza dei limiti naturali entro cui l'uomo è costretto ad agire, ci accorgiamo - rileva Ugo Dotti, che si richiama ad alcuni scritti dell'ultimo Freud - "che l'avvenire della sensibilità culturale europea, tra Otto e Novecento, fu piuttosto quello indicato da lui, Giacomo Leopardi, che non quello proposto dal Cattaneo e dal Vicusseux" (25).
Ecco il "riso" presago di Tristano-Leopardi, di contro alla bolsa fatuità del secolo che celebra "le magnifiche sorti e progressive", e che tende alla preservazione della propria identità, nell'opaco conformismo di massa: "Mentre tutti gli infimi si credono illustri, l'oscurità e la nullità dell'esito diviene il fato comune e degli infimi e dei sommi. Ma viva la statistica! Vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete" (26).
Nel rileggere oggi la "Palinodia al marchese Gino Capponi", del 1835, si sarebbe quasi tentati di cogliervi non labili presagi dell'epoca nostra, come a volere attribuire al potere impossibili facoltà divinatorie, che sono invece da ricondurre interamente al suo sistema di idee. Di là dall'occasione mediata di quella che è "una sfida lanciata da lontano agli ex amici di Toscana", per il tramite del "candido Gino" (27), l'ironia leopardiana punta direttamente al cuore dell'"aureo secolo" che "ormai volgono i fusi delle Parche", e del quale si nutre la "giornaliera luce delle gazzette", a dispensare di esso secolo "l'opre stupende, e il senno, e le virtudi, e l'alto saver".
Quale inattesa, sorprendente palingenesi rinnova il mondo intero! Perché "universale amore, / ferrate vie, moltiplici commerci, / vapor, tipi e choléra i più divisi / popoli e climi stringeranno insieme.- / né maraviglia fia se pino o quercia / suderà latte e miele, o s'anco al suono / d'un walser danzerà. Tanto la possa / infin qui de' lambicchi e delle storte / e le macchine al cielo emulatrici / crebbero, e tanto cresceranno al tempo / che seguirà.-poiché di meglio in meglio / senza fin vola e volerà mai sempre / di Sem, di Cam e di Giapeto il seme" (vv. 42-54).
Sicché, dopo i fasti della fisiocrazia, non si tarderà ad esperimentare i tripudi del mercantilismo e infine la possanza della smithiana "mano invisibile", perocché "ghiande non ciberà certo la terra / se fame non la forza: il duro / ferro non deporrà. Ben molte volte / argento ed or disprezzerà, contenta / a polizze di cambio" (vv. 55-59). Ma la palingenesi si ribalta in una catastrofe annunciata: "E già dal caro / sangue dei suoi non asterrà la mano / la generosa stirpe: anzi coverte / fien di stragi l'Europa e l'altra riva / dell'atlantico mar, fresca nutrice / di pura civiltà, sempre che spinga / contrarie in campo le fraterne schiere / di pepe o di cannella e d'altro aroma / fatal cagione, o di melate canne, / o cagion qual si sia ch'ad auro torni" (vv. 60-68). Della "fresca nutrice di pura civiltà", proprio nell'anno della "Palinodia", il Tocqueville tesseva lodi e avanzava riserve: foriera, fra l'altro, a non lunga scadenza, come di straordinario progresso tecnologico così di sconfinate ambizioni di egemonia mondiale (28).
A disgregare il nodo gordiano di questa scellerata storia di sangue, di cui è complice la "seconda natura", "madre di parto e di voler matrigna", per Giacomo Leopardi non resta che l'utopia, il protestatarlo sentimento eroico della solidarietà universale, la quale "tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune" ("La ginestra", vv. 130-135) (29).


NOTE
1) U. Dotti, Il savio e il ribelle, Roma, n. ed. accr. 1993.
2) A. Frattini, Considerazioni sull'idea di progresso e sulla sua demistificazione in Leopardi, nel vol. coll. Il pensiero storico e politico di Giacomo Leopardi, Firenze, 1989, pp. 259 sgg.
3) Leopardi. Tutte le opere, con intr. e a cura di W. Binni con la collaborazione di E. Ghidetti, vol. I, Firenze, 1969, p. 1321. D'ora in avanti citeremo da questa edizione. Sul rapporto di Leopardi con gli "amici di Toscana", S. Timpanaro, Antileopardiani e moderati, Pisa, 1982, pp. 112 sgg.
4) Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di F. Flora, Le poesie e le prose, vol. II, Milano, 1958, p. 1075 sg.
5) G. Leopardi, Dei costumi degli italiani, a cura di A. Placanica, Venezia, 1989, p. 124.
6) Ivi, p. 125.
7) Ibidem.
8) U. Carpi, Letteratura e società nella Toscana del Risorgimento. Gli intellettuali dell"'Antologia", Bari, 1974: relative al Leopardi pp. 111 sgg.
9) Zibaldone, 3382, 8 settembre 1823; citiamo secondo la numerazione dell'autografo, riprodotto nella cit. ed. di Binni-Ghidetti, d'ora innanzi Zib.
10) M. De Las Nieves Muñiz Muñiz, Sul concetto di decadenza storica in Leopardi, nel vol. cit. Il pensiero storico, pp. 375 sgg.
11) Li rimarcherà con acume, in pieno Ottocento, J. Stuart Mill, nella dicotomia "progresso materiale" (civilisation) ed "educazione morale" (cultivation): cfr. R. Williams, Cultura e rivoluzione industriale, trad. it., Torino, 1968, p. 81. Anche in Italia, specialmente in Lombardia, tra gli anni Venti e Trenta, sono in atto mutamenti tecnologici nei processi produttivi, per riflesso di quanto accadeva in Inghilterra, e ne scaturisce un dibattito tra gli intellettuali dell'"Antologia" e degli "Annali universali di statistica" (Cfr. R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Torino, 1966, pp. 68 sgg.).
12) E. Giordano, L'età delle macchine: appunti sul concetto leopardiano di "Storia", nel vol. cit. Il pensiero politico, pp. 375 sgg.
13) Zib., 4198-4199, 10 settembre 1826.
14) E. Giordano, op. cit., p. 292.
15) Cfr. M. A. Rigoni, Il pensiero di Leopardi, Milano, 1997, specialmente pp. 175 sgg., saggio utilmente problematico.
16) Zib., 871, 30 marzo 1821.
17) Ibidem.
18) W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, trad. it., Torino, 1962, p. 76.
19) Zib., 1172, 16 giugno 1821. Sui sentimenti egualitari di Leopardi, certamente per influenza roussouviana, Zib., 106, 26 marzo 1820 e 4275, 7 aprile 1827.
20) Zib., 1173, 16 giugno 1821.
21) Zib., 4428, 2 gennaio 1829.
22) Zib., 1174, 16 giugno 1821.
23) A. Leone de Castris, Leopardi: una critica del moderno, in "Allegoria", a.V, n. 13, 1993, p. 49.
24) Ibidem.
25) U. Dotti, op. cit., p. 7: il testo freudiano è "L'avvenire di un'illusione" (Die Zukunft einer Illusion, 1927), in Opere, vol. X, Boringhieri, 1978.
26) Dialogo di Tristano e di un amico, del 1832: cfr. l'acuto saggio di A. Ferraris, L'ultimo Leopardi, Torino, 1987, pp. 3-34 ("Il riso di Tristano").
27) C. Dionisotti, Appunti sui moderni, Bologna, 1988, p. 137.
28) A. De Tocqueville, La démocratie en Amérique: "La prima di tutte le distinzioni sociali in America è il denaro. Il denaro crea nella società una vera classe privilegiata che si tiene in disparte e fa sentire assai brutalmente a tutte le altre la sua preminenza [ ... ]. Da un lato la scienza industriale fa retrocedere continuamente la classe degli operai, dall'altra innalza quella dei padroni"; accanto poi all'aristocrazia industriale c'è l'aristocrazia commerciale, la quale "non si fissa quasi mai in mezzo alla popolazione operaia ch'essa dirige; il suo scopo non è di governarla ma di sfruttarla", in Dizionario delle idee, a cura di Graziella Pisanò, Roma, 1997, pp. 47 sgg.
29) Non è mancato qualche studioso, come Nino Borsellino, che ha avvertito nel canto leopardiano una tensione più che umanitaria: Il socialismo della "Ginestra", Poggibonsi, 1992.
Sull'avversione del Leopardi ad ogni forma di violenza contro il proprio simile, Zib., 4197, 10 settembre 1826: "Che gli uomini abbiano trovato ed usino arti e regole per combattere e vincere gli uomini stessi; che queste sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti ugualmente le apprendan ed usino, o le possan apprendere ed usare, questo ha dell'assurdo".


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