Compagni,
"camerati", colleghi: sono tre termini che i vocabolari -
quelli in uso nelle scuole dei miei tempi da lungo andati e più
o meno in circolazione pur oggi, anche se ricchi di presunzioni di rinnovamento
- fanno confluire in un unico complessivo significato. Le enciclopedie
invece ci ricordano che il termine "compagno", oltre ai suoi
correnti significati, ha indicato nelle sinistre l'appartenenza alla
stessa ideologia politica: comunista o socialista. Le stesse enciclopedie
ricordano che il termine "camerata" durante il Ventennio ha
coniugato origini combattentistiche con sopravvenuti rapporti di convivenza
partitica. Infine il termine "collega" ha più che altro
significato una comunanza di specializzazione, che molto spesso è
sfociata nei presidii degli ordini professionali e dei sindacati.
C'è tuttavia un significato dominante, che è quello riferentesi
al compagno inteso originariamente e prevalentemente quale indice di
appartenenza alla stessa scuola. Poi è intervenuto il compagno
politico di cui prima abbiamo detto, che però è stato
sempre sottoposto ai contr'ordini, fino alla tollerata scomparsa di
oggi sotto qualche "albero" compiacente.
Come in tanti altri campi, in questo secolo soprattutto, vocabolari
ed enciclopedie indicano e illustrano parole, ciascuna di diversi contenuti.
Fra l'altro il reale è incalzato dal virtuale, l'usanza cerca
di prevalere sul costume, questo stenta ad elevarsi a cultura.
Vocabolari ed enciclopedie dovrebbero essere un po' come la storia,
che amministra la giustizia: in questo campo quella delle parole. Ma,
a differenza della giustizia, questa storia e questo tipo di storia
non dispongono neppure delle regole della procedura.
Compagni di
scuola nel Sud
I miei compagni di scuola nelle elementari si contano sulle dita di
una sola mano. Appartengono alla seconda metà degli anni Dieci
e perciò hanno a che fare con la prima guerra mondiale.
Uno era figlio di un giudice, che si chiamava Bonomo, con gli ovvii
incitamenti che a lui e, spero anche al padre, derivavano dal cognome.
Un altro Viola, ed era figlio del sottoprefetto (allora esisteva questa
funzione, preludio di una prefettura sempre in predicato elettorale).
La comunione di esistenza con questi adolescenti è valsa a
mettermi al corrente delle notizie che i loro genitori acquisivano
dai giornali che leggevano e dagli ambienti che frequentavano.
Il resto me lo sono fatto guardando agli adulti. Taluni frequentavano
l'istituto tecnico. Altri apparivano con la divisa militare dell'Annunziatella.
Qualche altro inventava il pallone da calcio per conto suo, e perciò
si era creato un proprio campo di calcio, dove ammetteva solo i suoi
pochissimi prescelti. Sassi segnavano le porte; il pallone era costituito
da una tela marrone cucita a rotolone, che si mostrava riluttante
a risolvere il suo ruolo: tant'è che non ho mai sentito parlare
di goal. Gli altri sports si affidavano alla sosta di un giro ciclistico,
promosso da un quotidiano napoletano. Ma allora nel mio Sud i giornali
arrivavano l'indomani della loro pubblicazione e perciò più
che dare notizie erano chiamati a suscitare prevalentemente le riflessioni.
Che naturalmente erano tutt'altro che ottimistiche. Lo sguardo era
portato a rivolgersi verso il basso e taluni lo spingevano fino alla
stazione ferroviaria, da dove partivano gli emigranti oltre mare,
quelli delle cento lire che avevano richiesto alla madre. Ritorni
felici non ve ne sono stati e cambi di residenza sono rimasti senza
storia e senza invii di valuta con la quale costruire case per la
vecchiaia.
Con lo spirito che ne derivava sono proseguiti i miei due anni di
studi ginnasiali, affrontati con due sacerdoti, di cui uno bravo e
l'altro solo ottimista nelle doti taumaturgiche del suo insegnamento,
affidato alla fede e non alla cultura. L'ottimismo fa e faceva di
questi scherzi anche nella didattica.
Qualche cosa migliorò a livello d'insegnamento e di affiancamento
con i compagni di scuola negli anni successivi. C'è il mio
terzo. ginnasio al Collegio Bianchi di Napoli, con il vestito alla
marinara che era entrato nel nostro abbigliamento. Con gli insegnanti
barnabiti, che cercavano la strada del dialogo con noi, riuscendo
tuttavia a ravvivare le nostre speranze più che le nostre cognizioni.
L'habitat circostante, che era quello della ferrovia cumana, si prestava
a sparuti comizi, a più allettanti apparizioni del "pazzariello"
- quello di Totò, per intenderci. Detti comizi sono stati il
sillabario della politica come spettacolo.
Più in chiaro le cose sopravvenute alla quarta ginnasiale,
al liceo ginnasio Pietro Giannone di Benevento. Buoni insegnanti,
anziani; e una donna insegnante di matematica (siamo nel '21 e le
pari opportunità erano arrivate senza preannunci ufficiali).
