I Borbone del Sud




Provenzano, Bruna Alfano, Franco Talenti
Coll.: G. Decliva, F. Rey, A. Demario, E. Landi



La terra d'origine della dinastia borbonica è a metà strada lungo l'asse Parigi-Lione, in una regione collinosa percorsa dal fiume Allier che, dopo averla attraversata da sud a nord, si getta nella Loira, e dà il nome all'attuale dipartimento, quello di Allier, appunto, con capoluogo Moulins. A 25 chilometri da questa città sgorgano due fonti di acque sulfuree, note già al tempo dei romani col nome di Aquae Borvonis o Borbonis. L'intera area era, nel IX e al principio del X secolo, un feudo dei conti di Bourges, dei quali erano vassalli i signori di Bourbon, che presso le antiche sorgenti avevano il loro castello, di cui oggi restano in piedi tre vecchie torri. Fu intorno al 913 che i Borbone si liberarono dalla dipendenza di casa Bourges e divennero vassalli diretti della Corona.
Già prima d'allora era fiorita nella regione una leggenda. Si narrava che nel V secolo alcune migliaia di veneti, scampati alle devastazioni di Attila, avevano chiesto e ottenuto asilo presso le fonti di Borbone, e vi erano rimasti per circa quarant'anni. Rientrati nella loro patria, avevano fondato su un certo numero di isolette la città di Venezia. Un'altra leggenda celebrava invece quale primo signore di Borbone un Childeprando, o Hildebrando, figlio di Pipino di Héristal, e dunque fratello di Carlo Martello.
Fuor di favola, il capostipite storico dei Borbone affrancati dal vassallaggio è accertato in un Aimar (o Adhemar), al quale Carlo III il Semplice concesse, nel 913, in feudo diretto, la splendida terra di Bourbon. Aimar, ricordato come eccellente guerriero, veniva in questo modo ricompensato per l'aiuto militare da lui dato al re con le proprie milizie e, da parte sua, cercò di rendere anche più illustre il proprio nome, fondando a Souvigny, a due ore di marcia dalle Acque di Borbone, un'abbazia che divenne in seguito famosa e potente.
Da Aimar discese un Aimone, e da costui tutta una serie di conti chiamati Archembaut, o Archambault, il quinto dei quali prese in moglie una Agnese contessa di Savoia e sorella di Alice, moglie di re Luigi VI di Francia. Da essi l'antica terra di Aquae Borbonis prese il nome di Bourbon-l'Archambault, che conserva ancora ai nostri giorni.
Con Archambault V, cui era premorto l'unico figlio maschio, la linea prima dei Borbone si estinse. Ma la casata risorse più splendida che mai, quando la nipote di Archambault, Beatrice,, andò sposa a un Roberto di Clermont. Costui era un folle, ma era il figlio sestogenito di Luigi IX, cioè di San Luigi, re di Francia. L'autentico sangue dei re capetingi si congiungeva con quello dei discendenti di Aimar. E scorreva nelle vene di Luigi I di Borbone, il figlio di Beatrice e del matto Clermont, che ottenne dalla Corona il titolo di Duca.
Aveva inizio così la maggiore scalata al potere della casata. Enrico IV, passato alla storia per la sua spregiudicata politica e per le sue repentine e strumentali conversioni ("Parigi val bene una messa"), fu il primo Borbone sul trono di Francia. E Filippo V ebbe il trono di Spagna, sul quale dominò sua moglie, l'italiana Elisabetta Farnese.
Il 10 maggio 1734, di pomeriggio, un gran corteo attraversò le strade di Napoli, da Porta Capuana alla Reggia, tra marce militari e salve di cannoni. Il popolo faceva ala al suo passaggio: ma non tanto all'indirizzo del giovane diciottenne - capelli biondi, occhi celesti - che faceva il suo ingresso a cavallo, quanto per incitare i cavalieri che, al suo fianco, lanciavano manciate di monete. Il giovane era don Carlos di Borbone, figlio di Filippo V e della sua seconda moglie, Elisabetta Farnese; ed entrava in città come re delle Due Sicilie, mettendo fine a 230 anni di malgoverno vicereale e instaurandovi quella dinastia che doveva restare sul trono di Napoli fino ai giorni dell'Unità italiana.
