COMPAGNI DI VITA




Gennaro Pistolese



Compagni, "camerati", colleghi: sono tre termini che i vocabolari - quelli in uso nelle scuole dei miei tempi da lungo andati e più o meno in circolazione pur oggi, anche se ricchi di presunzioni di rinnovamento - fanno confluire in un unico complessivo significato. Le enciclopedie invece ci ricordano che il termine "compagno", oltre ai suoi correnti significati, ha indicato nelle sinistre l'appartenenza alla stessa ideologia politica: comunista o socialista. Le stesse enciclopedie ricordano che il termine "camerata" durante il Ventennio ha coniugato origini combattentistiche con sopravvenuti rapporti di convivenza partitica. Infine il termine "collega" ha più che altro significato una comunanza di specializzazione, che molto spesso è sfociata nei presidii degli ordini professionali e dei sindacati.
C'è tuttavia un significato dominante, che è quello riferentesi al compagno inteso originariamente e prevalentemente quale indice di appartenenza alla stessa scuola. Poi è intervenuto il compagno politico di cui prima abbiamo detto, che però è stato sempre sottoposto ai contr'ordini, fino alla tollerata scomparsa di oggi sotto qualche "albero" compiacente.
Come in tanti altri campi, in questo secolo soprattutto, vocabolari ed enciclopedie indicano e illustrano parole, ciascuna di diversi contenuti. Fra l'altro il reale è incalzato dal virtuale, l'usanza cerca di prevalere sul costume, questo stenta ad elevarsi a cultura.
Vocabolari ed enciclopedie dovrebbero essere un po' come la storia, che amministra la giustizia: in questo campo quella delle parole. Ma, a differenza della giustizia, questa storia e questo tipo di storia non dispongono neppure delle regole della procedura.

Compagni di scuola nel Sud
I miei compagni di scuola nelle elementari si contano sulle dita di una sola mano. Appartengono alla seconda metà degli anni Dieci e perciò hanno a che fare con la prima guerra mondiale.
Uno era figlio di un giudice, che si chiamava Bonomo, con gli ovvii incitamenti che a lui e, spero anche al padre, derivavano dal cognome. Un altro Viola, ed era figlio del sottoprefetto (allora esisteva questa funzione, preludio di una prefettura sempre in predicato elettorale). La comunione di esistenza con questi adolescenti è valsa a mettermi al corrente delle notizie che i loro genitori acquisivano dai giornali che leggevano e dagli ambienti che frequentavano.
Il resto me lo sono fatto guardando agli adulti. Taluni frequentavano l'istituto tecnico. Altri apparivano con la divisa militare dell'Annunziatella. Qualche altro inventava il pallone da calcio per conto suo, e perciò si era creato un proprio campo di calcio, dove ammetteva solo i suoi pochissimi prescelti. Sassi segnavano le porte; il pallone era costituito da una tela marrone cucita a rotolone, che si mostrava riluttante a risolvere il suo ruolo: tant'è che non ho mai sentito parlare di goal. Gli altri sports si affidavano alla sosta di un giro ciclistico, promosso da un quotidiano napoletano. Ma allora nel mio Sud i giornali arrivavano l'indomani della loro pubblicazione e perciò più che dare notizie erano chiamati a suscitare prevalentemente le riflessioni. Che naturalmente erano tutt'altro che ottimistiche. Lo sguardo era portato a rivolgersi verso il basso e taluni lo spingevano fino alla stazione ferroviaria, da dove partivano gli emigranti oltre mare, quelli delle cento lire che avevano richiesto alla madre. Ritorni felici non ve ne sono stati e cambi di residenza sono rimasti senza storia e senza invii di valuta con la quale costruire case per la vecchiaia.
Con lo spirito che ne derivava sono proseguiti i miei due anni di studi ginnasiali, affrontati con due sacerdoti, di cui uno bravo e l'altro solo ottimista nelle doti taumaturgiche del suo insegnamento, affidato alla fede e non alla cultura. L'ottimismo fa e faceva di questi scherzi anche nella didattica.
Qualche cosa migliorò a livello d'insegnamento e di affiancamento con i compagni di scuola negli anni successivi. C'è il mio terzo. ginnasio al Collegio Bianchi di Napoli, con il vestito alla marinara che era entrato nel nostro abbigliamento. Con gli insegnanti barnabiti, che cercavano la strada del dialogo con noi, riuscendo tuttavia a ravvivare le nostre speranze più che le nostre cognizioni. L'habitat circostante, che era quello della ferrovia cumana, si prestava a sparuti comizi, a più allettanti apparizioni del "pazzariello" - quello di Totò, per intenderci. Detti comizi sono stati il sillabario della politica come spettacolo.