Collegiali come me alcuni compagni; altri risiedevano nella città.
Uno di essi, figlio di un deputato socialista, era divenuto avanguardista
fascista per conto suo. Il conflitto generazionale, insolito a quel
tempi nel Sud, si manifestava così in sotto tono. lo da questi
per le mie orecchie che non mi apparivano di grandi dimensioni, ma
tali dovevano essere, fui gratificato del termine "parafango".
Al mio paese si diceva che le orecchie grandi assicuravano longevità
e veniva ricordato come esempio un canonico. Oggi alla mia età
dovrei con le mie caratteristiche darne conferma.
E vengo alla serie romana dei miei compagni di scuola o di università.
Come ho scritto altre volte, mi è capitato di vedere da vicino
la marcia su Roma, appena iniziata a Foggia -dove si era fermato il
treno che da Melfi mi portava a Roma, con l'occupazione della prefettura
e della stazione ferroviaria, con la partenza per Roma della cavalleria
fascista di Caradonna, ecc.
Nella capitale poi ho assistito alla rimozione dei cavalli di Frisia
da Ponte Cavour, perché il re durante la notte aveva revocato
lo stato d'assedio, che aveva suggerito a Facta presidente del Consiglio
il sonno, dal quale avrebbe dovuto essere risvegliato all'Hotel di
Londra. Al Collegio Romano, e cioè alla 5a ginnasiale del Visconti,
io incontrai, anche per la mia età, veri e propri compagni
di classe. Due di essi erano autenticamente antifascisti.
Uno era Giorgio Amendola, che a scuola faceva già politica
antifascista attiva, vantandosi di partecipare alla vita del partito
del soldino e alle manifestazioni della Camera del Lavoro, sopravvissuta
fino al 1924. Un altro era Pietro Grifone, il secondo della classe,
che il Partito comunista dopo il Ventennio nominò suo esperto
nazionale per i problemi dell'agricoltura.
E poi c'erano gli indifferenti. Un Carlo Capalozza divenuto poi membro
della Corte Costituzionale, ma già allora estremamente dotato
della vivacità dei movimenti dei piccoli di statura. Un Attilio
Battistini, nipote del grande baritono Mattia, dal quale certo ha
ereditato l'aspirazione a tradurre in musica jazz il "Te Deum".
Ed eravamo solo nel 1922. Aveva spalle esuberanti che mi consentivano
di poggiarvi il libro delle poesie sul quale leggevo, senza che il
professore se ne avvedesse, la poesia che avrei dovuto recitare a
memoria.
Nella vita questo Battistini ha significato qualcosa. Gli piaceva
la fiamma. Aveva incendiato il materasso di una pensione di via Del
Babuino in cui nella seconda metà degli anni Trenta abitava
e perciò era stato portato al commissariato, dove dette fuoco
al tavolo del commissario, con la sola motivazione che "la fiamma
è bella". Altro che D'Annunzio! Anni dopo mi disse che
era passato al comunista Paese Sera e alla mia meraviglia egli rispose
dicendo che era lì solo in spontanea missione, perché
voleva insegnare ai "buzzurri" come si indossavano le camicie
di seta.
Battistini piaceva anche a un estemporaneo segretario nazionale del
Partito fascista, Ettore Muti, con una storia diversa nell'eroismo
e nella "dedizione", ma simile nella predilezione del paradosso
e dell'assurdo. E poi c'erano i primi della classe, la cui unica preoccupazione
era quella di evitare ogni vicinanza con i secondari o i bisognosi
di copia. Uno di questi si chiamava Tarchiani ed era circondato dalla
più ampia ammirazione, a cominciare da quella della madre.
A me è occorso - e ne ho avuto dispiacere, perché l'avevo
sempre considerato di gran lunga migliore di me - di vederlo molti
anni dopo da barbone con i sandali in pieno inverno a Largo San Carlo
al Corso. Analogo dispiacere provai quando dietro uno sportello della
Commerciale vidi, una quarantina d'anni dopo, come modesto cassiere
un altro compagno, che mi passava la copia periodo per periodo, perché
così la pretendevo per non correre il rischio di restare senza
alcunché di scritto sul mio compito.
Con un altro compagno (era figlio di un ex rettore della Sapienza
e poi mio insegnante nella stessa), condividevo il piacere di un gelato
- si chiamava "charlotte" - che gustavamo al caffè
Guardabassi in Piazza Montecitorio. Era il caffè dei deputati,
che vi mangiavano la "colazione alla forchetta". Uno di
questi era Filippo Turati, e io lo ammiravo estasiato.
Oggi i giovani visitano il Parlamento. Noi invece ne eravamo tenuti
lontani e guardati pure con sospetto, come a me era accaduto quando
ero riuscito ad ottenere la tessera di familiare di un deputato socialista
di Melfi, avvocato, amico di mio padre, e divenuto pure ministro dell'Interno
nel secondo governo Badoglio: quello di Brindisi.
