MEDINE DA TUFARA




Tonino Caputo, Lanfranco Oddo, Vanni Ravaną



Si pensa a un paesaggio, e viene subito in mente una veduta panoramica, cioè l'immagine d'insieme che si può abbracciare con lo sguardo da un determinato punto d'osservazione. Se si richiama alla memoria un certo numero di immagini, si scoprono affinità e diversità, si sente il bisogno di scandire categorie di stili, sfondi, orizzonti o scorci. La più oleografica immagine del Sud è quella del Vesuvio dal Vomero, col celebre pino (che non c'è più). Altra categoria nota, quella del paesaggio dolomitico, con caratteri comuni, dall'abbeveratoio al Crocifisso di legno in primo piano, poi il bosco di larici, o il prato, e la quinta delle rocce chiare e delle pareti erte.
Lo stesso paesaggio può cambiare continuamente, da un'ora all'altra del giorno, col variare delle stagioni o col trascorrere degli anni. Tuttavia, al di là di questi cambiamenti, ci sono strutture che si trasformano nel corso dei millenni. Càpita al paesaggio geografico. Ma càpita anche a quella sezione più o meno grande di natura trasformata dall'uomo. In questo caso il paesaggio è nello stesso tempo umanizzato e storicizzato. Operando sulla natura, l'uomo le conferisce una certa forma, vale a dire un carattere di artisticità, un'idea di contemplazione unita a quella di funzione. Se il paesaggio è il risultato della fusione tra materia e forma, è un'opera d'arte.
Osservando i Faraglioni di Capri, oppure le Scogliere di Carloforte in Sardegna, o ancora le grotte costiere dei mari intorno a Leuca, viene spontaneo l'impulso di ammirare l'arte della natura, che ha saputo realizzare tali bellezze. Di fronte a un paese arrampicato su una collina, con le case incastrate l'una nell'altra, con le scale che salgono a cordonate verso il palazzo signorile o il castello feudale posto in cima, istintivamente si ammira l'arte degli anonimi costruttori che hanno creato quegli scorci, quelle stradine, quelle scalinate, quelle piazzette così caratteristiche. Ma il paese è fatto col tufo offerto dallo stesso suolo su cui è stato costruito; e le mura, le porte, le finestre ripetono nel loro aspetto i motivi del palazzo gentilizio, del castello o della chiesa dominante. In un paesaggio c'è un'identica forma che circola fra gli elementi naturali (il terreno, i rilievi, la pianura), l'opera d'arte vera e propria (palazzo o castello o chiesa) e tutti gli altri elementi che si sovrappongono all'aspetto naturale, modificandolo (case, giardini, strade, piazzette ... ). Il paesaggio, perciò, è nello stesso tempo più e meno di un'opera d'arte. E' meno, perché non ha la pregnanza di contenuti spirituali e la coerenza di forme che possiedono un quadro, una scultura, una statua, un'opera architettonica. E' più, perché comprende tutto l'insieme degli elementi che, pur non facendo parte dell'opera d'arte in senso stretto, la condizionano e ne sono condizionati.
Una chiesa con le casette vicine, una piazza con ciuffi di palme, o un castello sullo sfondo di montagne, appartengono tutti insieme ad uno stesso organismo e sono tutti pervasi dallo stesso spirito di artisticità. In questo senso si può affermare che il paesaggio è "artisticità diffusa" in uno stesso ambiente naturale ed umano.
E così passiamo dal concetto di veduta a quello di scorcio, ambiente. La veduta implica necessariamente un punto di osservazione determinato, si presenta a chi guarda come la scena di un teatro, è legata perciò ad una concezione spaziale di tipo rinascimentale, prospettico. Ma se invece di porci in un unico punto immaginiamo di vivere "dentro" un certo paesaggio, se osserviamo il paese camminando per le sue vie tortuose, avvolgendoci di case, di corti, di archi, di vichi, di scalinate, di sottopassaggi, in un susseguirsi continuo di punti di osservazione, oppure assistiamo allo snodarsi continuo di campagne e di colline mentre stiamo viaggiando in treno o in automobile, allora la veduta cede il campo ad un'entità globale: appunto, all'ambiente.
Paesaggio e ambiente non vengono percepiti soltanto con la vista. Provocano sensazioni acustiche con lo sciabordio delle acque, con lo stormire degli alberi, con lo scalpiccio dei passi sui selciati, con le voci e i canti, e via dicendo; sensazioni tattili di caldo o di freddo o di vento o di pioggia; sensazioni olfattive di fiori, di terra bagnata, di cucina. Tutti questi elementi concorrono a formare in noi l'immagine reale di un certo paesaggio o di un certo ambiente. Senza alcuni di essi, quell'immagine resta incompleta, tant'è che in un paesaggio o in un ambiente visti al cinema le sensazioni reali mancanti sono sostituite dalla musica di sottofondo, non a caso definita in linguaggio corrente di "atmosfera".
