I VOLTI DELLA COLPA




Franco Barbieri



L'immagine fotografica è per prima cosa la registrazione di quanto è dinanzi alla camera, e se l'oggetto ripreso è il volto umano, cioè il ritratto, essa rivela l'identità somatica. L'immagine offre la possibilità di rilevare, attraverso un'analisi più completa e oggettiva, gli elementi costitutivi e comparativi meglio di come può essere realizzato dalla descrizione letteraria o dalla rappresentazione grafica; tra l'altro, assume la proprietà di essere utilizzata anche per scopi scientifici e di ricerca che possono essere premessa alla definizione della similarità, della tipicizzazione o della differenziazione.
Dalla registrazione di un sufficiente numero di individui, ciascuno con i propri e peculiari caratteri, possono essere compilati mirati inventari dai quali estrarre elementi utili alla ricerca di caratteristiche comuni e, sotto alcune condizioni, generalizzabili oppure, viceversa, alla ricerca di particolarità differenti e, quindi, identificabili. Si formano così inventari di tipicizzazione ovvero di identificazione. La fotografia, con tale caratteristica e così finalizzata, viene a trovarsi contigua alla scienza dell'uomo, detta antropologia. La più importante manifestazione e definizione di tale scienza può farsi risalire a Kant che nel 1798 pubblicò l'opera dal titolo Antropologia Prammatica, da lui definita "dottrina della conoscenza dell'uomo concepita sistematicamente".
Nella concezione kantiana l'"antropologia prammatica" è tutto ciò che si riferisce all'uomo quali che siano i suoi fini, mentre quella che chiama "antropologia pratica" tratta di quanto concerne l'azione morale. Da quest'ultima discende, tra l'altro, la "caratteristica antropologica", che determina in che modo e da quali dati e segni esterni è possibile conoscere i moti interni dell'uomo. Questo filo di riflessione filosofica, continuato da Hegel, da Lotze e da Rosmini, ha sino all'Ottocento condotto all'apparire delle scienze psicologiche.


Ma un altro aspetto, definibile naturalistico, ha le sue radici nella cultura greco-romana e si sviluppa nel tempo a seguito delle esplorazioni del pianeta, dell'evoluzione delle scienze naturali, del rinvenimento di resti preistorici, dei progressi dell'anatomia, e, soprattutto, dell'esplosione della teoria dell'evoluzione di Darwin, delle leggi di Mendel, della visione di Gobineau e di Blumenbach, ritenuto quest'ultimo il vero fondatore dell'antropologia moderna; sino ad arrivare ad Edwards, che nel 1839 istituì la Società di Etnologia, ovvero di antropologia etnologica, per poter costituire e verificare la "dottrina della, razza", che nei suoi studi riguardava quella dei popoli europei. Da queste basi si sviluppò l'opera di Lombroso e dell'antropologia criminale.
Cesare Lombroso nacque a Verona nel 1835 e si laureò a Pavia nel 1858 presentando la tesi Ricerche sul cretinismo in Lombardia, pubblicata l'anno successivo; fino al 1865 fu medico dell'esercito e in questo stesso anno svolse Studi per una geografia clinica italiana che divenne una fonte, tra le più importanti, per la formazione di una legislazione sanitaria nazionale.
Primario a Pavia e poi direttore del manicomio di Pesaro, nel 1876 approdò a Torino ove dapprima fu ordinario di medicina legale e nel 1896 ordinario di psichiatria e infine, nel 1905, ordinario di antropologia criminale.
Ispirato dalla concezione materialistica dell'uomo, Lombroso identificò, e tese a spiegare, i comportamenti delinquenziali come derivanti dalle caratteristiche somatiche, che egli chiamava anomalie fisiche, fondando di fatto una nuova scienza, l'antropologia criminale; il delitto era da lui inteso come un incidente anomalo dell'evoluzione della specie e una morbosità dell'individuo, per cui compito della società diveniva quello della prevenzione sociale e della cura del cosiddetto delinquente.
Alcuni titoli delle sue pubblicazioni già indicano il percorso seguito: Genio e follia del 1864; L'uomo bianco e l'uomo di colore del 1871; L'uomo delinquente e L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza e alle discipline economiche del 1876 che rimangono testi fondamentali dell'antropologia criminale; Il delitto politico e la rivoluzione del 1890; La donna delinquente, la prostituta e la donna normale del 1893; L'uomo di genio del 1894; Genio e degenerazione del 1898; Lezioni di medicina legale del 1900.
Le teorie e gli studi del Lombroso, grazie all'attenzione suscitata, consentirono l'evoluzione della sociologia criminale estendendo l'indagine dalle considerazioni morfologiche del "delinquente" ai molteplici aspetti della vita dello stesso, per poter formare e applicare una "profilassi e terapia del delitto".