Il Parlamento allora era così; oggi è così. E
a taluni, come me, capita di guardarlo con gli stessi occhi, sempre
debitori pure della retorica che accompagna il Parlamento, il cui
destino è sempre quello di avere due facce: quella che vogliamo
e quella che non vorremmo.
Nel 1923-'24 i miei compagni di scuola li ho cercati altrove. All'Istituto
Massimo di Roma: all'Esedra, oggi museo di Roma, non so se in atto
o in fieri.
Fra gli alunni spiccavano principi, che il giorno del derby di cavalli
erano esonerati dalle lezioni. Vi erano vari aspiranti alla diplomazia,
come tali predestinati dalle loro famiglie e accuratamente preparati
anche militarmente, perché dovevano essere allievi ufficiali
di cavalleria. Uno di essi è diventato ambasciatore nell'Iran,
un altro console generale a San Francisco.
E poi c'erano gli anonimi. Uno di questi ero io, che avevo a che fare
con un professore d'italiano che diceva a mio padre ansioso di notizie
sui miei studi che ero privo di fantasia e con un professore di matematica
che mi annunciava il "mio bravo zero" e poi sulla pagella
optava per il tre. Un altro professore, di greco, non di rado era
duro nel linguaggio: ricordo che ad un nostro collega, esaurientemente
brutto, che era prodigo di battute di spirito, intimò di non
fare il "bel giovane". Ed infine c'era un professore di
chimica, che si chiamava Faure, ma non era francese, che non esitava
a dirci che l'eternità gli faceva paura. Figuriamoci a noi,
fra l'altro nemmeno adusi alle sue formule chimiche, che non capivamo
e che ci facevano pur esse paura.
La scuola rappresenta tanta parte della nostra vita: affrontata con
gli zaini pieni di libri, con gli scritti da fare, con le risposte
da dare per poco più poco meno di venti, venticinque anni.
E' il nostro avvenire dietro le spalle, ma lo cerchiamo anche così.
L'accesso all'università
C'era e c'è una grande e lunga strada d'accesso. Ne abbiamo
visto i tanti e mutevoli tratti preliminari. Ma ve n'è uno
culminante ed è l'esame di Stato. Ad una parte della mia generazione
- quella come me della prova del 1926 - è capitato di dover
sostenere l'esame di Stato più pesante di tutto il secolo:
quello del primo anno di applicazione integrale della Riforma Gentile:
l'insuperata riforma Gentile, la prima che abbia seriamente e acutamente
predisposto e organizzato i programmi di studio - sostanzialmente
invariati a tutt'oggi -, che abbia inserito nelle commissioni di esame
i titolari di cattedre universitarie provenienti anche da sedi lontane,
che pure, con la presenza di taluni insegnanti degli stessi candidati,
abbia dato un crisma severo, completo, profondo alla preparazione
conseguita, al livello delle attitudini manifestate, al via agli studi
superiori.
Non parlerò di questi professori, perché la loro cattedra
allora in larga parte sottratta ai baroni sta a dire soprattutto dell'elevata
loro capacità di approccio con gli studenti. Nessuno di loro
faceva personalmente paura. A farla invece erano la complessità
dei programmi, la tecnica dell'interrogazione, l'innata nostra timidezza
verso il rigore del nuovo.
Gli insegnanti generalmente non si erano preoccupati di quanto la
riforma Gentile rappresentasse da questo punto di vista. Avevano principalmente
se non unicamente curato l'illustrazione e l'apprendimento delle varie
nozioni. Qualcuno, pur nell'ambito di rigorose determinazioni di campo
e cioè di materie, si era preoccupato di selezionare al meglio
la scelta degli autori di base: così ad esempio per la filosofia,
e così riusciva ad aprire brecce nella correntezza dell'intero
esame.
Ed anche in questa fase c'erano i compagni. Ricordiamo solo alcuni
ripetenti, che sapevano dirci soltanto che l'esame "era una cosa
terribile".
Questa esperienza, anche se aveva la sua spiegazione nell'insufficiente
preparazione del candidato, ci faceva lo stesso paura, come ci faceva
paura Gentile. Un Gentile che anni dopo ebbi il piacere di conoscere
all'Enciclopedia Treccani, dove con il figlio Fortunato mi ero recato
per averne appoggi per alcune iniziative di propaganda coloniale universitaria
che andavo curando. Allora ho visto anche un Giovanni Gentile sorridente.
Un sorriso che mi fece dimenticare l'esame di Stato, che ricorre invece
- come leggo - nel sogni paurosi di quanti mi sono succeduti come
studenti. Gli altri compagni erano collaborazionisti. Ci aiutavamo
tra noi, perché eravamo riusciti a costituire un nostro esercito
che si doveva confrontare con l'esercito dei professori.