Gargano, Tavoliere, Murge, Terra di Bari e Penisola Salentina dominano il paesaggio pugliese con i loro ambienti diversi, e ne condizionano i vari modi di essere. Il Gargano è un monte carsico completamente butterato da doline e complessi fenomeni di erosione, geologicamente affine all'altra sponda adriatica, dalla quale è andato alla deriva, per essere poi fermato dalla piana del Tavoliere, fondo marino emerso nel quaternario. Il Tavoliere era una pianura stepposa e malarica, nella quale svernavano greggi transumanti. Oggi è coltivato a grano, girasoli e vigneti. Le Murge, essenzialmente pietrose o argillose, comunque carsiche, sono costituite da rilievi calcarei a terrazze, dai quali si ricavano le "chiancarelle", lastre di roccia che forniscono il materiale adatto alla costruzione dei trulli. La Terra di Bari è formata da ripiani a terrazzi che digradano verso il mare, dove si fermano con una costa rupestre. Le doline sono poco frequenti, ma danno luogo a grotte straordinarie, come quella di Castellana. La maggior densità demografica regionale ha contribuito alle più massicce trasformazioni da parte dell'uomo. La Penisola Salentina è una pianura con rilievi collinari (le "Serre"), con costa ionica più frastagliata rispetto a quella del catino adriatico.
In realtà, la regione non è più quella di un tempo, quando fu amata dai Normanni, e soprattutto dagli Svevi, che la considerarono la loro seconda patria. Allora le vaste pianure si alternavano ai grandi, fittissimi boschi che coprivano gran parte del territorio, dal Gargano al Salento; le lagune di Lesina e di Varano erano luoghi d'incanto che ospitavano la più superba riserva reale di caccia col falcone all'airone e alla gru; i migratori popolavano le paludi di Tara e Stornara, presso il fiume Galeso, nel Tarantino, come quelle costiere fino a Porto Cesareo, sullo Ionio, e da Otranto a nord di Brindisi, sull'Adriatico. Per tutte, nel secondo dopoguerra, bonifica significò cancellazione pressoché totale. Erano alla radice di una malaria endemica, ma potevano essere trasformate in una ricchezza inesauribile, produttiva e paesaggistica. Furono aggredite col Ddt. Sopravvivono poche, splendide oasi naturali.
Non è più nemmeno la terra "siticulosa" o "petrosa" che colpì la fantasia degli antichi, che forse vollero distinguerla dalla "Campania felix", così come avevano distinto l'Arabia in "Petrea" (il deserto) e "Felix" (lo Yemen). Certo, il contadino pugliese, tenacemente impegnato a conquistare anche un palmo di terra, da millenni ha raccolto le pietre una ad una, e le ha ordinatamente disposte in una geometria di muricci, di ripari rustici, di stazzi, di aie. E dopo la pietra ha vinto l'acqua, facendola sgorgare dal ventre carsico della regione e portandola sui campi, a fecondare il frutto del suo antico lavoro.
Ci si può trovare in una situazione di questo tipo: si giunge in un paese e si chiedono informazioni sulla strada in cui abita un amico; ebbene, per quanto motorizzati, si giunge "dopo" la voce che nel frattempo è passata da cortile a cortile, trasvolando le case e giungendo all'orecchio dell'amico in questione. Siamo, ovviamente, nelle "città vecchie", nei "centri storici" (o meglio, urbanistici) con ambienti addossati, comunicanti per giardini o per corti o anche per cortili che condividono l'uso di un pozzo, di una cisterna, di un terrazzo. Sono le medine di Puglia, i grumi di bassi - e bianchi - complessi abitativi che arredano stradine e "larghi".