Sin dalla nascita di don Carlos l'ambiziosa, energica madre, dei Farnese di Parma, con continui e intricati maneggi, e anche con compromessi matrimoniali, brigò per procacciargli un principato italiano, facendo in questo modo del figlio l'incubo incessante delle Corti e delle diplomazie di tutta Europa. Sicuro è che don Carlos era un predestinato: non aveva ancora compiuto un anno quando, una prima volta, gli fu assicurata col Trattato dell'Aia la futura suecessione negli Stati farnesiani e medicei, avita eredità materna. E di essi Elisabetta lo invitò a prendere possesso nel 1731: don Carlos divenne così Duca di Parma e Piacenza e assunse il titolo di Principe ereditario di Toscana, come erede dell'ultimo dei Medici, Gian Gastone. Ma l'irriducibile ambizione della regina di Spagna non si placava ancora: sognava per l'Infante un trono. E a favorirne i disegni sopravvenne, il primo febbraio 1733, la morte di Augusto II, re di Polonia.


Aspiravano alla successione Federico Augusto, figlio del re defunto e futuro suocero di don Carlos, e Stanislao Leszczynski, che su quel trono era già stato dal 1704 al 1709 con l'aiuto delle armi svedesi. A favore del primo si schierarono l'Austria e la Russia; del secondo - anche per vincoli parentali - la Francia, che riuscì a mettere dalla sua parte la Sardegna e la Spagna. Fu la guerra: ancora una volta l'Italia divenne teatro di una competizione franco-absburgica.
L'esercito spagnolo nella penisola, guidato dal capitano generale Giuseppe Carrillo de Albornoz y Montiel, duca di Montemar, fu posto agli ordini di don Carlos, nominato per l'occasione "generalissimo". Lasciando ai franco-sardi l'intero compito dell'azione in Lombardia, Elisabetta diede ordine al Montemar di muovere alla conquista delle Due Sicilie: "le quali - scriveva al figlio - alzate a regno libero, saranno tue. Va' dunque e vinci: la più bella corona d'Italia ti attende".
A quel punto, il Viceré austriaco di Napoli, Giulio Visconti, bandì la guerra il 19 febbraio e si apprestò alla difesa mobilitando le province meridionali e attendendo, inutilmente, rinforzi dall'Austria. La marcia dell'esercito spagnolo iniziò il 24 febbraio e per don Carlos si svolse tra le riverenti sottomissioni dei prelati e dei nobili, le ovazioni dei popolani, le partite di caccia e gli spettacoli dei comici e degli istrioni che aveva al suo seguito. Attraversati gli Stati Pontifici col segreto consenso di Clemente XIII, gli spagnoli entrarono in territorio napoletano il 28 marzo. Per terra e per mare incontrarono una scarsa resistenza. Il Viceré, la sera del 3 aprile, messa al sicuro la moglie a Roma, abbandona Napoli e si rifugia in terra pugliese. Poi si mise in salvo. Il 6, a Maddaloni, gli Eletti di Napoli - che veniva chiamata "Città" - consegnarono solennemente le chiavi a don Carlos. Poi caddero i Castelli (Baia il 23, Sant'Elmo il 25, Castel dell'Ovo il 2 maggio, Castelnuovo il 6). A quel punto il maggiordomo maggiore don Manuel de Benavides y Aragon, conte di Santo Stefano, aprì a don Carlos le porte di Napoli. I forti di Pescara, di Gaeta e di Capua capitolarono rispettiva/mente il 23 luglio, il 6 agosto e il 24 novembre, mentre nella battaglia di Bitonto (25 maggio) Montemar sgominò le residue truppe austriache comandate dal Principe di Belmonte, Antonio Pignatelli.
La conquista della Sicilia venne affidata dapprima a Montemar, nominato Viceré dell'isola, poi a don Pedro de Castro Figueroa y Salazar, marchese di Gracia Real. L'isola, dove lo sbarco avvenne il 29 agosto 1734, fu del tutto libera con la resa del forte di Trapani, il 12 luglio 1735. Proprio in questo giorno Carlo, visitate le province continentali e la stessa Sicilia - dove il 3 luglio era stato solennemente incoronato a Palermo - faceva ritorno a Napoli "tra le accoglienze universali e feste tanto prolungate, che volsero in sazietà e fastidio".
Già dalla metà di giugno era stato reso pubblico il decreto di Filippo V che cedeva tutti i diritti su quel regno al figlio, il quale si intitolò "Carlo per grazia di Dio Re delle Due Sicilie e di Gerusalemme, Infante di Spagna, Duca di Parma, Piacenza e Castro, Gran Principe Ereditario della Toscana"; e allo stemma di Napoli aggiunse i tre gigli d'oro della Spagna, i sei d'azzurro dei farnese e le sei palle rosse dei Medici. Nel 1738 la pace di Vienna - a conclusione della guerra di successione polacca - riconobbe definitivamente il Regno della Due Sicilie al giovane Carlo: un'altra casata borbonica era così stabilmente insediata su un trono d'Europa, e anche sul più vasto regno d'Italia.
