STOP AGLI INCENTIVI




Luca De Caro



Le imprese italiane hanno invocato per decenni le "leggi di incentivazione" come componenti della politica industriale essenziali per consentire la crescita degli investimenti. li ragionamento è sempre stato più o meno questo: se i tassi di interesse sono alti, più elevati degli stessi Roe aziendali, il governo deve fare qualcosa per abbassare il costo del capitale, altrimenti gli investimenti non si possono convenientemente realizzare. E' nato così un vero e proprio filone legislativo di provvedimenti di incentivazione, sviluppatosi negli ultimi vent'anni. Attraverso questi aiuti, secondo uno studio del Senato, lo Stato avrebbe erogato al sistema economico qualcosa come 400 mila miliardi di lire. Si è trattato, ovviamente, di una "compensazione", sia per le distorsioni che lo Stato stesso induceva nel mercato finanziario, sia per l'anomalia fiscale italiana. Fino al 1997, l'imposizione sui profitti d'impresa è stata la più alta d'Europa: lo Stato ha prelevato circa il 53 per cento dei profitti in termini nominali, ma oltre il 60 per cento calcolando anche gli oneri fissi, non direttamente collegati alla produzione di reddito.
Ufficialmente soddisfatte per le leggi di incentivazione (criticate, semmai, a causa dell'insufficiente dotazione finanziaria), le imprese non hanno mai riflettuto abbastanza sull'efficienza di questi strumenti, le cui ragioni oggi - con l'Euro e il calo dei tassi - stanno progressivamente venendo meno.
La prima questione è quella dell'efficienza distributiva. Un mercato dei capitali efficiente dovrebbe distribuire il capitale finanziario in funzione dei tassi di rendimento atteso dai suoi impieghi. Nel caso degli incentivi, il sistema di distribuzione è burocratico-amministrativo, e non vi è motivo di ritenere che - ex post - il risultato sia simile a quello che avrebbe prodotto il mercato.
Le imperfezioni distributive, infatti, non si contano: la principale è ovviamente l'informazione. Le leggi di incentivazione sono una trentina, diverse tra loro, destinate a fattispecie di investimenti differenti, con differenti modalità di accesso e finestre temporali entro le quali preparare e consegnare documenti, spesso muniti di certificati e costose perizie. Le imprese possono muoversi in questo labirinto soltanto utilizzando consulenti. Gli sportelli pubblici non vanno molto al di là dell'informazione sugli incentivi disponibili, mentre l'istruzione delle pratiche può essere molto lunga e altrettanto laboriosa.
Un altro ostacolo è l'incertezza sulla probabilità di ottenere il finanziamento richiesto, che non dipende tanto dalla bontà del progetto (se ne richiede soprattutto la regolarità formale), quanto dalla concorrenza sul fondi. Si possono avere le carte in regola, ma, se si è in troppi, tutta la fatica fatta per concorrere andrà inevitabilmente delusa dal razionamento in sede di stesura delle graduatorie.
In teoria, gli incentivi non sono mai generici: ve ne sono di finalizzati a singoli settori (l'artigianato), aree geografiche (quelle "depresse"), tipi di investimenti (impianti innovativi, introduzione dell'elettronica), altre attività (ricerca applicata). Chi gestisce queste leggi, però, sa bene che l'approccio dell'impresa non corrisponde agli intenti del legislatore, che vorrebbe collegare l'erogazione dei fondi a risultati particolari. Molto più praticamente, le imprese si rivolgono agli sportelli pubblici non tanto per avere risposta specifica a uno specifico bisogno di finanziamento, quanto per ottenere in qualche modo una riduzione del costo complessivo del capitale. In una recente inchiesta è risultato che l'80% circa delle imprese incentivate avrebbero comunque effettuato l'investimento in questione. Ciò porta a concludere che il vero problema è la semplice, generica disponibilità di fondi per lo sviluppo: si potrebbero cancellare tutte le leggi, sostituendole con una sola.
Si aggiunga che tali leggi tendono a proliferare "in piccolo": quando un provvedimento di incentivazione ha successo, per esempio in termini di consenso dell'opinione pubblica, molte autorità locali (soprattutto regionali) sono attratte dall'idea di replicarne lo schema attraverso i propri strumenti normativi. Così, nascono leggi regionali e delibere "fotocopia", che creano procedure istruttorie, commissioni e uffici i quali finiscono con il gestire importi finanziari modestissimi: le imprese restano quasi sempre deluse, e difficilmente tali provvedimenti potrebbero resistere a una seria valutazione in termini di costi e benefici.
Vi sarebbero, forse, imprese meno competitive della media settoriale e che potrebbero avvantaggiarsi dall'utilizzo delle leggi di incentivazione. Un simile criterio distributivo -comunque sotteso da tutta la legislazione sugli aiuti - risulta criticabile dal punto di vista dell'efficienza economica; quand'anche lo si accetti, tuttavia, giustificandolo con l'inefficienza del mercato finanziario, il risultato finale è in ogni caso deludente: le imprese che riescono ad aggiudicarsi i fondi non sono, di norma, quelle più razionate sul mercato del credito, bensì quelle più ricche e meno razionate. Essendo le procedure lunghe e complicate, solo le imprese più grandi ed efficienti riescono ad accedere ai fondi, non di rado impiegando allo scopo personale specializzato e che ha sviluppato una competenza specifica sulle leggi di incentivazione.
Un'ultima considerazione deve poi esser fatta sul costo complessivo del sistema di gestione, che difficilmente si giustifica, soprattutto se l'austerità di bilancio riduce le somme disponibili. Di recente, il governo ha deciso di rendere "automatici" alcuni aiuti, per esempio trasformandoli in sgravi fiscali. Ma è un rimedio non risolutivo, benché corretto rispetto al problema dei costi.
La soluzione è un'altra, e a suggerirla è proprio l'ingresso nell'Euro. Un ingresso che, fra l'altro, mette l'Italia nel mirino della Commissione europea, che ha fissato limiti alle politiche degli aiuti nazionali, perché ove questi si sommino agli aiuti comunitari possono distorcere le politiche europee e perché ogni sussidio è un ostacolo alla concorrenza, che si vorrebbe veder crescere nel mercato unificato dall'Euro. Non è un caso che a carico dell'Italia la Commissione (Ufficio della Concorrenza) abbia già aperto ben due "procedure d'infrazione", una per la legge Sabatini e una per la legge 488, che coinvolgerebbe una serie di altri aiuti collegati (dalla legge 341/95 a quella sull'imprenditoria giovanile).
L'Unione monetaria porta in dote a Paesi come l'Italia tassi di interesse finalmente Il normali" e una sana concorrenza nel settore finanziario. Il che, tra l'altro, significa sia che le imprese saranno sempre più in grado di disintermediarsi dalle banche di credito ordinario, quotando le proprie azioni e/o obbligazioni sui mercati regolamentati, non necessariamente nazionali; sia che gli intermediari finanziari saranno sempre più disponibili a segmentare l'offerta di finanziamenti secondo l'impiego previsto del capitale. Nell'epoca dell'Euro è lecito pensare che si vedranno sempre più imprese "europee" e sempre meno imprese in coda per un risicato, inattuale e controproducente obolo pubblico.


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