Niente di nuovo, per questa regione. Così si viveva nei paesini arroccati sulle coste e nelle insellature del Gargano e della Murgia, della Piana e di Terra d'Otranto, fin dai tempi del "trogloditismo". Così si viveva nelle imponenti gravine, le cui pareti erano butterate da una quantità incommensurabile di caverne scavate nel tufo: per la più gran parte ancora intatte, con i loro angusti ingressi che danno adito immediato alla cucina, con focolare e conca per l'acqua, e agli ambienti destinati al riposo. Tutto ciò che è stato scavato nel tufo ha disposizione centrica. E tutto è assolutamente contiguo. Anche ai nostri giorni nelle città esiste un tal genere di abitazioni: le chiamano "vicinanze". E sebbene siano ben diverse da quelle antiche, per forma e per disposizione, il loro sviluppo si è protratto per tanto tempo da meritare un'autentica storia, partita dalle radici garganiche (Monte Sant'Angelo innanzitutto), passata per le terre dei "santuari" (Mottola, Massafra, Gravina ... ) e giunta fino all'estremità meridionale della regione (grotte sparse, grotte di Roca). Alcune abitazioni trogloditiche, cioè, divennero santuari. Ma in nessun caso furono abituri solitari per eremiti o stiliti, né mai furono meta di una fuga dal mondo, ma sempre punti d'incontro degli abitanti dei villaggi sotterranei di cui si ha ancora memoria concreta.
Contigue le voci, come contigui furono i gruppi umani, soprattutto nei tempi bui seguiti alla caduta dell'Impero romano, con le innumerevoli invasioni, incursioni e piraterie mediterranee. Allora, storia e arte pugliesi si divisero: gotica e longobarda a nord, bizantina a sud; e in seguito, malgrado ducati e regni vichinghi e svevi, angioini e spagnoli, sempre bizantineggianti in quel sud. Qui meno chiare, all'epoca, rispetto alla parte settentrionale della regione. Tant'è che va riconosciuto al glorioso tardo Medioevo settentrionale un vero e proprio umanesimo pugliese, col cosiddetto "Romanico" che incentrò nella dispotica presenza delle cattedrali, dei castelli, dei palazzi gentilizi, delle torri, delle casine di caccia, una rinascenza unica ed esemplare. Al di qua della regale corona di Castel del Monte, in particolare le cattedrali (matrice d'eleganza, Trani; opulente di pietra scolpita Troia e Ruvo; perfetta nelle sue linee di classica sobrietà, Bari; imponenti quelle di Molfetta, Bitonto, Acquaviva delle Fonti, Giovinazzo, Barletta, Siponto, Lucera) sorsero al centro di tessuti abitativi che convissero per secoli con la paura collettiva, con la povertà, ma anche con l'elementare, umanissima grammatica popolare della solidarietà della corte e del vicinato. Sicché un carattere accomuna grandi e piccoli centri pugliesi: ed è che i nuclei abitati dell'epoca (delle successive epoche di dominazione straniera, ma sulla scorta di esperienze più antiche, di nascita ed espansione di ciascun fondaco) sono grumi di vie tortuose e anguste, ma che lasciano inaspettate pause in minimi "larghi" che sarebbe pretenzioso definire persino piazzette, altro non essendo che aree di gravitazione per gli abitanti degli immediati dintorni, "cortili pubblici", come li definì Adriano Prandi, per soste intime e protette quanto scevre da ogni possibilità di vita segreta. Era l'urbanistica a nuclei familiari e vicinali, per la reciproca difesa e sopravvivenza e per la comune solidarietà.
Si vedano i numerosi esempi (Altamura, città fondata ex novo da Federico II; le città vecchie di Otranto o di Bari; il borgo di Gallipoli o quello di Ostuni o infine quello di San Leonardo a Monopoli); vi si riconosce un aspetto comune all'intera regione: alcune viuzze non lascerebbero passare più che un uomo, tanto sono strette, e per giunta impervie per le lunghe scalinate o per le faticose scalette -come i ponti d'un tempo - a schiena d'asino che scavalcano persino monumenti antichi (come le mura megalitiche del V secolo a.C. ad Altamura). Un po' ovunque, qui, i minimi e irregolarissimi larghi hanno il nome significativo di "claustri", e sono poi quelli che altrove sono chiamati "chiassi", tanto più pittoreschi quanto più vi si conficchino scale esterne e archi di corti: chiassi che non soltanto nel nome, ma anche nell'aspetto, hanno punti di contatto con l'architettura veneta.
Ne emerge una particolare risorsa urbanistica: le case circostanti, quasi sempre molto movimentate, e comunque sempre diseguali l'una dalle altre, assumono qualificazione dall'essere quasi pareti dei claustri e chiassi, cui conferiscono il carattere di "interni" più che di "esterni". L'urbanistica è sostanzialmente "capovolta": le abitazioni sembrano lontane dalla via pubblica, e questa invece assume la connotazione di luogo abitato.