Non alto, di corporatura solida, piuttosto bruttino, col volto segnato dal vaiolo, Carlo era di buona indole, affabile, sinceramente religioso, rispettoso dei genitori, soprattutto ossequiente alla risoluta tirannia materna. Era parco nel vitto. Amava la pesca, il biliardo, le feste e gli spettacoli. Ebbe due passioni predominanti: la moglie Maria Amalia di Sassonia, della quale fu compagno felice e fedele, e la caccia, che secondo dicerie verosimili praticò per tener lontana la perniciosa malinconia della Corte spagnola. I giudizi sul suo governo sono vari e discordanti, ma la critica storica è sempre stata orientata verso una valutazione favorevole del regno di Carlo, senz'altro il migliore dei Borbone di Napoli. Salendo al trono delle Due Sicilie, il giovane re trovò un paese immiserito e prostrato dalla bisecolare amministrazione vicereale, spagnola prima, austriaca in seguito. La nobiltà, perseverando nell'ozio e nell'ignoranza, era decaduta dall'antica potenza politica dell'epoca angioina e aragonese, ma aveva accresciuto l'albagia e sfrenato il lusso, malgrado le prammatiche correttive dei Viceré. Gli ecclesiastici erano circa 75 mila (su quattro milioni di abitanti), e, in gran numero licenziosi, accentravano nelle loro mani un terzo delle rendite globali dello Stato. Godendo di personali immunità, di esenzioni fiscali e persino di una propria giurisdizione, essi rappresentavano quasi uno Stato nello Stato.
I ceti medi - che daranno le energie innovatrici -erano prevalentemente formati da funzionari, da grandi commercianti e da gente del foro, coloro che la plebe chiamava ironicamente "paglietta" per il cappello che, con la toga e con l'anello, veniva conferito loro insieme con la dignità dottorale. Le classi umili vivevano in condizioni infernali: nella sola capitale si contavano 25 mila mendicanti, mentre la "maledetta razza" dei contadini (così erano stati definiti da un canonico dell'epoca) a stento riusciva a nutrirsi di verdure selvatiche e di pane di frumentone, senza possedere neppure la terra dove seppellirsi. Il sistema feudale inceppava ogni processo morale e sociale del paese: meno di un quinto della popolazione dipendeva direttamente dal Re; il resto, sparso in circa duemila città e terre feudali, era soggetto ai baroni, di solito esosi e tracotanti, taluni dei quali, vivendo a Napoli, non si recavano neppure una sola volta a vedere le loro lontane proprietà.
Si comprende benissimo, dunque, come la fine di una ferrea e rapace soggezione trovasse consensi e alimentasse speranze in un paese del genere, nel quale peraltro viva e radicata era la tradizione dell'autonomia, di cui aveva goduto dal 1104 al 1503, cioè dai Normanni agli Aragonesi. La stessa presenza del Re valeva senz'altro a frenare, almeno in buona parte, i continui abusi che dovunque si commettevano a danno dei deboli e degli inermi, con palese violazione di tutte le leggi.
Immensi furono i problemi che il monarca dovette affrontare con urgenza: la trasformazione della struttura dello Stato da feudale in amministrativa; l'ammodernamento dei sistemi e il radicale riordinamento degli strumenti di governo, anche per mitigare l'indigenza delle classi più umili; la ridefinizione dei rapporti tra il Regno e la Chiesa per ciò che si riferiva non solo alla pretesa soggezione feudale alla Santa Sede - vassallaggio reso visibile dall'annuale offerta al Papa di un cavallo bianco e di una somma di denaro, la cosiddetta Chinea - ma anche per i privilegi e per la potenza economica del clero. E fu proprio su questo secondo punto che Carlo, grazie soprattutto all'opera del ministro Tanucci e alla diplomazia dell'abate Celestino Galiani, Cappellano Maggiore, conseguì i più concreti successi. Vi concorsero di fatto, da un canto, la larga corrente d'opinione che, emersa già a metà del '600 con Gaetano Argento, incontrò i più validi interpreti in Pietro Giannone e, dal 1737, in Antonio Genovesi, all'epoca giovane e sconosciuto pretino di provincia; e, dall'altro, le gelosie dei baroni e le ansie di quanti tendevano a trarre vantaggi dall'abolizione dei privilegi fiscali fino ad allora riconosciuti alla gente di chiesa. Il Concordato del 1741, fra l'altro, sottopose a tributi i beni ecclesiastici, restrinse l'immunità locale e personale, accrebbe i requisiti per il conseguimento degli ordini sacri al fine di limitare anche il numero dei preti. Anche il tentativo dell'arcivescovo Spinelli di restaurare, nel 1746, sotto altro nome il Sant'Uffizio fu decisamente stroncato da Re Carlo. L'Inquisizione non accese mai un rogo nel regno delle Due Sicilie.
