Tre anni fa ero
convinto che l'edificio costruito a Maastricht sarebbe crollato, perché
Paesi come l'Italia, come il Belgio, avevano un debito pubblico troppo
elevato, perché i governi truccavano i numeri per rientrare
nei parametri del Trattato. Pensavo che la Germania non avrebbe accettato
manfrine del genere. Ma un anno fa, con mia grande meraviglia, le
cose hanno cominciato a girare, e sono contento che anche l'Italia
ce l'abbia fatta.
Qui negli Stati Uniti seguiamo gli sviluppi della moneta unica con
grande interesse, ma con le dita incrociate e con un filo di scetticismo.
Si sono celebrate le nozze tra gli undici Paesi che formano la nuova
moneta; ma poi, si sa, i matrimoni non sono soltanto rose e fiori.
Il pericolo maggiore è che la Bundesbank, con la sua paura
dell'inflazione, continui ad esercitare un'influenza dominante e imponga
agli altri Paesi una politica macro-economica eccessivamente austera.
Sarebbe davvero triste se il primo risultato dell'Euro fosse quello
di far salire la disoccupazione. lo ritengo, d'accordo con il mio
amico Franco Modigliani, che una politica, sì, macro-economica,
ma espansiva, da parte degli Undici, possa portare a un calo della
disoccupazione. Ma ad una condizione: che gli europei imparino, come
gli americani, a muoversi sul continente alla ricerca del lavoro.
Nonostante le barriere linguistiche e culturali, che anche noi abbiamo.
Un successo dell'Euro porterà a un graduale trasferimento di
riserve dagli Stati Uniti all'Europa. Anche le banche americane espanderanno
le loro operazioni in Europa e tratteranno sempre più in Euro.
Ma tutto questo non succederà dall'oggi all'indomani. La gente
non trasferirà una parte della propria fortuna in Euro senza
prima aver visto la nuova moneta all'opera. Ci vorrà qualche
anno, in cui l'Euro dovrà guadagnarsi la fiducia degli investitori.
Infine, non vedo perché un Euro forte debba rappresentare una
minaccia per l'economia americana. Ora le condizioni negli Stati Uniti
sono ideali, con una crescita robusta e nessuna inflazione. Ma anche
in presenza di un forte calo della Borsa, diciamo del 30 per cento,
non sarebbe certo la fine del mondo. Il dollaro potrebbe finalmente
cominciare a deprezzarsi un po', il che non sarebbe male. Il pericolo
per l'economia americana, semmai, è un altro: che l'Euro non
decolli e che il dollaro continui ad apprezzarsi. In questo senso,
è prematuro dire che si è aperta una nuova era.
Paul Samuelson
Professore Emeritus del MIT - Premio Nobel per l'Economia
Si dividono in
due categorie: gli "euronegativi", cioè quelli che
proprio non vogliono l'Europa: in Italia sono relativamente pochi;
e gli "euroscettici", limitatamente alla nostra capacità
di restare in Europa. Farei una profonda distinzione tra i due gruppi:
i secondi gioiscono insieme con noi. Gli "euronegativi"
hanno una sostanziale sfiducia nella capacità del Paese di
amministrarsi bene e quindi di poter rinunciare senza danni alla flessibilità
del cambio.
A loro rispondo che se anche l'Italia non fosse entrata da subito
in Europa, non sarebbe stata per questo libera da ogni vincolo. Non
avrebbe potuto essere in nessun caso un'Italia "pirata".
Quanto alle imprese, vorrei soltanto ricordare che quando lamentano
la troppa pressione fiscale dovrebbero riconoscere quanto hanno nel
frattempo risparmiato sul costo del denaro così fortemente
ridotto. Dovrebbero chiedersi se nei loro bilanci il saldo tra più
tasse e meno tassi sia stato positivo o negativo.
Carlo Azeglio Ciampi
Ministro del Tesoro-Bilancio
I1 semplice gesto
con cui accettiamo di dare a uno sconosciuto lavoro, cibo, vestiti
in cambio di banconote, pezzi di carta privi di valore intrinseco,
è un gesto di pace e di civiltà fondato sulla fiducia
che quei pezzi di carta un altro li accetterà più tardi.
Forse con nessun altro gesto due estranei riconoscono più,
chiaramente - e a proprio rischio - di appartenere alla medesima società.