C'è chi ritiene conclusa la storia (dell'arte e dell'urbanistica) pugliese col "Romanico". Ma così non è. E non lo è non solo perché il Rinascimento lasciò, pur poche, ma eleganti testimonianze in Puglia, ma soprattutto perché in seguito sopravanzò il barocco, e il fruscio delle case-pareti da "interno" echeggiò soprattutto nell'altra parte della regione, là dove, penisola della penisola, si allunga la terra salentina. La cui capitale, Lecce, impone nelle manifestazioni architettoniche ed urbanistiche emblematiche un'eccentrica legge di prospettiva. Fa subire a corta distanza la gran facciata (con modesta fabbrica, al confronto) di Santa Croce, mancando del tutto di uno spazio frontale che consenta di cogliere l'intera scenografia, (con l'aggravante del contiguo palazzo dei Celestini, col tema del bugnato caro in molta parte della regione); costringe a centellinare tranches di splendore urbanistico e di ferri battuti nelle Giravolte; inganna l'occhio dalla parti del Duomo. Quest'ultimo "interno" è preceduto da due quinte che non lasciano presagire nulla di prospettico. La piazza si apre improvvisa, articolandosi in una visione che non è assolutamente unitaria: il duomo si presenta di fianco, con un'architettura singolare, poiché quella che si vede sembra, ma non lo è, la facciata; il Seminario, palazzo principale, si vede solo di scorcio; l'edificio più appariscente, il vescovado, è dislocato di lato. Ogni asse visivo è stravolto. La piazza è circoscritta come un gran cortile, col carattere di "architettura' di interni" riconosciuto nei prospetti di molte case, strade e residenze gentilizie della città. Chiamano questa piazza, infatti, "cortile del Duomo".
La sovrasta un campanile che sembra conficcarsi nel cielo: è alto oltre 65 metri. Bisogno ascensionale che forse sottende una volontà centrifuga, di traiettoria eslege rispetto alla pianura, al modo di quel "mobilio" architettonico rappresentato dagli Osanna, dai piccoli padiglioni, fini a se stessi, che richiamano qualcosa del Medio e soprattutto dell'Estremo Oriente; o al modo delle guglie sottili come aculei (Maglie, Copertino, Lecce); o della grande "macchina" al centro della piazza principale di Ostuni; o infine della madre di tutti i campanili, il più celebre e antico, quello di Soleto, voluto dal Raimondello Orsini che donò alla Puglia il gioiello galatinese di Santa Caterina d'Alessandria.
E' architettura che si orchestra in funzione ambientale. Ogni chiesa, ogni palazzo, come ogni balcone, portale, bovindo, sporto, non esalta se stesso, ma determina l'ambiente, che è sempre raccolto, e quasi mai propone vedute d'assieme. Dice Prandi: "Solo questa concezione urbanistica, o meglio questa poetica ambientale [...] può unificare e perciò lasciar comprendere quel nobile carattere, soprattutto dei centri minori, della Puglia". Basta osservare l'architettura, ad esempio, di Martina Franca, di Maglie, di Galatone, di Gallipoli, di Otranto, di Tricase o di Muro, come di decine di altri paesi salentini: ciascuna, a tutta prima, sembra dominata da elementi architettonici che enunciano una storia tutta propria; ma, come per incanto, in realtà identica è la concezione delle piazze e delle vie sulle quali si espandono facciate, ondulano balconi, si avvicendano portici. Mutano le forme, ma ogni volta è la stessa soluzione d'assieme, la stessa "struttura ambientale", per cui ciascuno di quei centri fa ripensare alla lunga, antica tradizione pugliese, quella che ha corrisposto sempre ad una connaturata socialità, e che ha suggerito i criteri di fare claustri e chiassi in cima o al centro di spazi aperti, senza discontinuità di tempo.
Ai giorni di Gioacchino Murat, col neoclassicismo, le antiche città con case addossate tanto da formare un nucleo compatto vennero imprigionate da agglomerati urbani formalmente "razionali", saturi di "ésprit de géometrie", che si chiamarono "nuove città". Bari prima fra tutte; poi i centri settentrionali della costa adriatica e Taranto; molto meno Brindisi e Terra d'Otranto. Si annegarono le piazze-sala fra case di pacata e malinconica signorilità, in cui tutti i cittadini si ritrovarono uguagliati. Forse fu un segno di stanchezza (per il peso della storia subita), o di fatalità. Ma pure tutto fu disciplinato e coerente, sicché l'architettura pugliese conquistò ancora una volta una propria personalità, che durò fino a un terzo di questo nostro secolo. E' agli anni tragici del secondo dopoguerra che si deve addebitare l'unica, vera e forse irrimediabile frattura, che dà un nome non più all'ambiente urbanistico, ma alla barbarie edilizia.


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