La fotografia può assimilarsi all'antropologia così come è andata formandosi dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, tant'è che tra i vari mezzi antropometrici ha occupato un posto di rilievo. La fotografia infatti riproduce tutti gli elementi somatici consentendo la rilevazione e la comparazione della fisionomia umana, in modo più completo e oggettivo rispetto ad una descrizione dell'osservatore e del ricercatore scientifico.
Scopo della scienza è la ricerca e la definizione di tipizzazioni estraibili da un'accumulazione di indizi che nella fotografia sono contenuti nell'attimo e nell'accumulazione di attimi.
La registrazione di una sufficiente quantità di individui, ciascuno con propri lineamenti e atteggiamenti, consente la compilazione di un inventario umano dal quale è possibile estrarre elementi comuni che divengono le caratteristiche di "tipi".
A differenza delle foto segnaletiche, ove le caratteristiche sono elementi di diversificazione e quindi di identità, gli inventari di ricerca antropologica tendono a rinvenire negli elementi comuni ciò che può essere classificato tipico di qualche gruppo, o patologico o criminale o razziale.
Non si può dire che la ricerca antropologica abbia ricevuto un particolare e decisivo impulso dalla nascita della fotografia, ma di certo si è avvalsa, nel suo sviluppo, in maniera determinante, del concorso di questa, che ha prestato però il fianco anche ad un'utilizzazione equivoca e pregiudizialmente tendenziosa.
La suggestione dell'immagine fotografica non è stata infatti asettica ed esente da elementi politici e contingenti, da finalità di parte e interessate, come invece era nelle intenzioni dei ricercatori.
Tale aspetto, esterno all'uso prettamente scientifico della tecnologia, mai sottovalutabile in genere, nel caso in esame è stato molto rilevante nei suoi effetti e purtroppo ha avuto anche grande diffusione soprattutto nella prima metà del nostro secolo. Infatti si osserva che nell'immaginario collettivo la tipicizzazione somatica di alcune categorie di esseri umani ha grandemente pesato e pesa sulle conseguenti considerazioni e valutazioni, creando pregiudizi che sono risultati, e risultano, difficilmente modificabili.
Ebrei, uomini di colore, malati mentali, categorie di "delinquenti", figure di alcune categorie sociali, artisti, gay, ecc. e in genere tutti i "diversi" rispetto a una pretesa normalità hanno avuto e hanno corrispondenti immagini che a un primo sguardo devono conformarsi alla rappresentazione del pregiudizio esistente che li riguarda.
Quando la ricerca scientifica viene data in pasto alla natura umana nelle sue manifestazioni perverse e interessate, muta i propri connotati e va contro i motivi che l'hanno suscitata.
L'assunto dell'antropologia è quello di verificare l'esistenza di corrispondenza tra i comportamenti e i lineamenti somatici, mentre invece, nel comune diffuso giudizio popolare, i lineamenti somatici divengono lo sdoppiamento della rappresentazione di nocivi e condannabili sentimenti. Nel teatro tale funzione apparteneva alla maschera, oggi si manifesta nella fotografia. Lo scarso approfondimento e la carenza di riflessione riguardo alle nuove e numerose informazioni producono effetti contrari e più devastanti dell'antica ignoranza.
Nella considerazione della grande importanza che oggi, e sempre più in futuro, riveste la comunicazione, la quale utilizza fondamentalmente il potere sintetico, simbolico e suggestivo dell'immagine, la contiguità tra antropologia e fotografia assume un importante rilievo.
La stretta correlazione esistente tra rappresentazione e comunicazione ha reso sempre più significativa, nei suoi aspetti sia positivi sia negativi, l'immagine fotografica.
Questa, anche quando si forma per fini definibili "nobili", per esempio scientifici, può andare incontro a soddisfare altre esigenze totalmente differenti.
Così il nostro secolo è stato testimone di aberranti utilizzazioni di mezzi nati per realizzare le migliori intenzioni e rivelatisi invece strumenti di discriminazione e di dolore. Le ricerche sulla razza avevano lo scopo principale di comprendere l'origine e la diffusione della specie umana attraverso le differenze riscontrabili tra i popoli e i Paesi. La fotografia risultava essere un idoneo e utile mezzo di documentazione e ricerca, pertanto venne ampiamente sfruttato. Quando le differenze documentate fornirono un supporto a tesi di potere e di potenza, quelle stesse immagini servirono a formare "tipi razziali", ai quali furono applicate mostruose caratteristiche facilmente identificabili, quindi, dai caratteri somatici.
Questo per via della potenza insita nell'immagine fotografica, che porta a identificare in ciò che appare tutto un complesso di sensazioni, di motivazioni, di emozioni.
La fotografia dell'essere umano, in particolare il ritratto, nell'ambito della percezione e della conoscenza, è paragonabile all'incontro "reale", più o meno casuale, con esso. La sensazione che si avverte nell'incontro con "l'altro", e quindi il giudizio inconscio che si formula, si basa sull'apparenza del suo rappresentarsi e nel nostro rappresentarlo. Un difetto fisico tende a suscitare un moto di ripulsa, qualche volta di curiosità, raramente di pietà, così come un sorriso disteso può alimentare la simpatia e predisporre l'animo all'accoglienza. In particolare, lo sguardo che incrociamo è capace di scaricare effetti tra loro contraddittori e contrastanti a seconda di come si presenta e atteggia, al punto di farci ritenere capaci di leggere anche i sentimenti e le intenzioni più intimi. Le espressioni del viso sono un veicolo di comunicazione fondamentale, ancor più della parola e del linguaggio, come dimostra l'incontro con lo "straniero". Ogni soggetto umano di una fotografia è, per chi guarda, uno "straniero", che parla, nel suo silenzio, un linguaggio ignoto; così come straniero è -qualunque "diverso", perché ha una comunicazione che ci risulta ignota.
La comunicazione tra lui e noi non può che essere visiva, somatica e comportamentale. Un inventario antropologico dovuto e ispirato da una ricerca finalizzata diviene, invece, per un comune non preparato osservatore, un gruppo, formato però da tanti individui diversi con ciascuno dei quali viene a stabilirsi un muto colloquio. Cosicché quell'insieme di immagini modifica il proprio significato.

