METAFORE D'EUROPA




Aldo Bello



25 marzo 1957. La Patarina, la campana del Campidoglio, annunciava con rintocchi a distesa che Italia, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Repubblica Federale Tedesca avevano firmato i Trattati di Roma. L'Europa dei Sei era nata sul più celebre dei sette colli della Città Eterna. O meglio, nell'area michelangiolesca che quel colle divide in due, nell'altura settentrionale che è la Rocca, a Aree, e in quella meridionale che è il Monte Tarpeo, la celebre Rupe dalla cui sommità venivano precipitati i traditori.
14 giugno 1989. Immediate vicinanze di Bonn, la "Bonnia" o "Castra Bonnensia" dei Romani. Sponda sinistra del Reno, verde di vigne piantate dai legionari di Domiziano di fronte allo scoglio di Lorelei, l'ondina che col suo dolcissimo canto attirava i naviganti, facendoli naufragare. Qui Helmut Kohl prendeva per il braccio Gorbaciov e gli diceva: "Guarda la corrente, Mikhail. Simboleggia la Storia, non si ferma mai. Puoi cercare di arrestare il fiume, tecnicamente è possibile, ma gli argini non impediranno all'acqua di arrivare al mare. Così sarà per l'unità tedesca". Cinque mesi dopo cadeva il Muro di Berlino. E pochi anni dopo, nel '97, sempre in quel luogo che ha segnato la storia del mondo, si decise di far partecipare all'Euro il maggior numero possibile di Paesi, Italia compresa.
Notte tra il 10 e l'11 dicembre 1991. Maastricht (in fiammingo Maestricht), città sorta duemila anni fa a difesa del ponte romano sulla Mosa, poi residenza dei re Franchi, dei duchi di Brabante e dei vescovi di Liegi, capitale del Limburgo olandese, con un bel centro medioevale dentro i resti di possenti bastioni, da sempre importante piazzaforte di confine. Qui furono siglati i Trattati con i severi parametri che hanno portato all'Euro.
Che cos'hanno in comune il Campidoglio, Bonn, Maastricht? L'origine romana, anzitutto; e il ruolo, nella storia dell'Europa unita, di castelli, rocche, mura, rupi e infine fiumi che di quella storia sono la metafora più intrigante.
Henry James, nato americano, naturalizzato inglese, vissuto a lungo in Europa, spirito cosmopolita che nei suoi romanzi rappresentò con minuto realismo e confine analisi psicologica la condotta morale dei personaggi nel contesto della vita sociale, fu il primo a scrivere che quel che identificava e rendeva differenti società e spirito degli statunitensi era il fatto che nel Nuovo Mondo non c'erano stati mai castelli. Gli europei, invece, li avevano avuti, e se qualcosa ha identificato e reso omologhi gli abitanti del Vecchio Mondo è ciò che il castello rappresenta come struttura e come simbolo, nello stesso tempo espressione di rapporti sociali, opera d'arte e di tecnica, segno di potere impresso su paesaggi reali e immaginari. Gli europei hanno costruito castelli e poi li hanno in parte demoliti, sono vissuti alla loro ombra, si sono esaltati alla luce della potenza che essi irradiavano. Se si scava nella coscienza di ciascun europeo e di tutti gli europei, sono la materialità e l'immagine del castello quel che meglio compendia ancora oggi la sensibilità e gli umori dei popoli del Vecchio Continente.
Dal X-XI secolo il castello ha rappresentato, con la sua presenza simmetrica - e incombente -sul territorio, la struttura dei rapporti politici, economici e sociali di una lunga epoca. In alto, la residenza turrita. In basso, il borgo contadino o gli agglomerati degli artigiani, dei mercanti, degli osti.
Per secoli i movimenti sociali e il pensiero politico d'Europa si sono formati in contrapposizione al castello e al regime che rappresentava. Quando, all'inizio della Rivoluzione francese, l'abate Sieyès tuonava: "Siamo la maggioranza, non contiamo nulla, vogliamo contare qualcosa", dava voce al popolo delle bassure contro gli abitanti privilegiati degli acrocori. I quali, nel frattempo, resi indifendibili dallo sviluppo dell'artiglieria, da fortezze militari si erano riciclati in castelli-villa (come lungo la Loira, o lungo il Reno, o lungo la Senna), cioè in luoghi di lussi inavvicinabili e di intrighi preclusi ai borghesi. Fino al momento in cui sopraggiunsero le rivoluzioni e molti castelli, assaliti, vennero distrutti intenzionalmente, come accadde per il castello-palazzo delle Tuileries, a Parigi, nel 1871.