"Il commercio lima e addolcisce i comportamenti barbarici",
scriveva
Montesquieu nel 1748. Ci sono voluti i cent'anni di pace seguiti alle
guerre napoleoniche e l'ascesa della società borghese perché
una carta senza valore venisse accettata da tutti. Ed è stato
necessario che la moneta fiduciaria (così si chiama quella
carta) fondasse la sua credibilità nello Stato sovrano, perché
da Alessandro Magno e ancor da prima è il sovrano che batte
moneta. Quel semplice gesto ora accomunerà tutti gli europei,
non più, separatamente, i cittadini delle nazioni formatesi
dal Medio Evo all'800. Il sovrano è l'Europa.
La parabola dell'Europa occidentale in questo secolo ha ricalcato,
nell'arco di pochi decenni, il passaggio "dalle passioni agli
interessi", di cui Hirschman ha tracciato il percorso intellettuale
compiuto nel secolo XVIII. L'Europa centrale e orientale quel passaggio
lo inizia ora e chiede il nostro aiuto.
Un'unione che neppure per le funzioni affidatele soddisfa i princìpi
cardine del costituzionalismo occidentale (equilibrio tra i poteri;
fondamento del potere nel voto popolare; principio maggioritario),
che non ha competenze vere di politica estera e di sicurezza interna
ed esterna, è incompleta e debole. Ha dunque ragione non solo
chi applaude il passaggio all'Euro, ma anche chi ne rileva l'incompiutezza,
i rischi, la temerarietà.
L'unione dovrà compiere altri passi. Per realizzare la promessa
di un'Europa unita, ma anche per assicurare il successo dell'Euro,
dovrà ricordare che, se il commercio addolcisce la barbarie,
esso, come scrive Adam Smith, "fiacca il coraggio umano e tende
a spegnere lo spirito marziale". Per costruire ancora, l'Europa
potrà in futuro fondarsi sulla trasformazione oggi innescata:
perché il semplice gesto dello scambio ricorderà innumerevoli
volte a ciascuno l'appartenenza - oltre che a una città, una
regione, una nazione - all'Europa.
Tommaso Padoa Schioppa
Direttivo Banca Centrale Europea
In Europa la cultura
della stabilità è acquisita e tutti concordano che occorre
metterla in pratica attraverso idee politiche ed economiche sane.
Bisogna capire che il passaggio all'unione monetaria implica un cambiamento
profondo di mentalità e di comportamenti, nel senso che dovremo
condurre le nostre politiche economiche in modo molto coordinato.
Gli Stati membri dovranno presentare entro dicembre i loro programmi
di stabilità, spiegando quello che intendono fare in termini
di bilancio e di politica economica per i prossimi tre anni. Poi dovremo
seguire l'applicazione dei programmi e assicurarci che non ci saranno
sbandate. La cultura della stabilità è anche un impegno
sui comportamenti per il futuro. E questo vale per l'Italia come per
gli altri. Con l'avvertenza, per gli italiani, che loro hanno un debito
più elevato, per cui è ancora più importante
attenersi agli impegni che sono stati presi. E che sono: la liberalizzazione
del mercato del lavoro, che è importante per la lotta alla
disoccupazione; la riforma delle politiche fiscali, che deve essere
messa in pratica con successo; il problema dell'invecchiamento della
popolazione e quindi la necessità di adottare i sistemi delle
pensioni. L'obiettivo, a medio termine, è di ritrovare una
situazione di bilancio abbastanza sana per consentire in Italia un
calo della pressione fiscale, e quindi il rilancio degli investimenti
privati.
Infine, per tutti, c'è un problema politico di fondo: l'Euro
è, sì, un progetto economico, la risposta dell'Europa
alla sfida della globalizzazione. Ma, al di là di questo, la
moneta unica resta una tappa essenziale della costruzione europea.
Quarant'anni fa l'Italia ha firmato i Trattati di Roma con altri cinque
Paesi e si è impegnata in un processo di integrazione progressiva.
Bisogna mettere le cose in prospettiva, riportarle a un progetto.