Queste cose sono mutate nel tempo. E qui la memoria mi riporta al
'68. Ero allora capo esecutivo di un programma di chiarificazione
politica della Confindustria, definito dal suo presidente, che era
Cicogna, "Noto Programma". Lo presiedeva un Comitato di
industriali, con una ripartizione di compiti tra i maggiori industriali
del tempo. Con il cambio della guardia della presidenza, cioè
il passaggio da Cicogna a Costa che dopo otto anni riassumeva la presidenza
della Confindustria, questi assunse anche quella del comitato di cui
ho detto. Costa, tuttavia, non mi apparve lo stesso presidente della
prima maniera. Non mancava anche di sbadigliare e io ne dedussi che
chi sbadiglia non decide.
Orbene, riferendo sulla situazione nella scuola d'allora, ebbi a dire
che in essa ormai si era instaurato un vero e proprio rapporto sindacale.
Costa, fino ad allora certamente trasferitosi altrove, fu sorpreso
da questa similitudine con il mondo del lavoro e mi domandò
chi era da intendersi il datore di lavoro, ricevendone da me come
risposta che lo erano gli studenti.
Non era un facile paradosso, ma era qualcosa che cominciava a lievitare
e che pure formalmente abortita la dice lunga sul compito dello studente,
sul rapporto con la programmazione scolastica, sul pubblico e il privato,
sul modo di essere dello Stato, e così via. Una tematica cioè
che continua ad essere materia di sporadici assaggi, di promesse di
riforme e di tentativi di riforme, alla ricerca di uno Stato veramente
moderno, efficiente, puntuale nella fisionomia e nei compiti. E' stata
questa la fatica dell'intero secolo ed è illusione credere
che ciò non dovrà continuare ancora con lo stesso impeto,
le stesse impazienze, le stesse speranze della nostra generazione,
che molto spesso tanto si interroga intorno al percorso compiuto per
il conseguimento del suo diploma e non di rado sulla sua reale utilità
o surrogazione alle peculiarità degli impieghi. Pur vivendo
durante il Ventennio, non ci chiamavamo camerati. Eravamo solo semplici
compagni di studio. C'era il GUF, ma ci impegnava poco o nulla, a
differenza forse di altri GUF. Lo stesso Mussolini sempre più
privilegiava il termine camicie nere a quello di camerata.
E qui incontrammo gli inveterati fuori corso. Li ho trovati e li ho
lasciati con questa qualifica. Uno era Manlio Lupinacci, un esponente
del liberalismo monarchico fino alla partenza di Umberto II da Ciampino,
e l'altro Leone Cattani, ministro anch'egli liberale del primo governo
nato dalla Resistenza. Li distinguevamo solo perché sapevamo
che li avremmo visti a lungo.
Gli altri studiavano, frequentavano le lezioni e i seminari, taluni
si erano iscritti alla milizia universitaria che ha avuto la ventura
di avere come capo Vincenzo Cersosimo, pubblico ministero del processo
di Verona, o si dedicavano alle pratiche sportive, allora largamente
curate dalle organizzazioni, pure capillari. Qualche randagio, come
me, aveva scoperto che gli universitari dovevano pure occuparsi dei
problemi coloniali e così promossi i primi gruppi universitari
coloniali, che non erano denominati fascisti. C'è fra l'altro
una fotografia di Mussolini sulle colonne di Leptis Magna con questa
dedica.
Camerati con
le virgolette
D'altronde, c'era una generazione ed era la nostra dei camerati con
le virgolette. Erano quelli che non partecipavano al "littoriali",
che non erano volontari nelle guerre di Etiopia, di Spagna, dell'Asse,
delle battaglie razziali, ai quali non venivano impartiti ordini e
che privi di "benemerenze" erano al margini. Quando tentai
con gli altri amici un associazionismo coloniale giovanile, che pure
riuscì a prendere vita, ricevetti una lettera del vicesegretario
nazionale del PNF, Alessandro Melchiori, che mi invitava a "non
mettere il Partito di fronte al fatto compiuto". Un fatto compiuto
nientemeno rispetto al partito della Rivoluzione. V'era invece il
ministro delle Colonie, l'ex nazionalista Luigi Federzoni, che si
limitava a compiacersi del mio comportamento di "acino di pepe".
Il sottosegretario alle Colonie, Piero Bolzon, mi dedicava invece
una sua foto "per la mia fede ed opere con auguri per vittorie
fasciste".
Da studenti e giornalisti principianti noi potevamo anche criticare
sui giornali l'azione dell'Istituto Coloniale Fascista, presieduta
da un senatore, approfittando delle "zone d'ombra" rilevate
da Mussolini in una relazione sull'attività dell'Istituto.
Con Vittorio Gorresio, con il direttore di un settimanale coloniale
divenuto negli ultimi giorni del regime direttore generale dell'Istituto
nazionale di cultura fascista, con un giornalista allora solerte nel
presentare domande a tutti i concorsi pubblici del tempo senza vincerne
alcuno, ma poi segretario federale, provveditore agli Studi, prefetto
e reintegrato provveditore agli Studi dopo la liberazione, scrivemmo
quattro articoli, che uscirono lo stesso giorno sui grandi quotidiani.