Con una storia siffatta, distesa su sette o otto secoli, il castello ha finito per insediarsi definitivamente nella coscienza degli europei. Nell'800, a mano a mano che i borghesi imprenditori si arricchivano, sfoggiavano la loro opulenza e il loro potere costruendo cast5elli che imitavano pietra su pietra il modello antico. Anche i re (come Ludwig di Baviera) ripresero a tirar su manieri, anche se ormai privi di alcuna funzione che non fosse romantico-esornativa.
Tra l'800 e il '900 il castello entrò nella letteratura. Camere di tortura, corazze, armi bianche, labirinti, segrete e botole, notturne scalate di bastioni, damigelle prigioniere, duelli, maschere di ferro, diventarono ingredienti bassi del romanzo storico e dei racconti d'appendice. Col titolo omologo di Kafka (ma siamo nel 1926), il castello trovò la sua sublimazione come metafora, luogo dell'anima, chiave di lettura di fenomeni altrimenti indecifrabili, quali la burocrazia. Né vanno dimenticati, infine, la pittura e, più tardi, il cinema.
Immagini e sentimenti del passato? Un errore, crederlo. E' stato notato che la rigidità della stratificazione sociale che ancora si osserva in Europa, gli ostacoli che chi è nato in basso incontra se tenta di salire in alto, quali che siano i suoi meriti, sono sempre dovuti al fatto che abbiamo avuto i castelli. Il castello era un mondo inaccessibile dall'esterno, a meno di essere un invitato o un "servo del Principe" o un servo tout Court.
Racchiudeva, riservandole a pochi, forme di esistenza, di edonismo, di cultura, di pensiero del tutto differenti rispetto al volgo escluso. La democrazia ha eliminato gli ostacoli fisici e giuridici che impedivano di entrare nel castello, e la storia ha divorato molti "Signori dell'altura". Ma né la democrazia né la storia hanno ridotto, se non in parte, i cavalli di Frisia sociali e culturali. Se non si è tra i prescelti di chi detiene un castello-potere, le probabilità di accedere al mondo racchiuso al suo interno restano minime.
Quanto al comportamento politico degli europei, da una parte esso è debitore, tanto nelle varianti liberali quanto in quelle socialdemocratiche, del pensiero che si sviluppò tra '700 e '800 in antagonismo al regime dei castelli. Dall'altra, l'ombra dei castelli sembra proiettarsi più che mai nei suoi tratti caratteristici, come sul linguaggio che li accompagna. La lotta politica in Europa non è somigliata mai a uno scontro tra milizie dispiegate in campo aperto, in grandi pianure, ma ricorda piuttosto un assalto condotto contro una rocca, un palazzo turrito, un potere smisurato tra muraglie ferrigne. Appunto: contro un castello. Che non occorre visitare fisicamente, per conoscerlo, e per sapere. A chiunque abiti dal Portogallo alla Svezia, dalla Sicilia alla Bretagna, dall'Attica alla Carinzia, è sufficiente che scavi anche solo un poco dentro di sé.