Anche se in termini economici e monetari, l'Euro è più
un'evoluzione che una rivoluzione, anche se non è affatto un
salto nel buio, ma un traguardo che arriva dopo quattro decenni di
sforzi; non dobbiamo dimenticare che si tratta di un progetto politicamente
ricco di implicazioni. Non è finita, dunque, ma appena cominciata.
Sul piano istituzionale, come su quello politico, ci saranno delle
conseguenze. Ricordiamoci che la moneta unica è una scelta
da cui non si può tornare indietro. Non esiste via d'uscita
per nessuno. E, dunque, tutti dovranno andare avanti.
Yves-Thibault de Silguy
Commissario europeo
L'Europa politica
deve essere una forma di convivenza tra cittadino e collettività
organizzata in modo federale anziché nazionale. Ma è
possibile un'Europa politica senza un minimo di regole comuni circa
quella convivenza fra cittadino e collettività? Non credo.
Maastricht è stato importante, a mio parere, perché
ci ha dato la moneta unica; ma molto di più perché,
con il fine della moneta, ci ha dato una costituzione con un corpus
di regole che, dentro una forma finanziaria, hanno una sostanza civile.
Nessuno lo può capire meglio di noi italiani. Oggi abbiamo,
e si sta radicando, la "cultura della stabilità".
Prima di Maastricht non l'avevamo e gran parte della cultura e della
politica italiana riteneva poco interessanti se non inaccettabili
i singoli connotati di quella cultura.
L'Euro ha anche cambiato il modo di fare politica. Le scelte ora sono
più crude, più trasparenti, più sincere. Con
un limite al disavanzo, se si dà agli uni occorre togliere
agli altri. Non si può più dare agli uni senza togliere
a nessuno (se non ai nascituri, attraverso l'inflazione e il debito
pubblico). A me sembra che questo abbia in realtà ristabilito
il "primato della politica". Era forse un serio "primato
della politica" la prassi invalsa a un certo punto in Italia
di "rispettare" l'articolo 81 della Costituzione, che esige
la copertura a fronte di nuove spese, considerando "copertura"
anche il ricavo dell'emissione di titoli di Stato?
Con queste considerazioni non voglio minimamente sottovalutare il
cammino che rimane da compiere. L'Europa ha di fronte a sé
sfide che richiedono un "supplemento di responsabilità",
come ha scritto il cardinal Carlo Maria Martini. A cominciare da quella
sfida che "consiste nel mostrare, con programmi concreti, che
la moneta unica e lo stare insieme in un certo modo aumentano le prospettive
di lavoro per tutti, in un quadro di autentica solidarietà".
Ma, almeno, il prepararsi all'unione economica e monetaria ha fatto
fare passi avanti a "un certo modo di stare insieme", più
civile e responsabile.
Occorre ora muovere dal mercato unico al governo dell'economia sul
piano europeo, all'indispensabile riforma delle istituzioni. Sono
importanti, in particolare, regole per arrivare a posizioni comuni
sulla politica estera e per superare il vincolo dell'unanimità,
che si rivela spesso fattore di blocco nelle decisioni. Ma non si
tratta certo di voltar pagina, rispetto alla moneta unica. Né
di avere il complesso che questa sia una costruzione non democratica
e non politica. Già prima di nascere, essa ha notevolmente
contribuito all'integrazione, anche politica, dell'Europa.
Mario Monti
Commissario europeo
Vi è chi
ritiene che dall'unificazione europea possa venire un impulso decisivo
anche per una politica globale di pace. Nell'agenda della globalizzazione,
infatti, non hanno rilievo i soli problemi economici. Occorre tornare
alle radici delle politiche di libero scambio, quando si pensava che
l'abbattimento di ogni frontiera e di ogni dogana fosse l'atto preliminare
per una duratura condizione di pace e di prosperità universale.
Naturalmente, non vi è nulla di scontato né tantomeno
di automatico in questa direzione di marcia. Mentre gli europei possono
guardare con legittimo orgoglio all'avvio della moneta unica, debbono
sapere che questo è solo uno degli assi della futura politica
continentale. Ne restano da perseguire altri due, ancora più
impegnativi.
Il primo è quello della politica dello sviluppo e dell'occupazione.
Il rilancio dell'economia europea nella competizione globale è
indispensabile per diffondere lo sviluppo e promuovere il lavoro.