E' ciò che accade con le immagini lombrosiane. La considerazione della vicenda personale del soggetto, e dell'osservatore, prevale sulle motivazioni e le finalità della raccolta delle immagini. L'immagine si carica di significati nuovi e imprevedibili con successivi effetti ancor più inaspettati.
Inventari e classificazioni possono considerarsi come indizi di identità individuale, sociale e nazionale. Così l'Atlante della geografia antropologica d'Italia, di Rodolfo Livi, scritto nel periodo tra il 1859 e il 1863, rappresentò un curioso e interessante tentativo di raggruppare le giovani reclute del nascente Stato unitario in statistiche varie e originali, e qualche volta anche bizzarre; purtuttavia consentì non poco ad avere consapevolezza delle diversità delle genti che confluivano nel nuovo Stato, come pure degli aspetti comuni e capaci di avvicinarli.
Al fondo delle ragioni del "realismo", come espressione, e nelle motivazioni dei suoi esponenti - quindi anche nella fotografia - il timore maggiore consisteva nelle "manipolazioni" del dato ritenuto semplice, grezzo e naturale. La fotografia, poi, esasperava le riserve contenute nell'idea del "realismo" quale movimento, poiché l'immagine dell'uomo, non essendo generalizzabile, non poteva essere ridotta a "identità indistinta". Da migliaia, milioni di ritratti si potevano solo riconoscere "tipi" rappresentativi di gruppi, per cui la ricerca era indirizzata a trovare il "caso rappresentativo". Ma la conoscenza e la scienza, quando si occupano dell'uomo, non possono sottrarsi al giudizio morale; così è anche per la fotografia, per la quale leggere un volto corrisponde alla lettura della mano del chiromante.