Nel maggio '98 tutto è stato vissuto come il compimento singolare di un'ininterrotta storia di guerre, distruzioni, conquiste. Protagonisti? Non più la classe dei sacerdoti né quella dei guerrieri; né un Imperatore né un Papa; e meno che mai un ideologo uniformatore di anime e coscienze. Molto realisticamente: un gruppo di sovrani (allarmati, ma in tempo di pace) ha presentito la decadenza inarrestabile della propria sovranità, preludio alla decadenza estrema dell'Europa. Il loro gesto è stato forte, imperioso: undici Capi di Stato si sono disfatti d'un colpo delle proprie prerogative sulle monete nazionali. C'è qualcosa di sconvolgente - e di drammatico - nel loro atto, che anche nelle cupe contese sul Governatore con poteri sopranazionali ha avuto i colori conflagranti di un crepuscolo degli dèi volontariamente tumultuoso. Come qualcuno ha chiosato, non è stata la guerra fredda a unirli così strettamente. Non erano alle porte orde di russi. Non premeva a Roncisvalle la mezzaluna saracena. Altre circostanze storiche li hanno convinti che era in gioco la sopravvivenza dell'Europa, anche se il nemico ora si chiama Il concorrente", non ha artiglierie e non minaccia la distruzione fisica. " Tutto non era perduto / ma tutto si sentì perire", aveva scritto Valéry nel '19. E' proprio quel che è accaduto ottant'anni dopo. Non un conflitto d'armi, ma il terrore di concorrenti risoluti, che sono i nemici più furibondi. C'è chi dice che, in questo senso, l'Euro conclude una storia. In realtà, rappresenta il tentativo di ricominciarla, senza perderne la memoria. Altrimenti è impossibile spiegare l'enormità dell'iniziativa e la portata delle rinunce. Né si può chiarire l'impeto volontaristico di chi intende affrontare un nemico, sì, ma del tutto diverso dal solito, e percepito più che scoperto, intuito più che intravisto. L'Euro è l'arma dissuasiva di un Continente-castello che si prepara febbrilmente alla legittima difesa, avendo cominciato a immaginare il proprio declino in tempo utile scrutando orizzonti velati e anticipando le mosse di un nemico latente ma sempre possibile, perché sempre sospettato. Come nel Deserto dei tartari.
Ma il nemico essenziale è un avversario intimo che i sovrani europei hanno identificato dopo il '45 e che hanno disegnato con intensità esponenziale il giorno in cui è caduto il Muro nel cuore di Berlino, la Germania si è riunificata e le economie dell'Europa occidentale sono state costrette a "globalizzarsi", cioè a diventare più vulnerabili, più dipendenti dalle forze (erratiche, imprevedibili) del mercato mondiale. Parecchie funzioni e altrettante certezze che si erano consolidate durante la guerra fredda - sotto la protezione dell'ombrello americano - allora accennarono a sfaldarsi. Si frantumò la sicumera della Francia, che cessava di essere la nazione indispensabile, centrale, che De Gaulle era riuscito ad accreditare - surrettiziamente, con abilità di demiurgo - come vincitrice della guerra e depositaria di solitaria grandeur politica. Crollarono le certezze tedesche, che erano state tutte negative: convinzione di essere un gigante economico, frustrazione per la condanna all'irrilevanza politica; coscienza di avere un debito storico, inibitore di sovranità, e nel contempo di essere il castello-chiave d'Europa, la cui conquista avrebbe sigillato il dominio sul Vecchio Continente.
Quasi tutte insieme, simultaneamente, le nazioni europee hanno preso atto di essere ipocritamente sovrane in un'economia che, mondializzandosi, era sempre meno governabile dagli Stati. I sovrani erano sempre quelli, con i loro attributi di comando e con i loro scettri rispettabili. Ma erano ultimi imperatori chiusi nelle rispettive Città Proibite, oltre le cui porte non passavano i segnali della loro volontà politica ed economica. Simulacri di imperatori. Aveva ragione l'economista francese Jean-Paul Fitoussi: la tutela dei mercati sui singoli Paesi era totale, la libertà di manovra dei sovrani era menzognera. Da gran tempo gli imperatori erano nudi.
L'Euro, nel bene e nel male, è nato per combattere i nemici latenti che ogni Stato sentiva dentro di sé e che temeva dentro l'anima dell'altro; per abbattere le estreme funzioni, le antiche e rinnovate illusioni di forza; per ipotizzare qualcosa di diverso dalle nostre eterne mitologie. Esso non mette fine a grandiosi Stati sovrani, non consegna alla ghigliottina moderni Luigi XVI, non interrompe la naturale continuità di una vischiosa storia europea. Cancella l'abbrivo di sovranità limitate che sopravvivono negli undici castelli, e fa colare a picco fra gli scogli a pelo d'acqua di Lorelei o scaraventa dal Colle Tarpeo i predicatori di paradisi localistici. E rivalutando l'invenzione medioevale che riconciliò le fedi politico-religiose col profitto e il capitalismo nascente con i bisogni imperfetti dell'uomo, svela il valore infinitamente più durevole (e umano) del Purgatorio. Perché proprio questo sarà l'Euro: il Purgatorio di 290 milioni di europei, ciascuno dei quali, alla fine del passaggio, si sentirà "puro e disposto a salire a le stelle".
