LUOGHI COMUNI DEGLI ANNI CINQUANTA




Giuseppe Gubitosi
Docente di Storia della Comunicazione di massa - Univ. di Perugia



"La proiezione - ha scritto Edgar Morin - è un processo universale e multiforme. I nostri bisogni, le nostre aspirazioni e ossessioni, i nostri desideri e i nostri timori si proiettano non solo nel vuoto sotto forma di sogni e immaginazioni, bensì su ogni cosa e su ogni essere". Lo stesso Morin ha così definito l'identificazione: "Nell'identificazione, il soggetto assorbe il mondo in se stesso invece di proiettarsi nel mondo. L'identificazione "incorpora nell'io il mondo circostante" e lo integra affettivamente". Se, dunque, come sostiene Morin, i processi di proiezione e identificazione (che sono complementari) sono alla base del cinema, si può capire come questo mezzo di comunicazione di massa abbia amplificato gli elementi costitutivi dello stereotipo del meridionale e abbia contribuito al suo consolidamento e alla sua diffusione.
Del resto anche Benedetto Croce nel ricostruire lo stereotipo del napoletano ha rivolto la sua attenzione alla commedia (Il tipo del napoletano nella commedia), un genere che non solo è fondato sulla tipizzazione, ma è anche strettamente dipendente dalla comunicazione con il pubblico. Ma Croce sapeva che i personaggi teatrali, ancorché tipici e quindi significativi di rappresentazioni preesistenti al teatro stesso, costituivano un impoverimento della realtà esterna alla scena teatrale. Quindi lo stereotipo del meridionale non è nato né nel testi letterari (comprese le lettere, ufficiali e private) né sui palcoscenici e tanto meno sugli schermi cinematografici.
Tuttavia la comunicazione teatrale prima e i grandi mezzi di comunicazione di massa poi si sono impossessati del "tipo del napoletano". Ciò fa di essi un mezzo indispensabile per capire i tratti più forti di questo "tipo". Ciò vale anche per il cinema italiano del periodo successivo agli anni '50, il quale, lasciatosi alle spalle il neorealismo, ha fatto ampio ricorso agli stereotipi. Si pensi ai personaggi di Alberto Sordi, tutti costruiti come stereotipi: dal medico della mutua al tassinaro, dal vigile all'avvocato. Ma si pensi anche ai personaggi di Dino Risi, in genere interpretati da Vittorio Gassman, da Ugo Tognazzi o da Alberto Sordi, dal giornalista di sinistra (Una vita difficile, 1961) all'italiano degli anni del boom, convinto che per essere moderni basta possedere un'automobile sportiva (Il sorpasso, 1962), dal presunto esperto di pubbliche relazioni che si "arrangia" tra i "cinematografari" (Il gaucho, 1964) al tifoso di calcio (I 'mostri, 1963).
Sarebbe quindi molto interessante ritrovare nei film riguardanti il Mezzogiorno realizzati dopo il neorealismo i connotati d'uno stereotipo di antichissime origini, come ha dimostrato - oltre al già citato Benedetto Croce - Giuseppe Galasso in un libro apparso per la prima volta nel 1982 e di recente riedito (L'altra Europa). Purtroppo però lo spazio a disposizione consente solo di esemplificare, mettendo a confronto le fonti utilizzate da vari studiosi (oltre a B. Croce e G. Galasso, dello stereotipo del meridionale si sono occupati anche A. Mozzillo, A. Placanica, G. Aliberti, N. Moe e altri) con figure e situazioni che appaiono in alcuni film. Non prima, però, di aver precisato che, come ha osservato Giuseppe Galasso, il cliché del napoletano "non sempre o non molto distingue tra Napoli come città e Napoli come Mezzogiorno nel suo complesso". Che questa indistinzione ha resistito così a lungo nel tempo che ancora nel secondo dopoguerra "nell'Italia padana ovunque si usava chiamare Napoli tutti quanti i meridionali" (Galasso). E che essa è stata così forte che, come ha notato Norman Moe, i settentrionali finivano per trascurare del tutto aspetti e problemi particolari, come, dopo l'unificazione, la questione siciliana ("Altro che Italia!". Il Sud dei piemontesi, 1860-61, in "Meridiana", n. 15, 1992).