L'identità del soggetto fotografato, la sua impossibile generalizzazione, è la vera novità dell'immagine fotografica rispetto a tutte le altre note rappresentazioni. Il soggetto è inequivocabilmente se stesso, e per di più in quel preciso momento in cui è ritratto. Non altro. Ogni particolare del viso, del corpo, dell'espressione, dell'abito e dell'ambiente che lo avvolge, gli appartiene necessariamente; ma uno, o più, dei particolari può essere posseduto da qualcun altro, e allora tutti quelli che hanno in comune quel particolare possono ritenersi appartenere a un gruppo, per formare delle classi e quindi estrarre dei tipi caratteristici di quella classe. Tale processo, che viene generato dall'immagine, può ed è applicato su qualunque oggetto di ricerca.
Ma - c'è sempre un "ma" quando si tratta della rappresentazione - resta pur sempre da fare i conti con quella che il Bertelli chiama "inquietudine fotografica", cioè l'essere la fotografia comunque testimonianza anche quando il suo scopo prefissato sia meramente descrittivo. La testimonianza suscita l'analisi, questa l'opinione e il giudizio.
Così la foto n. 1, che era parte della cartella clinica di una paziente di un istituto di Venezia del 1880 e come tale documentazione di una patologia, assume anche un significato di testimonianza, di esempio, dei metodi terapeutici del tempo, basati sulla costrizione fisica usata come mezzo di normale procedura, come si può rilevare dal comportamento delle "infermiere" naturalmente adottato persino in occasione della ripresa fotografica.
La stessa impressione si ricava dalla foto n. 2, ove sorprende il gran numero delle addette - forse per ragioni di protagonismo e di auto rappresentazione -, mentre la presenza delle inferriate nella scena, insieme al contenimento della malata sulla sedia, suscita l'idea di un'esecuzione capitale. Alla stessa pena sembra condannata la donna incatenata, tenuta per la testa e dall'aspetto di una Giovanna d'Arco di Dreyer, della foto n. 3.
In altre occasioni il soggetto è astratto da un qualsiasi contesto cosicché, nella foto n. 4, l'uomo è ritratto nelle tre posizioni lombrosiane - di fronte, di dietro e di profilo -, e viene descritto dalla didascalia "epilettico e antropofago" per meglio definirlo e classificarlo, secondo l'idea e il principio che, ritratto in tal modo, il soggetto incentra solo su di sé l'attenzione, soddisfacendo alla curiosità descrittiva, garanzia del distacco dal contesto; tale pratica era comune e adottata per l'uso finalizzato alla pittura.
Quanto detto riguardo all'elemento comune che può essere estratto da immagini di definite individualità si verifica nella foto n. 5, ove i tre bambini sono per caratteristiche somatiche ed espressioni tra di loro molto diversi, ma accomunati dalla misera giacchetta indossata e dallo sguardo profondo e perso. Nello sfondo un liso telo, forse una vecchia e logora coperta, nasconde probabilmente strumenti di lavoro giacché qualcosa di simile ad un tavolo si intravede sulla destra. La fotografia, che è parte dell'archivio del Fondo Lombroso di Torino e che doveva documentare una patologia, assume altresì il valore di testimonianza delle tremende condizioni sociali in cui versavano migliaia di poveri bambini soli e abbandonati.


Dallo stesso archivio proviene la foto n. 6 nella quale, sempre ai fini di documentazione clinica, è una donna, una prostituta illuminata dal lampo del magnesio - che l'investe con la sua luce innaturale - che appare sorpresa ma, nello stesso tempo, rassegnata alla violenza fotografica; il fondo è squarciato da una debole e fredda luce che illumina alcuni semplici arredi di modesta e squallida fattura.
Da un punto di vista fotografico, sono quasi tutte foto che vengono definite realiste, per la caratteristica di avere come soggetti personaggi presi dalla vita di tutti i giorni nel loro ambiente.


Si era da subito compreso e presunto che il nuovo mezzo fotografico avesse in sé la potenza e il dono di rappresentare la "realtà" immune da interpretazioni che ne smussassero la forza e l'impatto. Non è un caso che artisti come Verga, Capuana e Michetti apprezzassero e facessero uso della fotografia riconoscendo ad essa la rimozione di intenti estetici a favore di un assoluto verismo, in linea con le idee di Darwin, per il quale la rappresentazione scientifica non doveva essere deviata da scopi estetici.
Charles Darwin nel 1872 aveva stabilito un rapporto con RejIander, pittore e fotografo inglese, in cui, al di sopra delle tesi, fu raggiunta la fusione tra la fotografia che registra l'espressione e la fotografia quale espressione.
Espressione, e quindi testimonianza, della fotografia rende simili l'immagine delle infermiere che forzano il capo della malata con quella del bersagliere che con violenza mostra la testa del brigante ucciso (cfr. Apulia, I, marzo 1998, p. 94, foto n. 9, N.d.R.), confermando che la ricerca descrittiva risulta inscindibile da tutti gli altri parametri confluenti nell'immagine fotografica.
Un'ulteriore conferma viene dall'attualità: nel n. 11, marzo 1998, del supplemento "Sette" del Corriere della Sera viene recensito e commentato, con alcune foto pubblicate, il libro The Killing Fields dei fotografi Doug Niven e Chris Riley che hanno raccolto le immagini di uomini e donne, soprattutto giovani, riprese da un altro fotografo, cambogiano, di nome Nhem Ein, negli anni Settanta: immagini che li mostrano, come in un album di fantasmi, pochi momenti prima della loro esecuzione da parte dei Khmer rossi. Sono volti emaciati, spesso feriti, con le labbra serrate, quasi di bambini con lo sguardo disperato o perso o rassegnato, comunque fisso verso l'obiettivo. La loro espressione, registrata nell'immagine fotografica, resta come documento e testimonianza.


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