Meno rilevanti furono i risultati del riordinamento dello Stato. La più seria riforma fu la compilazione di un catasto (detto "onciario" o "carolino"), iniziata nel 1740. Ancora oggi se ne conservano più di novemila faldoni, che riguardano circa duemila "Università" (Comuni) del Regno. Non si raggiunse una più retta giustizia distributiva, ma il catasto rappresentò un gran beneficio e segnò il superamento di procedimenti antiquati. Ciò si verificò anche in altri settori: evidentemente, tempi e condizioni del Regno non consentivano riforme a tutto campo. Il Codice Carolino, che avrebbe dovuto sostituire una secolare stratificazione di leggi farraginose, rimase solo un progetto; la "Giunta di Commercio" nominata per migliorare l'economia pubblica, e poi lo stesso "Supremo Tribunale del Commercio", trovarono un freno limitativo nel contrasto di coloro che sarebbero stati penalizzati dalla libertà del commercio e dalla conseguente abolizione di diritti e prerogative; esiguo fu il riscatto degli "arrendamenti", vale a dire la riscossione di imposte affidata in appalto ai privati; l'agricoltura non ricevette impulsi sostanziali, per la persistenza di arcaici sistemi di conduzione e per la mancata evoluzione dei rapporti sociali. Tuttavia, questi e altri tentativi valsero a mettere in discussione metodi e procedure, a identificare deficienze, anacronismi, abusi, a promuovere indagini e critiche, a sollecitare in ultima analisi una coscienza nuova, della quale i maggiori fautori furono il Giannone e il Genovesi che a Napoli fondò la prima cattedra di economia politica istituita in Europa.
Strade vennero aperte o riattivate, come quella di Venafro, resa rotabile con la costruzione di un ponte sul fiume Volturno, quella della "Grotta di Pozzuoli", o il prolungamento della via da Salerno a Persano; e in diversi luoghi opere edilizie minori furono portate a termine. Ma sfarzosi furono gli edifici voluti da Carlo, in gran parte completati o ampliati dal successore: il restauro del Palazzo reale cittadino, la reggia di Capodimonte, che voleva essere l'opera "più rilevante d'Europa", con due boschi per la caccia, l'uno delle pelli, l'altro delle penne; la reggia di Caserta, che si pose all'apice del fasto borbonico; la reggia di Portici, con la duplice attrattiva della caccia e della pesca; l'Albergo dei Poveri, ipotizzato già nel 1736, sull'esempio di Roma e di Genova, dalla Giunta di Commercio; il Teatro di San Carlo, miracolosamente realizzato nel 1737 in appena otto mesi.
I successori di Carlo non seguirono il suo esempio di sfarzo edilizio, che pure aveva caratterizzato, nel '500, il governo del Viceré spagnolo Pietro di Toledo. Sicché le opere realizzate dal primo Re di Borbone formano ancora oggi la parte considerevole dei monumenti civili di cui Napoli possa portar vanto.
Il 10 agosto 1759 morì il fratello Ferdinando VI, ammalatosi di "malinconia" per la perdita della moglie Maria Barbara. E Carlo (solo da allora III) fu costretto a lasciare il trono napoletano, per salire su quello di Spagna, ereditato per testamento. Da Maria Amalia aveva avuto una numerosa prole. Il primogenito era demente. Il secondo, Carlo Antonio (il futuro Carlo IV), diventava crede della Corona di Spagna. Il trono di Napoli toccò al terzogenito, Ferdinando, di appena otto anni. La cerimonia del commiato fu mestissima. Il 6 ottobre 1759, Napoli assisté con muto dolore alla partenza di Carlo. Presagiva che non avrebbe avuto un sovrano illuminato come lui.


CRONOLOGIA DI UN DOMINIO

1734. Pace di Vienna. Si chiude la guerra di successione polacca. Carlo di Borbone diventa Re di Napoli col nome di Carlo III e cede all'Austria il suo Ducato di Parma e Piacenza.