Più in chiaro le cose sopravvenute alla quarta ginnasiale, al liceo ginnasio Pietro Giannone di Benevento. Buoni insegnanti, anziani; e una donna insegnante di matematica (siamo nel '21 e le pari opportunità erano arrivate senza preannunci ufficiali). Collegiali come me alcuni compagni; altri risiedevano nella città. Uno di essi, figlio di un deputato socialista, era divenuto avanguardista fascista per conto suo. Il conflitto generazionale, insolito a quel tempi nel Sud, si manifestava così in sotto tono. lo da questi per le mie orecchie che non mi apparivano di grandi dimensioni, ma tali dovevano essere, fui gratificato del termine "parafango". Al mio paese si diceva che le orecchie grandi assicuravano longevità e veniva ricordato come esempio un canonico. Oggi alla mia età dovrei con le mie caratteristiche darne conferma.
E vengo alla serie romana dei miei compagni di scuola o di università. Come ho scritto altre volte, mi è capitato di vedere da vicino la marcia su Roma, appena iniziata a Foggia -dove si era fermato il treno che da Melfi mi portava a Roma, con l'occupazione della prefettura e della stazione ferroviaria, con la partenza per Roma della cavalleria fascista di Caradonna, ecc.
Nella capitale poi ho assistito alla rimozione dei cavalli di Frisia da Ponte Cavour, perché il re durante la notte aveva revocato lo stato d'assedio, che aveva suggerito a Facta presidente del Consiglio il sonno, dal quale avrebbe dovuto essere risvegliato all'Hotel di Londra. Al Collegio Romano, e cioè alla 5a ginnasiale del Visconti, io incontrai, anche per la mia età, veri e propri compagni di classe. Due di essi erano autenticamente antifascisti.
Uno era Giorgio Amendola, che a scuola faceva già politica antifascista attiva, vantandosi di partecipare alla vita del partito del soldino e alle manifestazioni della Camera del Lavoro, sopravvissuta fino al 1924. Un altro era Pietro Grifone, il secondo della classe, che il Partito comunista dopo il Ventennio nominò suo esperto nazionale per i problemi dell'agricoltura.
E poi c'erano gli indifferenti. Un Carlo Capalozza divenuto poi membro della Corte Costituzionale, ma già allora estremamente dotato della vivacità dei movimenti dei piccoli di statura. Un Attilio Battistini, nipote del grande baritono Mattia, dal quale certo ha ereditato l'aspirazione a tradurre in musica jazz il "Te Deum". Ed eravamo solo nel 1922. Aveva spalle esuberanti che mi consentivano di poggiarvi il libro delle poesie sul quale leggevo, senza che il professore se ne avvedesse, la poesia che avrei dovuto recitare a memoria.
Nella vita questo Battistini ha significato qualcosa. Gli piaceva la fiamma. Aveva incendiato il materasso di una pensione di via Del Babuino in cui nella seconda metà degli anni Trenta abitava e perciò era stato portato al commissariato, dove dette fuoco al tavolo del commissario, con la sola motivazione che "la fiamma è bella". Altro che D'Annunzio! Anni dopo mi disse che era passato al comunista Paese Sera e alla mia meraviglia egli rispose dicendo che era lì solo in spontanea missione, perché voleva insegnare ai "buzzurri" come si indossavano le camicie di seta.
Battistini piaceva anche a un estemporaneo segretario nazionale del Partito fascista, Ettore Muti, con una storia diversa nell'eroismo e nella "dedizione", ma simile nella predilezione del paradosso e dell'assurdo. E poi c'erano i primi della classe, la cui unica preoccupazione era quella di evitare ogni vicinanza con i secondari o i bisognosi di copia. Uno di questi si chiamava Tarchiani ed era circondato dalla più ampia ammirazione, a cominciare da quella della madre. A me è occorso - e ne ho avuto dispiacere, perché l'avevo sempre considerato di gran lunga migliore di me - di vederlo molti anni dopo da barbone con i sandali in pieno inverno a Largo San Carlo al Corso. Analogo dispiacere provai quando dietro uno sportello della Commerciale vidi, una quarantina d'anni dopo, come modesto cassiere un altro compagno, che mi passava la copia periodo per periodo, perché così la pretendevo per non correre il rischio di restare senza alcunché di scritto sul mio compito.
Con un altro compagno (era figlio di un ex rettore della Sapienza e poi mio insegnante nella stessa), condividevo il piacere di un gelato - si chiamava "charlotte" - che gustavamo al caffè Guardabassi in Piazza Montecitorio. Era il caffè dei deputati, che vi mangiavano la "colazione alla forchetta". Uno di questi era Filippo Turati, e io lo ammiravo estasiato.
Oggi i giovani visitano il Parlamento. Noi invece ne eravamo tenuti lontani e guardati pure con sospetto, come a me era accaduto quando ero riuscito ad ottenere la tessera di familiare di un deputato socialista di Melfi, avvocato, amico di mio padre, e divenuto pure ministro dell'Interno nel secondo governo Badoglio: quello di Brindisi.