Una delle componenti più diffuse dello stereotipo del meridionale è la propensione al furto. A tal punto che nell'Astrologo, una commedia ricca di umori popolareschi di Giovan Battista Della Porta (1535-1615), un personaggio avverte gli altri che "siamo in Napoli città piena di ladri e di furbi, e se in altri luoghi vi nascono qui vi piovono". E' proprio la furbizia utilizzata sistematicamente per imbrogliare e rubare che caratterizza il personaggio di Pasqualino Miele che Eduardo De Filippo ha affidato a Totò nel suo Napoli milionaria (1950). Pasquale nel film, tratto da una commedia dello stesso Eduardo, fa della sua qualità di imbroglione addirittura il fondamento della sua professione, rimanendo in attesa di clienti al quali fornisce la sua consulenza di piccolo furfante. Questa propensione al furto, derivante dal fatto stesso di essere napoletano, è uno dei tratti fondamentali del personaggio di Totò, come appare chiaramente in Guardie e ladri (1951) o nella colossale truffa che le famiglie di Felice Sciosciammocca e Pasquale mettono in atto in Miseria e nobiltà (19 54).
In nessuno di questi film si dà spiegazione dell'essere imbroglione, tanto da far pensare che ciascun napoletano possa essere uno dei tanti ladri che a Napoli, come dice il Della Porta, non "nascono" ma "piovono". Un altro film interessante, sotto questo profilo, è Proibito rubare (1948) di Luigi Comencini. E' vero che la condizione in cui si trovano gli scugnizzi che interpretano il film, per cui sono i migliori collaboratori di un ladro di professione, è spiegata da Comencini con la miseria di Napoli dopo la seconda guerra mondiale, ma è anche vero che almeno in alcuni di essi il modello offerto dal ladro, che entra ed esce dal carcere, è così attraente da indurli a battersi con tutte le loro forze per impedire che don Pietro, un ex missionario che vuol costruire una "città dei ragazzi", riconduca gli altri sulla retta via.
Un tratto distintivo dello stereotipo del calabrese è il carattere vendicativo insieme alla testardaggine. Nel XVIII secolo G. M. Galanti così descriveva i calabresi: "D'ingegno vivace, arditi, bruschi, iracondi ed alquanto testardi nelle determinazioni, i Calabresi si distinguono dagli altri abitanti del regno. Proclivi alla vendetta, essi non obliano per età le loro offese, né serban modo in punirle". Sembra la descrizione di Beppe Musolino, l'ergastolano del quale Mario Camerini ha fatto il protagonista del suo film Il brigante Musolino (1950). Onesto e laborioso, innamorato d'una donna dalla quale è pienamente ricambiato, bello e ammirato da tutti, Musolino subisce un torto da una parte cospicua degli abitanti del suo paese e decide di vendicarsi. Fugge dal carcere, nel quale è detenuto ingiustamente, e uccide a uno a uno tutti coloro che hanno falsamente testimoniato contro di lui.
La vendetta è un valore talmente radicato in lui che Musolino si convince, come se ne convince la sua donna, che Dio lo aiuterà.
Non esita a uccidere neppure mentre si svolge una processione, ovvero un rito sacro. In questo film, anzi, costruito interamente per creare un alone di simpatia nei confronti di Musolino, appare la particolare religiosità dei meridionali, quella per cui, secondo Vincenzo Cuoco, "la religione del popolo non è che una festa", perché interessa "più i sensi ed il cuore che lo spirito". Sono ben tre le feste religiose che appaiono nel film e in tutti e tre i casi il regista mostra come esse siano sentite soprattutto perché offrono ai calabresi l'occasione per stare insieme. Né Camerini, che fu autore anche di Briganti italiani (1961), un film che vuole spiegare perché i meridionali rifiutarono lo Stato unitario, trascura altri tratti dello stereotipo del calabrese. In primo luogo la gelosia, quella stessa per cui, secondo alcuni agenti medicei a metà del XVIII secolo, nei Casali di Cosenza "non [sono] soliti [i] popoli comportarsi molto volentieri le corna, ma levarsele a colpi di archibusate". Beppe Musolino considera Mara la sua donna e afferma il suo diritto anche nei confronti del padre della ragazza, che ha altri progetti per lei. In secondo luogo la passionalità e la violenza, che fanno di Musolino una vera e propria bestia nera in gabbia quando si trova ingiustamente detenuto.