1748. Trattato di Aquisgrana. Filippo di Borbone, fratello di Carlo III, ottiene la restituzione di Parma e Piacenza.
1759. Carlo III passa sul trono di Spagna, lasciando la corona napoletana al figlio Ferdinando IV, assistito da buoni ministri.
1761. "Patto di famiglia" tra i quattro rami regnanti della Casa Borbone: Francia - Spagna -Napoli - Parma.
1767. Ferdinando sposa Maria Carolina d'Austria, sorella di Maria Antonietta, e sotto il suo influsso appoggia la reazione.
1798. Ferdinando partecipa alla coalizione contro la Francia ed entra vittorioso in Roma repubblicana.
1799. I francesi a Napoli. Repubblica Partenopea. I reali si rifugiano in Sicilia, scortati dalla flotta inglese.
1799. Crollo della Repubblica Partenopea. Ritorno dei Borbone a Napoli e reazione.
1801. Pace di Lunéville fra Bonaparte e la coalizione europea. Il re di Napoli deve cedere alla Francia lo "Stato dei Presidii" e pagare indennità. Il Granduca di Toscana è sostituito dai Borbone di Parma.
1805. Pace di Presburgo fra Napoleone e gli alleati europei. Il Napoletano è sottratto ai Borbone, di nuovo esuli in Sicilia, e dato a Giuseppe Bonaparte, fratello del Corso.
1807. Carlo Ludovico di Borbone, succeduto nel 1803 al padre Ludovico (già Duca di Parma) sul trono di Toscana, viene spodestato. La Toscana passa sotto il diretto dominio francese. Anche il Ducato di Parma, governato dal 1802 da funzionari francesi, viene riunito alla Francia.
1808. Deposti Carlo IV di Borbone e suo figlio Ferdinando (ramo spagnolo). Napoleone chiama al trono di Spagna suo fratello Giuseppe. Il Regno di Napoli passa a Gioacchino Murat.
1815. Caduto il Corso, Ferdinando di Borbone rientra a Napoli dall'esilio siciliano, sotto scorta di navi inglesi.
1815. Congresso di Vienna. Il Ducato di Parma è assegnato a Maria Luisa d'Austria. Ma, alla sua morte, dovrà tornare ai Borbone. Maria Luisa di Borbone ottiene intanto il Ducato di Lucca. Ferdinando IV, riuniti nuovamente i suoi possessi in Sicilia e nel continente, prende il nome di Ferdinando I.
1820. Agitazioni carbonare in Sicilia e a Napoli. Il Re concede la Costituzione, poi la ritoglie con l'appoggio della Santa Alleanza.
1825. Morte di Ferdinando I. Gli succede Francesco I.
1828. Insurrezione del Cilento e repressione a Napoli.
1830. Morte di Francesco I. Gli succede Ferdinando II.
1844. Spedizione dei Fratelli Bandiera in Calabria.
1847. Rivolte a Reggio e a Messina, soffocate nel sangue.
1847. Con la morte di Maria Luisa d'Austria, il Ducato di Parma ritorna ai Borbone. Carlo Lodovico, già Duca di Lucca, restituisce questa città alla Toscana.
1848. Rivolta a Palermo, con governo provvisorio. Agitazioni a Napoli. Ferdinando II il 10 febbraio concede la Costituzione. In marzo invia truppe a partecipare alla prima guerra d'Indipendenza. Ma ben presto abolisce la Costituzione (maggio) e richiama le truppe. In settembre, rivoluzione in Sicilia. Il Re fa bombardare Messina. Rientra nel suo Stato, appoggiato dall'Austria, il Duca di Parma, che era fuggito in primavera.
1849. Ferdinando II annulla le ultime resistenze siciliane.
1854. Assassinio di Carlo III di Borbone, Duca di Parma.
1859. Morte di Ferdinando II. Gli succede Francesco II.
1859. La Duchessa Maria Luisa di Borbone, vedova di Carlo III e tutrice del piccolo Duca Roberto, lascia Parma, dove viene creato un governo provvisorio.
1860. Spedizione dei Mille. In giugno Francesco II concede la Costituzione. In settembre lascia la sua capitale e si rifugia a Gaeta. Garibaldi e più tardi i piemontesi occupano il regno delle Due Sicilie.
1861. Il 12 febbraio è espugnata Gaeta. E' la fine del Regno borbonico nell'Italia del Sud.


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