Il Parlamento allora era così; oggi è così. E a taluni, come me, capita di guardarlo con gli stessi occhi, sempre debitori pure della retorica che accompagna il Parlamento, il cui destino è sempre quello di avere due facce: quella che vogliamo e quella che non vorremmo.
Nel 1923-'24 i miei compagni di scuola li ho cercati altrove. All'Istituto Massimo di Roma: all'Esedra, oggi museo di Roma, non so se in atto o in fieri.
Fra gli alunni spiccavano principi, che il giorno del derby di cavalli erano esonerati dalle lezioni. Vi erano vari aspiranti alla diplomazia, come tali predestinati dalle loro famiglie e accuratamente preparati anche militarmente, perché dovevano essere allievi ufficiali di cavalleria. Uno di essi è diventato ambasciatore nell'Iran, un altro console generale a San Francisco.
E poi c'erano gli anonimi. Uno di questi ero io, che avevo a che fare con un professore d'italiano che diceva a mio padre ansioso di notizie sui miei studi che ero privo di fantasia e con un professore di matematica che mi annunciava il "mio bravo zero" e poi sulla pagella optava per il tre. Un altro professore, di greco, non di rado era duro nel linguaggio: ricordo che ad un nostro collega, esaurientemente brutto, che era prodigo di battute di spirito, intimò di non fare il "bel giovane". Ed infine c'era un professore di chimica, che si chiamava Faure, ma non era francese, che non esitava a dirci che l'eternità gli faceva paura. Figuriamoci a noi, fra l'altro nemmeno adusi alle sue formule chimiche, che non capivamo e che ci facevano pur esse paura.
La scuola rappresenta tanta parte della nostra vita: affrontata con gli zaini pieni di libri, con gli scritti da fare, con le risposte da dare per poco più poco meno di venti, venticinque anni. E' il nostro avvenire dietro le spalle, ma lo cerchiamo anche così.

L'accesso all'università
C'era e c'è una grande e lunga strada d'accesso. Ne abbiamo visto i tanti e mutevoli tratti preliminari. Ma ve n'è uno culminante ed è l'esame di Stato. Ad una parte della mia generazione - quella come me della prova del 1926 - è capitato di dover sostenere l'esame di Stato più pesante di tutto il secolo: quello del primo anno di applicazione integrale della Riforma Gentile: l'insuperata riforma Gentile, la prima che abbia seriamente e acutamente predisposto e organizzato i programmi di studio - sostanzialmente invariati a tutt'oggi -, che abbia inserito nelle commissioni di esame i titolari di cattedre universitarie provenienti anche da sedi lontane, che pure, con la presenza di taluni insegnanti degli stessi candidati, abbia dato un crisma severo, completo, profondo alla preparazione conseguita, al livello delle attitudini manifestate, al via agli studi superiori.
Non parlerò di questi professori, perché la loro cattedra allora in larga parte sottratta ai baroni sta a dire soprattutto dell'elevata loro capacità di approccio con gli studenti. Nessuno di loro faceva personalmente paura. A farla invece erano la complessità dei programmi, la tecnica dell'interrogazione, l'innata nostra timidezza verso il rigore del nuovo.
Gli insegnanti generalmente non si erano preoccupati di quanto la riforma Gentile rappresentasse da questo punto di vista. Avevano principalmente se non unicamente curato l'illustrazione e l'apprendimento delle varie nozioni. Qualcuno, pur nell'ambito di rigorose determinazioni di campo e cioè di materie, si era preoccupato di selezionare al meglio la scelta degli autori di base: così ad esempio per la filosofia, e così riusciva ad aprire brecce nella correntezza dell'intero esame.
Ed anche in questa fase c'erano i compagni. Ricordiamo solo alcuni ripetenti, che sapevano dirci soltanto che l'esame "era una cosa terribile".
Questa esperienza, anche se aveva la sua spiegazione nell'insufficiente preparazione del candidato, ci faceva lo stesso paura, come ci faceva paura Gentile. Un Gentile che anni dopo ebbi il piacere di conoscere all'Enciclopedia Treccani, dove con il figlio Fortunato mi ero recato per averne appoggi per alcune iniziative di propaganda coloniale universitaria che andavo curando. Allora ho visto anche un Giovanni Gentile sorridente. Un sorriso che mi fece dimenticare l'esame di Stato, che ricorre invece - come leggo - nel sogni paurosi di quanti mi sono succeduti come studenti. Gli altri compagni erano collaborazionisti. Ci aiutavamo tra noi, perché eravamo riusciti a costituire un nostro esercito che si doveva confrontare con l'esercito dei professori.