Castelli e rupi, dicevo, come metafora dell'Europa contemporanea. Tanti gli esempi. Intanto, l'Euro è nato incompiuto, perché politicamente opaco. Non ha completa legittimazione. Il giorno in cui la Germania si riunificò, la Francia volle imbrigliare Bonn, negando al Cancelliere tedesco l'equazione "rinuncia al marco uguale unità politica degli Stati europei". Sarebbe stato il gran balzo. Il fatto è che l'Europa degli Undici, emersa da quella dei Quindici, ha segnato l'incontro (con mercanteggiamenti irsuti) tra i castelli latini e quelli teutonici. Sicché ancora oggi legittimamente ci si chiede se si europeizzerà la Germania o se si germanizzerà l'Europa. Da questo, la tendenza inconscia di alcuni Stati a ri-nazionalizzarsi, a mostrarsi più umbratili, ad esser pronti a impermalirsi e ancora più disposti a risvegliare le finzioni di potenza, ad avvelenare la moneta unica, ad adoperarsi per non colmare il deficit democratico dell'Unione. Il tempo delle fortezze e delle rupi non è del tutto tramontato. E all'orizzonte della ridotta Bastiani, creata dalla fantasia predittiva di Buzzati, come in un nirvanico dormiveglia si intravede il ritorno dell'eterno nemico: il Tartaro che ha un nome diverso e lontano, ma è pur sempre asiatico.
Dalle finestre della grande sala nella quale appena un anno fa si ipotizzarono i confini possibili dell'Europa a Venticinque, gli olmi e i tigli si vedono ondeggiare sul prato verde del Palazzo Reale parigino. Sembra di scorgervi ancora il cardinal Richelieu, che l'aveva fatto costruire e che vi si era trasferito nel 1639 a tessere le sue trame tenebrose; o Anna d'Austria, che vegliava sul piccolo Luigi, futuro Re Sole, mentre i guitti di un commediografo sulla cresta dell'onda, Molière, divertivano - sbeffeggiandoli - i cortigiani.
Qui si discusse a lungo sull'analisi dei modelli di capitalismo che si contendono il primato europeo: quello renano e quello anglosassone, cui si sarebbe poco dopo aggiunto l'altro che, sia pure su scala minore, per la sua imprevedibilità e fioritura ha sbalordito il mondo, quello del Nord-Est e della Fascia Adriatica italiana, nello stesso tempo familista e comunitario, con piccole aziende che hanno come mercato il mondo. E da questa sala si è guardato oltre l'Oder-Neisse, lungo il Danubio, fino al corso del Don, verso le terre baltiche e al di là dell'Ellesponto, per interrogarsi su possibili nuovi protagonisti dell'Unione. Perché si sa che il Continente comincia col faro dell'Algarve, ma non è dato sapere dove debba realmente finire. Si indicarono soglie temporali d'ingresso per Estonia, Lettonia e Lituania, poi per Polonia, Ungheria, Boemia-Moravia, Slovacchia, Romania e Bulgaria, e con più ampia dilazione per Turchia e Cipro. Pollice verso per Russia Il europea" e Ucraina, per Serbia e Balcania inferiore, e per l'Asia turcofona, che va a conficcarsi nel ventre molle di quel continente.