Essi ci fruttarono da parte dell'alta corte di disciplina del partito,
che intervenne nella modesta questione perché il presidente
da noi criticato era senatore, una "deplorazione solenne".
Ma questa non ebbe alcun seguito, neppure di notizia. Godevamo di
una certa simpatia allora praticata nei confronti di giovani contro
corrente ma ritenuti in buona fede. Eravamo, dunque, almeno alcuni
di noi, camerati con le virgolette.
Alla Confederazione dei lavoratori del Commercio, dove trovai la mia
prima occupazione come capo dell'ufficio corporativo (con 600 lire
mensili di stipendio, e allora c'era l'aspirazione nazionale alle
mille lire mensili, che sul finire a mia richiesta del mio rapporto
di lavoro erano già 1.500, con l'appendice di consigliere aggregato
alla Corporazione del legno), di questi camerati con le virgolette
ce n'erano pochi.
C'era però qualcuno che anche se già squadrista lo era
per lo meno in pectore. Era Riccardo Del Giudice, poi bottaiano, sottosegretario
all'Educazione nazionale con lo stesso Bottai, e dopo la liberazione
presidente dell'ENIOS, un'organizzazione per la razionalizzazione
del lavoro. Egli sapeva essere critico e aiutava chi come lui faceva
questa parte. Il che capitò anche a me, quando misi veramente
a soqquadro la Corporazione delle Professioni e delle Arti, che fra
le varie voleva inserire inopinatamente la trattazione del contratto
degli addetti agli studi professionali che io rappresentavo. Ostacolai
tale insolita procedura con tutte le mie modeste forze, avendo come
controparte Alessandro Pavolini, quello dell'ultima raffica, il presidente
della Corporazione, Gray, il direttore generale del ministero, Anselmi.
Dalla mia parte, solo il rappresentante dei lavoratori del credito,
Gian Pietro Pellegrino, poi a Salò ministro del Tesoro. Dissi
che se la discussione fosse proseguita e si fosse conclusa con l'approvazione
del contratto ci sarebbe stato un voto contrario: il mio. Sarebbe
stata questa la prima volta di una votazione corporativa non unitaria.
Non se ne fece perciò nulla. Ma Del Giudice protestò
molto vivamente con il ministro competente, che si chiamava Lantini.
Alla Confindustria, dove i camerati con le virgolette, salva qualche
eccezione, erano di casa, lo ero incaricato delle funzioni di capo
ufficio stampa e studi della Federazione nazionale Artigiani.
Il presidente, Vincenzo Buronzo, era un poeta, come lo definì
per giustificarlo più o meno benevolmente o sprezzantemente
Mussolini al cambio della guardia con un altro presidente, era cognato
di Arnaldo Mussolini, perché avevano sposato due sorelle, aveva
capito che l'artigiano non va avanti in campo artistico se non guidato
da artisti veri e architetti. Aveva accanto pure squadristi, fornitigli
soprattutto dalla provincia, dato che l'artigianato era facile sbocco
per chi avendo benemerenze squadriste cercava lavoro.
Ma accanto ad essi c'erano ed erano molti gli indifferenti e gli apatici
politicamente: un ingegnere campione di tennis, ma genero dello scrittore
Milanesi, un restauratore sic et simpliciter, uno dei tanti segretari
gratuiti di Marinetti, preoccupato più di raccogliere quadretti
di pittori futuristi poi divenuti plurimilionari, il figlio - medaglia
d'argento egli stesso - di un valoroso generale della prima guerra
mondiale, un avvocato meridionale agnostico politicamente e preferibilmente
assente dalle manifestazioni soprattutto perché era brutto,
una bella vedova che era lì solo per questa sua qualificazione,
apolitici che avevano abolito l'occhiello della giacca, riservandosi
di farlo aprire quando le sollecitazioni per il distintivo fossero
divenute perentorie.
Nella Confederazione era più o meno la stessa cosa. C'erano
solo camerati con le virgolette. Il capo del personale era più
che altro specializzato nelle barzellette antifasciste, che costituivano
la massima parte della sua comunicativa con il personale. Il vicesegretario
generale non aveva mai posseduto una divisa fascista che pure in un
certo periodo - breve però - era obbligatorio indossare negli
uffici. Aveva pure lui una camicia nera che ricoperta da un paletot
gli consentiva di essere presente - con l'animo altrove - alle cerimonie
ufficiali. Questo vicesegretario generale ospitava nei saloni della
Confederazione durante l'occupazione tedesca di Roma le riunioni del
Comitato nazionale di liberazione, domandando a me perché non
facessi parte di detti comitati. Quanti camerati con le virgolette
in quelle stanze!
Ma qualche altro certamente ve n'era al palazzo della madre di Napoleone
a Piazza Venezia, dove era la sede della società editrice della
Confindustria, l'"Usila" se non erro. Orbene, qui era pure
la redazione de L'Organizzazione Industriale, il settimanale della
Confindustria che nel dopoguerra mi è occorso di dirigere.