Queste cose sono mutate nel tempo. E qui la memoria mi riporta al '68. Ero allora capo esecutivo di un programma di chiarificazione politica della Confindustria, definito dal suo presidente, che era Cicogna, "Noto Programma". Lo presiedeva un Comitato di industriali, con una ripartizione di compiti tra i maggiori industriali del tempo. Con il cambio della guardia della presidenza, cioè il passaggio da Cicogna a Costa che dopo otto anni riassumeva la presidenza della Confindustria, questi assunse anche quella del comitato di cui ho detto. Costa, tuttavia, non mi apparve lo stesso presidente della prima maniera. Non mancava anche di sbadigliare e io ne dedussi che chi sbadiglia non decide.
Orbene, riferendo sulla situazione nella scuola d'allora, ebbi a dire che in essa ormai si era instaurato un vero e proprio rapporto sindacale. Costa, fino ad allora certamente trasferitosi altrove, fu sorpreso da questa similitudine con il mondo del lavoro e mi domandò chi era da intendersi il datore di lavoro, ricevendone da me come risposta che lo erano gli studenti.
Non era un facile paradosso, ma era qualcosa che cominciava a lievitare e che pure formalmente abortita la dice lunga sul compito dello studente, sul rapporto con la programmazione scolastica, sul pubblico e il privato, sul modo di essere dello Stato, e così via. Una tematica cioè che continua ad essere materia di sporadici assaggi, di promesse di riforme e di tentativi di riforme, alla ricerca di uno Stato veramente moderno, efficiente, puntuale nella fisionomia e nei compiti. E' stata questa la fatica dell'intero secolo ed è illusione credere che ciò non dovrà continuare ancora con lo stesso impeto, le stesse impazienze, le stesse speranze della nostra generazione, che molto spesso tanto si interroga intorno al percorso compiuto per il conseguimento del suo diploma e non di rado sulla sua reale utilità o surrogazione alle peculiarità degli impieghi. Pur vivendo durante il Ventennio, non ci chiamavamo camerati. Eravamo solo semplici compagni di studio. C'era il GUF, ma ci impegnava poco o nulla, a differenza forse di altri GUF. Lo stesso Mussolini sempre più privilegiava il termine camicie nere a quello di camerata.
E qui incontrammo gli inveterati fuori corso. Li ho trovati e li ho lasciati con questa qualifica. Uno era Manlio Lupinacci, un esponente del liberalismo monarchico fino alla partenza di Umberto II da Ciampino, e l'altro Leone Cattani, ministro anch'egli liberale del primo governo nato dalla Resistenza. Li distinguevamo solo perché sapevamo che li avremmo visti a lungo.
Gli altri studiavano, frequentavano le lezioni e i seminari, taluni si erano iscritti alla milizia universitaria che ha avuto la ventura di avere come capo Vincenzo Cersosimo, pubblico ministero del processo di Verona, o si dedicavano alle pratiche sportive, allora largamente curate dalle organizzazioni, pure capillari. Qualche randagio, come me, aveva scoperto che gli universitari dovevano pure occuparsi dei problemi coloniali e così promossi i primi gruppi universitari coloniali, che non erano denominati fascisti. C'è fra l'altro una fotografia di Mussolini sulle colonne di Leptis Magna con questa dedica.

Camerati con le virgolette
D'altronde, c'era una generazione ed era la nostra dei camerati con le virgolette. Erano quelli che non partecipavano al "littoriali", che non erano volontari nelle guerre di Etiopia, di Spagna, dell'Asse, delle battaglie razziali, ai quali non venivano impartiti ordini e che privi di "benemerenze" erano al margini. Quando tentai con gli altri amici un associazionismo coloniale giovanile, che pure riuscì a prendere vita, ricevetti una lettera del vicesegretario nazionale del PNF, Alessandro Melchiori, che mi invitava a "non mettere il Partito di fronte al fatto compiuto". Un fatto compiuto nientemeno rispetto al partito della Rivoluzione. V'era invece il ministro delle Colonie, l'ex nazionalista Luigi Federzoni, che si limitava a compiacersi del mio comportamento di "acino di pepe". Il sottosegretario alle Colonie, Piero Bolzon, mi dedicava invece una sua foto "per la mia fede ed opere con auguri per vittorie fasciste".
Da studenti e giornalisti principianti noi potevamo anche criticare sui giornali l'azione dell'Istituto Coloniale Fascista, presieduta da un senatore, approfittando delle "zone d'ombra" rilevate da Mussolini in una relazione sull'attività dell'Istituto. Con Vittorio Gorresio, con il direttore di un settimanale coloniale divenuto negli ultimi giorni del regime direttore generale dell'Istituto nazionale di cultura fascista, con un giornalista allora solerte nel presentare domande a tutti i concorsi pubblici del tempo senza vincerne alcuno, ma poi segretario federale, provveditore agli Studi, prefetto e reintegrato provveditore agli Studi dopo la liberazione, scrivemmo quattro articoli, che uscirono lo stesso giorno sui grandi quotidiani. Essi ci fruttarono da parte dell'alta corte di disciplina del partito, che intervenne nella modesta questione perché il presidente da noi criticato era senatore, una "deplorazione solenne". Ma questa non ebbe alcun seguito, neppure di notizia. Godevamo di una certa simpatia allora praticata nei confronti di giovani contro corrente ma ritenuti in buona fede. Eravamo, dunque, almeno alcuni di noi, camerati con le virgolette.