E' talmente iracondo, Musolino, che dopo essere stato condannato urla a Rocco, uno dei suoi falsi accusatori: "Se scappi ti sparo, se ti acchiappo ti sgozzo, se ti uccidi ti perdono". Poi sbatte al muro, distruggendola, la macchina con la quale i carcerieri vorrebbero fotografarlo. Infine maltratta il padre della sua donna, Mara, e s'impossessa del suo fucile. E gli abitanti del suo paese lo considerano un uomo coraggioso, capace di farsi rispettare.
Il carattere "iracondo" dei meridionali è un elemento molto antico dello stereotipo. Già nel 1570 Camillo Porzio diceva dei meridionali (La congiura dei Baroni) che sono "micidiali", nel 1779 Ferdinando Galiani osservava che "il napoletano [ ... ] se non è tocco da sensazioni tace; se lo è, e sian queste o di sdegno o di tenerezza o di giubilo o di mestizia o di rammarico - ché ciò non fa gran differenza -, subito s'infiamma, si commuove e quasi si convelle" (Del dialetto napoletano). Alla metà del secolo scorso, nel 1857, F. De Bourcard descrisse l'iracondia dei napoletani con parole che ben si attaglierebbero a Beppe Musolino: "La qualità più spiccata del napoletano è il fracassìo: va di leggieri in collera e di leggieri si calma".
Quanto alla gelosia, un altro elemento stereotipico del meridionale, secondo G. M. Galanti nel Principato Citeriore (la zona compresa, all'incirca, tra Salerno e Vallo della Lucania) nel XVIII sec. sopravviveva "quella gelosia lucana ch'era passata in proverbio". Ma in seguito la gelosia è diventata un tratto distintivo di tutti i meridionali e in modo più accentuato dei siciliani. La si ritrova spesso nei film di ambiente siciliano. In Il cammino della speranza, di Pietro Germi, essa si confonde -molto opportunamente - con altri elementi, come la solitudine, la disperazione, l'emarginazione, ma è la gelosia a dar luogo ad un curioso duello rusticano che si svolge tra le nevi delle Alpi. La si trova - ed è un fattore che decide degli sviluppi della vicenda - anche in Il lupo della Sila (1949) di Duilio Coletti, un film ambientato in Calabria.
La si trova anche in Assunta Spina, la versione di Mario Mattòli del film tratto da un dramma di Salvatore Di Giacomo, che è del 1948. In questo film - ambientato a Napoli - la gelosia si presenta con tutti i tratti propri dello stereotipo. Don Michele (Eduardo) è talmente geloso di Assunta Spina (Anna Magnani) che la sfregia e sconta il carcere per questo, ma non dubita mai neppure per un momento di essersi comportato bene. Né su di lui ha alcuna influenza l'intervento della giustizia. Neppure Assunta Spina pensa che Don Michele abbia sbagliato, nonostante sia la vittima della sua gelosia e lo tema. Per lei contano soprattutto le passioni, delle quali la gelosia è una parte importante.
La gelosia è anche il tema centrale d'un film del 1953 (intitolato appunto Gelosia), nel quale Germi cerca di penetrare nello stereotipo e di capirne le radici che affondano nell'animo d'un meridionale. Si tratta - ed è un particolare di non poco conto - d'un nobile siciliano, il marchese di Roccaverdina, che si è innamorato d'una popolana, una bracciante che lavora nelle sue terre. Il marchese sa di non poter sposare la ragazza da lui amata, Agrippina. Perciò fa in modo che Rocco, anch'egli al suo servizio, sposi Agrippina e si decide a sua volta a sposare una donna del suo rango. Ma la gelosia e l'attenzione esercitata su di lui da Agrippina lo inducono a uccidere Rocco. In seguito a ciò il marchese sta molto male, è investito da una vera e propria tempesta emotiva e solo alla fine si costituisce.