Qui c'era il capo redattore di allora, il collega Italo Minunni, già
nazionalista, mutilato di guerra di una gamba, depauperato nell'udito.
Quando da Sant'Ignazio sparava il cannone di mezzogiorno, egli dal
vicino suo ufficio si limitava a dire "avanti". Se percorreva
il Tritone con l'apparecchio auricolare in funzione il passaggio di
un tram provocava rumori pari al varo di una nave.
La polizia gli aveva posto gli occhi addosso, perché lo riteneva
capo partigiano. lo un mattino con un mio amico che doveva introitare
un compenso di collaborazione, all'ingresso del suo ufficio notammo
seduti due individui con il soprabito addosso, come usavano allora
gli uscieri, perché non c'era riscaldamento e le loro mansioni
erano solo di saltuaria e non lavorativa presenza. Allorché
noi cercammo di andar via, ci fu risposto che ciò non poteva
avvenire perché stava per arrivare il questore per la perquisizione
degli schedari, nel quali si riteneva fossero stati confusi quelli
degli abbonati con quelli dei partigiani.
Giunse l'editore che disse che potevamo andar via perché eravamo
lì solo per ritirare copie arretrate. Prima il ricercato Minunni
gli aveva chiesto ad alta voce: "che cercano me?". Minunni
fu arrestato e portato a via Tasso, all'immediata vigilia dell'attentato
di via Rasella. Ritornò in circolazione pochi giorni prima
della liberazione di Roma. lo e il mio amico ricordiamo questo scampato
pericolo, con le aberrazioni barbariche che hanno accompagnato la
repressione delle Fosse Ardeatine. Non invece la storia successiva
di Minunni.
In questo ambito di camerati con le virgolette inserirci non solo
quanti da me conosciuti hanno fatto parte dell'ultima riunione del
Gran Consiglio - che ha segnato la fine definitiva del regime - ma
anche camerati che della rivoluzione d'ottobre avevano tutto dimenticato,
pensando a riempire le cantine di viveri, ma dicendo che bisognava
stringere la cinghia fino all'ultimo buco.
Questa cinghia da parte di camerati senza virgolette nella memoria
è stata allentata poco alla volta, e così ne sono scomparsi
pure i nostalgici. Il che è avvenuto per tutti quanti avevano
un passato da nascondere, da far dimenticare e magari da ricordare
nelle angosce della solitudine.
I colleghi
Ed eccomi al fine con i miei colleghi, giornalisti di cui il tempo
mi ha reso uno dei decani. Nel 1970 la nostra associazione romana
mi assegnò insieme a qualche altro, fra cui Renato Angiolillo
- che aveva fondato Il Tempo, che dopo di lui ha avuto una storia
largamente minore - una medaglia d'oro per i miei 40 anni di militanza
giornalistica. Oggi siamo sul finire del 1998.
La fantasia di ogni generazione ha avuto questo lievito, ha registrato
questa ansia, ha ricercato e praticato questa emulazione. Nientemeno
che dagli acta diurna imperiali. Questo secolo poi ha esercitato tante
suggestioni, con il fulgore di grandi figure giornalistiche, molte
delle quali sicuramente irripetibili nel tempo almeno per quanto riguarda
la nostra stampa, e con l'incalzare della tecnologia, che certamente
nel giornalismo ha avuto una delle più evidenti e trasparenti
espressioni: di macchine e di operatori.
Tanti sono i nomi che in questo campo hanno fatto del nostro Albo
addirittura un grandissimo simbolo nazionale (e taluni pensano di
abolirlo!). Li ricordo come compaiono, sempre repentinamente, nella
mia mente: Luigi Albertini, Edoardo Scarfoglio, Alberto Bergamini,
Olindo Malagodi, Luigi Barzini e Mario Missiroli, Francesco Saverio
Nitti, Luigi Einaudi, Gabriele D'Annunzio e i tanti protagonisti di
una "terza pagina" che oggi è tutt'altra cosa, Giovanni
Amendola e il nostro Enrico Mattei. E c'è anche da aggiungere
tra i giornalisti eminentemente politici e partitici anche Mussolini,
che è stato dittatore, ma anche un fuoriclasse - sia pure profondamente
sbagliato - del giornalismo del finire degli anni '10 e degli anni
'20.
Il mio primo articolo risale al 1927 e mi fu richiesto perché
dessi conto dell'esperienza che da matricola stavo facendo tra gli
universitari, avendone costituito il primo gruppo coloniale, e quindi
potevo riferire sulla reazione dei giovani di un certo livello culturale
sul nostro colonialismo. Allora ai giovani, da questo punto di vista,
non aveva pensato nessuno. C'era un Istituto Coloniale, che si preoccupava
soprattutto di questioni militari, geografiche, amministrative. C'erano
inoltre gli amici dell'Idea Coloniale, che era un settimanale del
quotidiano L'Idea Nazionale, foglio nazionalista fondato da Enrico
Corradini.