Alla Confederazione dei lavoratori del Commercio, dove trovai la mia prima occupazione come capo dell'ufficio corporativo (con 600 lire mensili di stipendio, e allora c'era l'aspirazione nazionale alle mille lire mensili, che sul finire a mia richiesta del mio rapporto di lavoro erano già 1.500, con l'appendice di consigliere aggregato alla Corporazione del legno), di questi camerati con le virgolette ce n'erano pochi.
C'era però qualcuno che anche se già squadrista lo era per lo meno in pectore. Era Riccardo Del Giudice, poi bottaiano, sottosegretario all'Educazione nazionale con lo stesso Bottai, e dopo la liberazione presidente dell'ENIOS, un'organizzazione per la razionalizzazione del lavoro. Egli sapeva essere critico e aiutava chi come lui faceva questa parte. Il che capitò anche a me, quando misi veramente a soqquadro la Corporazione delle Professioni e delle Arti, che fra le varie voleva inserire inopinatamente la trattazione del contratto degli addetti agli studi professionali che io rappresentavo. Ostacolai tale insolita procedura con tutte le mie modeste forze, avendo come controparte Alessandro Pavolini, quello dell'ultima raffica, il presidente della Corporazione, Gray, il direttore generale del ministero, Anselmi. Dalla mia parte, solo il rappresentante dei lavoratori del credito, Gian Pietro Pellegrino, poi a Salò ministro del Tesoro. Dissi che se la discussione fosse proseguita e si fosse conclusa con l'approvazione del contratto ci sarebbe stato un voto contrario: il mio. Sarebbe stata questa la prima volta di una votazione corporativa non unitaria. Non se ne fece perciò nulla. Ma Del Giudice protestò molto vivamente con il ministro competente, che si chiamava Lantini.
Alla Confindustria, dove i camerati con le virgolette, salva qualche eccezione, erano di casa, lo ero incaricato delle funzioni di capo ufficio stampa e studi della Federazione nazionale Artigiani.
Il presidente, Vincenzo Buronzo, era un poeta, come lo definì per giustificarlo più o meno benevolmente o sprezzantemente Mussolini al cambio della guardia con un altro presidente, era cognato di Arnaldo Mussolini, perché avevano sposato due sorelle, aveva capito che l'artigiano non va avanti in campo artistico se non guidato da artisti veri e architetti. Aveva accanto pure squadristi, fornitigli soprattutto dalla provincia, dato che l'artigianato era facile sbocco per chi avendo benemerenze squadriste cercava lavoro.
Ma accanto ad essi c'erano ed erano molti gli indifferenti e gli apatici politicamente: un ingegnere campione di tennis, ma genero dello scrittore Milanesi, un restauratore sic et simpliciter, uno dei tanti segretari gratuiti di Marinetti, preoccupato più di raccogliere quadretti di pittori futuristi poi divenuti plurimilionari, il figlio - medaglia d'argento egli stesso - di un valoroso generale della prima guerra mondiale, un avvocato meridionale agnostico politicamente e preferibilmente assente dalle manifestazioni soprattutto perché era brutto, una bella vedova che era lì solo per questa sua qualificazione, apolitici che avevano abolito l'occhiello della giacca, riservandosi di farlo aprire quando le sollecitazioni per il distintivo fossero divenute perentorie.
Nella Confederazione era più o meno la stessa cosa. C'erano solo camerati con le virgolette. Il capo del personale era più che altro specializzato nelle barzellette antifasciste, che costituivano la massima parte della sua comunicativa con il personale. Il vicesegretario generale non aveva mai posseduto una divisa fascista che pure in un certo periodo - breve però - era obbligatorio indossare negli uffici. Aveva pure lui una camicia nera che ricoperta da un paletot gli consentiva di essere presente - con l'animo altrove - alle cerimonie ufficiali. Questo vicesegretario generale ospitava nei saloni della Confederazione durante l'occupazione tedesca di Roma le riunioni del Comitato nazionale di liberazione, domandando a me perché non facessi parte di detti comitati. Quanti camerati con le virgolette in quelle stanze!