La parte più interessante del film, che non è stato ben accolto dalla critica, è proprio quella relativa alla crisi del marchese. E' in essa infatti che Germi si sforza di capire il mondo interiore d'un aristocratico siciliano, trascinato in diverse direzioni dalla fedeltà a norme e valori contrastanti: far fronte alle maldicenze sposando un'aristocratica, salvare il proprio onore di amante che ha concesso la sua donna a un altro uomo, che per di più è un suo servo.
Tutto ciò, per giunta, viene vissuto all'interno d'una passione amorosa coinvolgente e incontenibile.
Il tratto più importante dello stereotipo del meridionale è la sua insofferenza per le leggi e le istituzioni statuali. Fino alla nascita dello Stato unitario italiano i meridionali hanno vissuto in un sistema feudale. La legge e l'obbedienza al latifondista si identificavano e per i meridionali non esisteva altra legge da applicare e sentire che la volontà del proprietario terriero. Il Galanti ha descritto così la criminalità degli abruzzesi: "I delitti dominanti nei luoghi marittimi sono ratti, violenze alle donne; ne' luoghi interni ubbriachezze, abigeati, furti d'ogni genere, grassazioni così di comitive che scorrono la campagna come di lavoratori".
Ma fu con la nascita dello Stato unitario che questo stato di cose si aggravò fino a diventare rigetto e rifiuto di una condizione nella quale ormai al suddito era subentrato il libero cittadino. Come ha mostrato Norman Moe nella sua interessante analisi della corrispondenza tra Camillo Benso conte di Cavour e i suoi emissari nel Mezzogiorno dopo la spedizione dei Mille di Garibaldi, la rappresentazione della realtà meridionale nasceva, per contrasto, dal confronto col Piemonte.
E ciò era tanto più vero quando i corrispondenti di Cavour erano meridionali emigrati in Piemonte per ragioni politiche. Perché, cioè, avevano optato per lo Stato liberale e rifiutavano l'organizzazione meridionale e il suo carattere paternalistico e feudale, ovvero il regno borbonico: "Oh! Quella Napoli come è funesta all'Italia! -osserva in una lettera del 23 agosto 1860 Giuseppe Massari, esule napoletano a Torino, divenuto amico di Cavour - "paese corrotto, vile, sprovvisto di quella virtù ferma che contrassegna il Piemonte, di quel senso invitto che contrassegna l'Italia centrale e la Toscana in specie".
E' difficile, quando si leggono parole come queste, non pensare al film del piemontese Mario Soldati Donne e briganti. Il protagonista di questo film è Michele Pezza, noto come Fra Diavolo. Il film ci presenta il brigante Fra Diavolo come un vero e proprio "partigiano" che si batte per difendere, con il re Ferdinando di Borbone (Ferdinando IV come Re di Napoli, Ferdinando I come Re delle Due Sicilie), l'identità dei meridionali contro i giacobini francesi pronti a distruggerla in nome della rivoluzione. I francesi, che nel film vengono definiti "quegli scomunicati", si considerano "soldati della repubblica francese" e dicono di "portare la libertà", appaiono invece come prevaricatori, incapaci di riconoscere e rispettare l'identità dei napoletani.
Molto significativa è la descrizione del campo di Fra Diavolo, dove si eseguono canti tradizionali e si mangiano alimenti tipici del Mezzogiorno. Soprattutto è interessante il rapporto tra il capo e i suoi uomini, caratterizzato da una profonda devozione personale: sono talmente legati a Michele Pezza, i suoi "briganti", che gli sorridono vedendolo fare l'amore, sembrano partecipi del suo piacere. Lui fa quel che fa per tutti, tutti godono attraverso lui. C'è un'identificazione totale col capo. E' questa l'unica forma di autorità che i meridionali accettano, un'autorità presente e visibile, che si prende cura di ognuno, come del resto è proprio del paternalismo borbonico.
Nonostante la forza degli stereotipi abbia il sopravvento in questi film, essi mostrano ugualmente la corda. Ciò proprio in virtù dello stretto rapporto di identificazione-proiezione che si instaura tra lo schermo e la platea. E' vero, infatti, che gli stereotipi sono resistenti nell'immaginario del pubblico, ma è anche vero che negli anni Cinquanta l'Italia sta cambiando, sta per cominciare il boom economico, il "miracolo italiano". Ma su questo occorre ritornare.


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