A me è occorso di pensarla diversamente, tentando un approccio
anche con gli amici dell'Idea Coloniale e con il suo segretario generale,
Guido Cortese, un giornalista che in termini spiccioli mi fece capire
che dovevo passare la mano mia di matricola ad un anziano. Naturalmente
feci diversamente ed ebbi la fortuna di essere capito dal rettore
dell'Università, il prof. Giorgio Del Vecchio, e dal GUF, che
aveva dovuto smobilitare la propria sezione aeronautica allora prematura
- siamo nel '27 - e ritenne di sostituirla, dandomene anche la sede,
con il mio gruppo coloniale. A chiedermi l'articolo su queste mie
"esperienze" di cui prima ho detto fu il direttore di una
rivista che nel suo titolo aveva preconizzato Le vie dell'Impero (anche
l'impero allora era prematuro, essendovi solo un altro giornale di
punta e quanto mai estremista che si chiamava L'impero senza alcun
credito di firme) e che era marchese ed aveva un nome che riempiva
due righe di giornale. Si chiamava Paolo d'Agostino Orsini di Camerota,
ed è stato il mio primo collega.
Poi ho avuto a che fare con Telesio Interlandi, che aveva fondato
nel '25-'26 un giornale, Il Tevere, che è stato certo un'innovazione
nel panorama editoriale di quel tempi. Il direttore mi accolse come
collaboratore coloniale: nell'ascoltare distratto i miei ringraziamenti,
mi disse semplicemente che il suo giornale voleva essere una vetrina
di valore e perciò mi aveva accolto. Quante speranze in me!
Il giornale negli anni successivi - ma io avevo ricercato le mie collaborazioni,
questa volta retribuite, altrove - fu messo ai margini, ma utilizzato
sempre dal regime. A Mussolini si deve la battuta: "in ogni famiglia
ordinata c'è pure il bidone per le immondizie". Ma in
questo decennio la figura di Telesio Interlandi, almeno in alcuni
tratti (esclusi naturalmente quelli riguardanti la cosiddetta difesa
della razza e il suo filogermanesimo espresso a livelli da fare invidia
a quello di Farinacci), è stata in un certo senso rivalutata
nella sua intuizione di un giornalismo innovatore, che ebbe agli inizi
pure la ventura di avere collaboratori illustri nient'affatto retribuiti.
Anche Sciascia ha concorso a questa rivalutazione, che anch'io condivido
con i limiti di cui ho detto. E colleghi di quei tempi erano per me,
che cominciavo a frequentare il Circolo della Stampa, il napoletano
Rocco, corrispondente de Il Regime Fascista di Farinacci, per il quale
giornale pubblicavo degli editoriali di politica coloniale. Rocco
preferiva al giornale il gioco delle carte; perciò frequentemente
si allontanava dalla sala stampa con la scusa di un mal di testa al
cui annuncio faceva seguire subito l'avvertimento che chi dovesse
cercarlo si doveva rivolgere per trovarlo al circolo della Stampa.
Colleghi erano pure un robusto caricaturista, che si chiamava Romeo
Marchetti, con bombetta e moglie sempre aggregata; il direttore del
Travaso delle Idee, Filiberto Scarpelli, che faceva dell'umorismo
quanto mai vivace e puntuale, eppure aveva la vita estremamente difficile;
il segretario della stampa romana, Gaetano Polverelli, divenuto tanti
anni dopo sul finire del regime ministro della Cultura Popolare, partecipe
all'ultima seduta del Gran Consiglio, ma in quella sede invitato a
tacere, perché non capiva nulla.
E poi è arrivato il grosso dei colleghi, quando nel '46 - espressamente
chiamatovi al rientro divenni vice nella direzione dell'ufficio stampa
della Confindustria. Siamo nell'agosto del 1946. La mia sala stampa
confederale era allora all'aperto, nel cortile di Palazzo Artieri,
l'attuale sede di Berlusconi. Lì Costa, presidente della Confindustria,
aveva ricostruito la sede dell'imprenditoria italiana. Durante il
fascismo era stata la sede del Dopolavoro confindustriale.
Sul davanzale di una finestra era la sede della direzione e della
redazione de L'Organizzazione Industriale, il settimanale confindustriale
che allora dirigevo. Nel cortile, come ho detto, la sala stampa, dove
però affluivano giornalisti già famosi o che tali sarebbero
divenuti. V'erano Vittorio Gorresio, Riccardo Luna, capo ufficio stampa
della DC, che rifiutò di fare il senatore, perché la
sua vocazione era un'altra (Montanelli è l'altro giornalista
che ha fatto la stessa cosa quasi mezzo secolo dopo), Luca Pavolini,
che doveva divenire poi il direttore de l'Unità, Lelio Bersani
che allora alla Rai faceva il resocontista sindacale e forse pure
politico e certo non immaginava il suo successivo corso professionale
cinematografico. E c'era Virgilio Lilli, giornalista dal 1946 al 1962:
Giacomo Guiglia.