Ma qualche altro certamente ve n'era al palazzo della madre di Napoleone a Piazza Venezia, dove era la sede della società editrice della Confindustria, l'"Usila" se non erro. Orbene, qui era pure la redazione de L'Organizzazione Industriale, il settimanale della Confindustria che nel dopoguerra mi è occorso di dirigere. Qui c'era il capo redattore di allora, il collega Italo Minunni, già nazionalista, mutilato di guerra di una gamba, depauperato nell'udito. Quando da Sant'Ignazio sparava il cannone di mezzogiorno, egli dal vicino suo ufficio si limitava a dire "avanti". Se percorreva il Tritone con l'apparecchio auricolare in funzione il passaggio di un tram provocava rumori pari al varo di una nave.
La polizia gli aveva posto gli occhi addosso, perché lo riteneva capo partigiano. lo un mattino con un mio amico che doveva introitare un compenso di collaborazione, all'ingresso del suo ufficio notammo seduti due individui con il soprabito addosso, come usavano allora gli uscieri, perché non c'era riscaldamento e le loro mansioni erano solo di saltuaria e non lavorativa presenza. Allorché noi cercammo di andar via, ci fu risposto che ciò non poteva avvenire perché stava per arrivare il questore per la perquisizione degli schedari, nel quali si riteneva fossero stati confusi quelli degli abbonati con quelli dei partigiani.
Giunse l'editore che disse che potevamo andar via perché eravamo lì solo per ritirare copie arretrate. Prima il ricercato Minunni gli aveva chiesto ad alta voce: "che cercano me?". Minunni fu arrestato e portato a via Tasso, all'immediata vigilia dell'attentato di via Rasella. Ritornò in circolazione pochi giorni prima della liberazione di Roma. lo e il mio amico ricordiamo questo scampato pericolo, con le aberrazioni barbariche che hanno accompagnato la repressione delle Fosse Ardeatine. Non invece la storia successiva di Minunni.
In questo ambito di camerati con le virgolette inserirci non solo quanti da me conosciuti hanno fatto parte dell'ultima riunione del Gran Consiglio - che ha segnato la fine definitiva del regime - ma anche camerati che della rivoluzione d'ottobre avevano tutto dimenticato, pensando a riempire le cantine di viveri, ma dicendo che bisognava stringere la cinghia fino all'ultimo buco.
Questa cinghia da parte di camerati senza virgolette nella memoria è stata allentata poco alla volta, e così ne sono scomparsi pure i nostalgici. Il che è avvenuto per tutti quanti avevano un passato da nascondere, da far dimenticare e magari da ricordare nelle angosce della solitudine.

I colleghi
Ed eccomi al fine con i miei colleghi, giornalisti di cui il tempo mi ha reso uno dei decani. Nel 1970 la nostra associazione romana mi assegnò insieme a qualche altro, fra cui Renato Angiolillo - che aveva fondato Il Tempo, che dopo di lui ha avuto una storia largamente minore - una medaglia d'oro per i miei 40 anni di militanza giornalistica. Oggi siamo sul finire del 1998.
La fantasia di ogni generazione ha avuto questo lievito, ha registrato questa ansia, ha ricercato e praticato questa emulazione. Nientemeno che dagli acta diurna imperiali. Questo secolo poi ha esercitato tante suggestioni, con il fulgore di grandi figure giornalistiche, molte delle quali sicuramente irripetibili nel tempo almeno per quanto riguarda la nostra stampa, e con l'incalzare della tecnologia, che certamente nel giornalismo ha avuto una delle più evidenti e trasparenti espressioni: di macchine e di operatori.
Tanti sono i nomi che in questo campo hanno fatto del nostro Albo addirittura un grandissimo simbolo nazionale (e taluni pensano di abolirlo!). Li ricordo come compaiono, sempre repentinamente, nella mia mente: Luigi Albertini, Edoardo Scarfoglio, Alberto Bergamini, Olindo Malagodi, Luigi Barzini e Mario Missiroli, Francesco Saverio Nitti, Luigi Einaudi, Gabriele D'Annunzio e i tanti protagonisti di una "terza pagina" che oggi è tutt'altra cosa, Giovanni Amendola e il nostro Enrico Mattei. E c'è anche da aggiungere tra i giornalisti eminentemente politici e partitici anche Mussolini, che è stato dittatore, ma anche un fuoriclasse - sia pure profondamente sbagliato - del giornalismo del finire degli anni '10 e degli anni '20.
Il mio primo articolo risale al 1927 e mi fu richiesto perché dessi conto dell'esperienza che da matricola stavo facendo tra gli universitari, avendone costituito il primo gruppo coloniale, e quindi potevo riferire sulla reazione dei giovani di un certo livello culturale sul nostro colonialismo. Allora ai giovani, da questo punto di vista, non aveva pensato nessuno. C'era un Istituto Coloniale, che si preoccupava soprattutto di questioni militari, geografiche, amministrative. C'erano inoltre gli amici dell'Idea Coloniale, che era un settimanale del quotidiano L'Idea Nazionale, foglio nazionalista fondato da Enrico Corradini.