Nelle scelte giocò pesantemente la memoria storica, perché il passato non ripiega mai decorosamente. Il termine Europa affonda le radici nel mito greco: Europa era la figlia del re di Fenicia Agenore. Rapita da Zeus in sembianze di toro, fu trasportata a Creta, dove generò Minosse. Europa è anche nome di origine accadica, Erebu, che significa tramonto, e per estensione Occidente, contrapposto ad Asu, Asia, cioè alba, e dunque Oriente. Per Esiodo, Europa e Asia erano due ninfe, figlie di Oceano. Ma già Eschilo aveva preconizzato, al di qua e al di là del Bosforo (Halic, in lingua turca: e significa, nel nome di Zeus e di Io, "Guado della giovenca"), una contrapposizione simbolica fra civiltà: da una parte il senso laico dello Stato, la razionalità, la sobrietà, l'ordine; dall'altra la confusione idolatrica dei poteri, la tirannide, l'arbitrio, la lussuria. Le sterminate genti dell'arco erano opposte ai popoli organizzati della lancia, come i nomadi schiavi di re barbari ai coscienti cittadini che difendevano in armi la libertà della polis. Di là grandiose metropoli, babeliche costruzioni, fiumi giganteschi, deserti salati; di qua città dove tutto, compresi i templi, era a misura dell'uomo e dei suoi campi coltivati. Di questi scenari incompatibili aveva scritto Erodoto, fornendo l'avallo della sua dotta parola, descrivendo il valore ittita come disumana ferocia, la magia persiana come notte della ragione, il sapere mesopotamico come viatico di fornicazione con i potenti della terra, il ritualismo egizio come matrice di dispotismo. Gli intellettuali ellenici avevano accreditato persino la leggenda di un Alessandro Magno adulteratore della purezza e dell'armonia egea e creatore di un mostruoso incubo euroasiatico. Nei suoi Persiani Eschilo aveva descritto due donne "di statura imponente e di incomparabile bellezza" aggiogate a un carro come cavalle: una, in vesti persiane, era l'Asia, che accettava docilmente le briglie; l'altra, in vesti doriche, era Eleutheria, la libertà greca, che si ribellava e spezzava il basto. Così l'Europa, in Erodoto come in Eschilo, è ciò che si separa dall'uniformità asiatica ed è con essa in una lotta per la vita o per la morte, rispetto alla quale "non c'è via di mezzo".
E' il Muro eretto duemila e cinquecento anni prima dell'Euro. Al di qua del quale numerosi erano stati i tentativi di unificare i castelli che, mentre negavano Babilonia per iniziare un'altra storia del mondo, vigilavano sulle proprie ferree baronie. Il più riuscito, forse, fu il primo, quello romano, che al suo apogeo incluse, oltre al bacino mediterraneo, l'Iberia, la Francia, l'Inghilterra fino al Vallo adrianeo, i lembi occidentali e meridionali della Germania e l'Est fino ai confini sarmatici. Da un punto di vista geopolitico, la conquista della Gallia rappresentò il primo spostamento dell'asse della storia dal Mediterraneo all'Europa continentale.
Caduta Roma, si dovette attendere la notte di Natale dell'800, con l'incoronazione di Carlo Magno a sovrano del Sacro Romano Impero, per vedere ricostituita l'unità politica del Continente. Con una significativa novità, rispetto ai trascorsi latini: il coinvolgimento della Germania. L'Europa fortezza carolingia (contro l'Islam) fu, in un certo senso, il precedente diretto dell'attuale Unione: un'entità franco-tedesca con ampie propaggini europee meridionali.
Dalla dissoluzione della fortezza ebbero origine gli embrioni degli Stati nazionali. Finché nel XVI secolo si ebbe una parziale, effimera riunificazione sotto lo scettro di Carlo V, erede dei possedimenti absburgici, della corona imperiale tedesca, del regno spagnolo e dei possedimenti italiani. La Francia contrastò questa egemonia, che comunque scomparve col suo protagonista. E proprio dalla Francia partì l'ultimo tentativo, quello napoleonico, condotto in nome dei diritti dell'uomo e del codice civile, ma imposto con le baionette. Anche l'Europa del Corso non fu molto dissimile da quella degli Undici: ne rimasero fuori, ostili, e infine vincitrici, Inghilterra e Russia, oltre all'Impero ottomano.
Il nostro secolo ha visto il suicidio collettivo dell'Europa, devastata da due guerre mondiali e da conflitti armati fratricidi. Su tante ceneri è germogliato l'Euro, mentre il mondo anglosassone resta in bilico - in una Manica sempre più larga - fra l'attrazione fatale della fossa atlantica e la forza di gravità della pozzanghera mediterranea; e il mondo scandinavo continua a scricchiolare sinistramente sotto il suo lentissimo disgelo.
E tuttavia, è dai tempi della pace di Westfalia, che mise fine ai massacri granguignoleschi della Guerra dei Trent'Anni, che non si verificava una sfida pacifica come quella attuale. Che, se non fallirà, sprofondando nei vortici di un maligno maëlström le terre dalle Colonne d'Ercole al Corno d'Oro, smentirà forse per sempre le profezie di Paul Valéry, che immaginava l'Europa promontorio dell'Asia, e di Alberto Savinio, che la prevedeva immensa e sanguinaria Balcania.


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