E' stato un grande giornalista, con l'assillo che le notizie non avevano
domani (e perciò si doveva lavorare senza orario), direttore
o collaboratore di importanti quotidiani durante il ventennio, non
ha più firmato dopo o è ricorso allo pseudonimo Tizio.
Amico e sostenitore di grandi giornalisti (Giovanni Ansaldo, Giorgio
Pini, Irene Brin, Orsola Nemi, ecc.), lo ammiro ancor oggi più
di ieri. In questi giorni ho riletto ancora una volta una sua dedica
a me apposta su di un libro di Luigi Einaudi (Lo scrittoio del Presidente),
che mi donava nella ricorrenza di un mio compleanno: "3 giugno
1956, a Gennaro caro, a ricordo di tutti questi anni, dei quali è
traccia in queste pagine che seguono, assieme vissuti e per dirti
che il passare degli anni non può corrodere gli affetti che
tante vicende assieme vissute hanno creato. Nel tuo... compleanno.
G.G.". La mia vita oggi, non solo ieri, è lì.
E' sempre difficile capire chi veramente si è stati, ma parole
come queste me lo fanno per lo meno credere. Ed anche altri, pur per
periodi di tempo più ridotti, mi hanno detto cose sulle quali
talvolta mi è possibile fondare le mie illusioni.
Ricordo Enrico Mattei, che nel 1963 in un occasionale incontro sul
rapido FirenzeRoma, e con noi c'era pure de Feo, già vicepresidente
della Rai, ebbe a dirmi che riteneva che l'azione editoriale confindustriale
più valida allora era quella esplicata da Il Sole, che allora
dirigevo. E ricordo Nino Nutrizio, allora direttore de La Notte, che
mi diceva che il primo giornale che leggeva al mattino era Il Sole;
Remigio Rispo, direttore de Il Globo, con il quale fra l'altro condividevo
il termine "mi compiaccio". a commento di cose che gli altri
dicevano e delle quali non ce ne fregava niente, e con il quale ho
avuto fecondi periodi di reciproca collaborazione. Si preoccupava
di stimolare la mia firma con la collaborazione agli editoriali del
suo giornale, con lo scopo di ritardare il mio conclusivo periodo
di giornalistico silenzio.
Ricordo Germano Secreti, perché mi era antipatico quando poco
lo conoscevo e amico quando ho potuto cominciare ad apprezzarne le
doti di amico - ed lo, forse per lui, ne sono stato l'ultimo - di
grosso articolista sociale, sindacale, ecc., del cui apporto ho sempre
avuto bisogno.
Era stato anche capo dell'Ufficio Albania della Confindustria e come
tale con tanto di distintivo della marcia su Roma sulla divisa fascista
fece parte della delegazione albanese che offrì la corona di
re dell'Albania a Vittorio Emanuele III. Secreti mi riferì
che il Re, vedendolo nella presentazione con tale distintivo, domandò
al Capo della sua casa militare che l'accompagnava nelle singole strette
di mano: "ma anche gli albanesi hanno fatto la marcia su Roma?".
Mancavano ancora diversi anni al 25 luglio.
E dovrei ricordare ancora Mario Missiroli, che a me che curavo una
rivista economica offriva articoli su materie per lui estremamente
indifferenti: dalla disciplina della macellazione all'economia del
lavoro e non dell'oro, come piaceva a modo suo ad Hitler. Ed ancora
Michele Chinigo, americano e direttore per l'Italia dell'INS, con
il quale ho collaborato per oltre vent'anni. Ario Liuti, capo dell'Ufficio
USIS dell'Ambasciata USA a Roma, che mi ha dato la sua collaborazione
di studi, di materiali, ecc., inserendomi pure nel programma di individuali
missioni giornalistiche di tre mesi negli USA e quindi concorrendo
al consolidamento delle mie convinzioni occidentali: tali, del resto,
per la mia intera esistenza.
E i miei colleghi sono quelli che ho avuto come compagni nella mia
collaborazione con la RAI: da Gerolamo Pedoia a Raffaele De Leva,
da Gustavo Selva a Gilberto Fabretti, per finire, anzi per cominciare,
con Raoul Chiodelli, uno dei padri storici dell'EIAR. A lui ebbi nel
'60 la fortuna di prospettare l'opportunità di telecomunicazioni
in materia di mercati finanziari. Così ho avuto la ventura
di dar vita alla prima Teleborsa italiana.
Di tutto ciò, com'è chiaro, non sono io il soggetto,
ma con me i compagni, i "camerati", i colleghi di cui ho
detto fin qui. Ho letto che Ovidio, oggi, può essere studiato
al computer. Quanto ho detto di fatti, non di persone - modeste tutto
sommato - può avere la stessa sorte? La mia età, purtroppo,
non mi consente di avere risposte in tempo utile.