A me è occorso di pensarla diversamente, tentando un approccio anche con gli amici dell'Idea Coloniale e con il suo segretario generale, Guido Cortese, un giornalista che in termini spiccioli mi fece capire che dovevo passare la mano mia di matricola ad un anziano. Naturalmente feci diversamente ed ebbi la fortuna di essere capito dal rettore dell'Università, il prof. Giorgio Del Vecchio, e dal GUF, che aveva dovuto smobilitare la propria sezione aeronautica allora prematura - siamo nel '27 - e ritenne di sostituirla, dandomene anche la sede, con il mio gruppo coloniale. A chiedermi l'articolo su queste mie "esperienze" di cui prima ho detto fu il direttore di una rivista che nel suo titolo aveva preconizzato Le vie dell'Impero (anche l'impero allora era prematuro, essendovi solo un altro giornale di punta e quanto mai estremista che si chiamava L'impero senza alcun credito di firme) e che era marchese ed aveva un nome che riempiva due righe di giornale. Si chiamava Paolo d'Agostino Orsini di Camerota, ed è stato il mio primo collega.
Poi ho avuto a che fare con Telesio Interlandi, che aveva fondato nel '25-'26 un giornale, Il Tevere, che è stato certo un'innovazione nel panorama editoriale di quel tempi. Il direttore mi accolse come collaboratore coloniale: nell'ascoltare distratto i miei ringraziamenti, mi disse semplicemente che il suo giornale voleva essere una vetrina di valore e perciò mi aveva accolto. Quante speranze in me! Il giornale negli anni successivi - ma io avevo ricercato le mie collaborazioni, questa volta retribuite, altrove - fu messo ai margini, ma utilizzato sempre dal regime. A Mussolini si deve la battuta: "in ogni famiglia ordinata c'è pure il bidone per le immondizie". Ma in questo decennio la figura di Telesio Interlandi, almeno in alcuni tratti (esclusi naturalmente quelli riguardanti la cosiddetta difesa della razza e il suo filogermanesimo espresso a livelli da fare invidia a quello di Farinacci), è stata in un certo senso rivalutata nella sua intuizione di un giornalismo innovatore, che ebbe agli inizi pure la ventura di avere collaboratori illustri nient'affatto retribuiti.
Anche Sciascia ha concorso a questa rivalutazione, che anch'io condivido con i limiti di cui ho detto. E colleghi di quei tempi erano per me, che cominciavo a frequentare il Circolo della Stampa, il napoletano Rocco, corrispondente de Il Regime Fascista di Farinacci, per il quale giornale pubblicavo degli editoriali di politica coloniale. Rocco preferiva al giornale il gioco delle carte; perciò frequentemente si allontanava dalla sala stampa con la scusa di un mal di testa al cui annuncio faceva seguire subito l'avvertimento che chi dovesse cercarlo si doveva rivolgere per trovarlo al circolo della Stampa.
Colleghi erano pure un robusto caricaturista, che si chiamava Romeo Marchetti, con bombetta e moglie sempre aggregata; il direttore del Travaso delle Idee, Filiberto Scarpelli, che faceva dell'umorismo quanto mai vivace e puntuale, eppure aveva la vita estremamente difficile; il segretario della stampa romana, Gaetano Polverelli, divenuto tanti anni dopo sul finire del regime ministro della Cultura Popolare, partecipe all'ultima seduta del Gran Consiglio, ma in quella sede invitato a tacere, perché non capiva nulla.
E poi è arrivato il grosso dei colleghi, quando nel '46 - espressamente chiamatovi al rientro divenni vice nella direzione dell'ufficio stampa della Confindustria. Siamo nell'agosto del 1946. La mia sala stampa confederale era allora all'aperto, nel cortile di Palazzo Artieri, l'attuale sede di Berlusconi. Lì Costa, presidente della Confindustria, aveva ricostruito la sede dell'imprenditoria italiana. Durante il fascismo era stata la sede del Dopolavoro confindustriale.
Sul davanzale di una finestra era la sede della direzione e della redazione de L'Organizzazione Industriale, il settimanale confindustriale che allora dirigevo. Nel cortile, come ho detto, la sala stampa, dove però affluivano giornalisti già famosi o che tali sarebbero divenuti. V'erano Vittorio Gorresio, Riccardo Luna, capo ufficio stampa della DC, che rifiutò di fare il senatore, perché la sua vocazione era un'altra (Montanelli è l'altro giornalista che ha fatto la stessa cosa quasi mezzo secolo dopo), Luca Pavolini, che doveva divenire poi il direttore de l'Unità, Lelio Bersani che allora alla Rai faceva il resocontista sindacale e forse pure politico e certo non immaginava il suo successivo corso professionale cinematografico. E c'era Virgilio Lilli, giornalista dal 1946 al 1962: Giacomo Guiglia.
E' stato un grande giornalista, con l'assillo che le notizie non avevano domani (e perciò si doveva lavorare senza orario), direttore o collaboratore di importanti quotidiani durante il ventennio, non ha più firmato dopo o è ricorso allo pseudonimo Tizio. Amico e sostenitore di grandi giornalisti (Giovanni Ansaldo, Giorgio Pini, Irene Brin, Orsola Nemi, ecc.), lo ammiro ancor oggi più di ieri. In questi giorni ho riletto ancora una volta una sua dedica a me apposta su di un libro di Luigi Einaudi (Lo scrittoio del Presidente), che mi donava nella ricorrenza di un mio compleanno: "3 giugno 1956, a Gennaro caro, a ricordo di tutti questi anni, dei quali è traccia in queste pagine che seguono, assieme vissuti e per dirti che il passare degli anni non può corrodere gli affetti che tante vicende assieme vissute hanno creato. Nel tuo... compleanno. G.G.". La mia vita oggi, non solo ieri, è lì.
E' sempre difficile capire chi veramente si è stati, ma parole come queste me lo fanno per lo meno credere. Ed anche altri, pur per periodi di tempo più ridotti, mi hanno detto cose sulle quali talvolta mi è possibile fondare le mie illusioni.
Ricordo Enrico Mattei, che nel 1963 in un occasionale incontro sul rapido FirenzeRoma, e con noi c'era pure de Feo, già vicepresidente della Rai, ebbe a dirmi che riteneva che l'azione editoriale confindustriale più valida allora era quella esplicata da Il Sole, che allora dirigevo. E ricordo Nino Nutrizio, allora direttore de La Notte, che mi diceva che il primo giornale che leggeva al mattino era Il Sole; Remigio Rispo, direttore de Il Globo, con il quale fra l'altro condividevo il termine "mi compiaccio". a commento di cose che gli altri dicevano e delle quali non ce ne fregava niente, e con il quale ho avuto fecondi periodi di reciproca collaborazione. Si preoccupava di stimolare la mia firma con la collaborazione agli editoriali del suo giornale, con lo scopo di ritardare il mio conclusivo periodo di giornalistico silenzio.
Ricordo Germano Secreti, perché mi era antipatico quando poco lo conoscevo e amico quando ho potuto cominciare ad apprezzarne le doti di amico - ed lo, forse per lui, ne sono stato l'ultimo - di grosso articolista sociale, sindacale, ecc., del cui apporto ho sempre avuto bisogno.
Era stato anche capo dell'Ufficio Albania della Confindustria e come tale con tanto di distintivo della marcia su Roma sulla divisa fascista fece parte della delegazione albanese che offrì la corona di re dell'Albania a Vittorio Emanuele III. Secreti mi riferì che il Re, vedendolo nella presentazione con tale distintivo, domandò al Capo della sua casa militare che l'accompagnava nelle singole strette di mano: "ma anche gli albanesi hanno fatto la marcia su Roma?". Mancavano ancora diversi anni al 25 luglio.
E dovrei ricordare ancora Mario Missiroli, che a me che curavo una rivista economica offriva articoli su materie per lui estremamente indifferenti: dalla disciplina della macellazione all'economia del lavoro e non dell'oro, come piaceva a modo suo ad Hitler. Ed ancora Michele Chinigo, americano e direttore per l'Italia dell'INS, con il quale ho collaborato per oltre vent'anni. Ario Liuti, capo dell'Ufficio USIS dell'Ambasciata USA a Roma, che mi ha dato la sua collaborazione di studi, di materiali, ecc., inserendomi pure nel programma di individuali missioni giornalistiche di tre mesi negli USA e quindi concorrendo al consolidamento delle mie convinzioni occidentali: tali, del resto, per la mia intera esistenza.
E i miei colleghi sono quelli che ho avuto come compagni nella mia collaborazione con la RAI: da Gerolamo Pedoia a Raffaele De Leva, da Gustavo Selva a Gilberto Fabretti, per finire, anzi per cominciare, con Raoul Chiodelli, uno dei padri storici dell'EIAR. A lui ebbi nel '60 la fortuna di prospettare l'opportunità di telecomunicazioni in materia di mercati finanziari. Così ho avuto la ventura di dar vita alla prima Teleborsa italiana.
Di tutto ciò, com'è chiaro, non sono io il soggetto, ma con me i compagni, i "camerati", i colleghi di cui ho detto fin qui. Ho letto che Ovidio, oggi, può essere studiato al computer. Quanto ho detto di fatti, non di persone - modeste tutto sommato - può avere la stessa sorte? La mia età, purtroppo, non mi consente di avere risposte in tempo utile.


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