In nessun caso possiamo rischiare di deludere le aspettative dei giovani,
che nell'unità europea intravedono anzitutto una speranza di
equità, una ripartizione delle risorse che non li penalizzi
più come è successo troppo sovente negli anni scorsi.
Il secondo asse è quello di restituire all'Europa l'autonomia
perduta in fatto di politica internazionale e della difesa. Guai se
creassimo un gigante dal punto di vista economico e un nano sul versante
cruciale delle relazioni diplomatiche. La nuova Europa dovrà
essere un continente che ambisce ad assolvere fino in fondo a responsabilità
mondiali, senza più la passività del passato e senza
ripiegare in un rango subalterno che farebbe torto agli Stati Uniti
in primo luogo, cioè alla potenza che ha creduto al futuro
europeo, varando il Piano Marshall all'indomani dell'ultima guerra
mondiale.
Non c'è, in questa visione dell'Europa unita e dei suoi compiti,
alcuna nostalgia per un anacronistico eurocentrismo di timbro ottocentesco.
C'è al contrario, io credo, la consapevolezza di una missione
da svolgere per la creazione di un equilibrio policentrico globale,
nell'interesse degli europei e di tutti i cittadini del mondo.
Giovanni Agnelli
Presidente Fiat
Il più
grave errore del secolo è la moneta unica europea: rappresenta
un abbaglio analogo a quelli presi negli Anni Trenta, frutto oggi
come allora di una mania di grandezza politica che non tiene alcun
conto della realtà economica sottostante e delle differenze
tra i vari Paesi.
Nei prossimi anni, c'è da essere certi che la necessità
di tener fede agli impegni porterà a tassi d'interesse troppo
alti, che l'ossessione di controllare i deficit pubblici impedirà
di usare questi come strumento anti-recessione in momenti difficili
e che la disoccupazione si impennerà ulteriormente.
Jean-Jacques Rosa
Economista francese
L'America era
convinta che l'Euro non si sarebbe fatto, o che avremmo avuto un piccolo
Euro, corrispondente all'area del marco, o poco più. E' stato
proprio il colpo di reni dei Paesi mediterranei, Italia in testa,
ad averli colpiti. Perché l'Euro a undici è destinato
ad avere una forza di attrazione molto superiore a quella del marco
e sottrarrà al dollaro la rendita di posizione di cui ha goduto,
in quanto unica e vera moneta di riserva, leader delle transazioni
internazionali.
Il professor Feldstein arriva addirittura ad evocare lo spettro di
una guerra innescata dai conflitti d'interesse che esploderanno in
quest'Europa. Ma il suo è un paradosso, anche se è vero
che molti in America mantengono le loro riserve. Sulle analisi oggettive
sta però pian piano prevalendo il fastidio di chi si rende
conto che l'Euro avrà un costo non marginale per gli Stati
Uniti. Un grande esperto di economia internazionale come Fred Bergstein
parla ormai apertamente di un'età del dollaro che sta per finire,
a favore di un'epoca di bipolarismo monetario, nella quale l'America
sarà obbligata a seguire una disciplina che finora ha ignorato.
Oggi l'economia americana può sopportare deficit continui e
consistenti dei conti con l'estero senza che ciò penalizzi
il dollaro, che è l'unica moneta di riserva al mondo. Domani
questo ruolo dovrà guadagnarselo, confrontandosi con l'Euro.
Qui però è necessario che l'Europa consolidi il suo
nuovo ruolo anche sul piano politico. Il dollaro è la valuta
di riserva anche grazie alla leadership politica e militare dell'America.
Come potenza militare l'Europa resterà comunque in seconda
linea, ma sul piano della leadership politica l'Euro offre grandi
opportunità. Non so se sapremo coglierle. Non parlo di creare
un'Europa federale domattina, ma di avere almeno una posizione comune
sui principali temi della politica estera.
Giuliano Amato
Ex Presidente del Consiglio
Ciascuno degli
Undici ha più opportunità e più sfide altrui.
Vincerà chi è più competitivo. Anche gli investimenti
e i posti di lavoro andranno nelle aree più competitive. E'
un'esperienza che il nostro Sud ebbe, negativamente, nello scorso
secolo, quando si unificò con il Nord. Infatti ora l'Italia,
nella competitività, parte con grossi handicap.
L'indice della competitività dell'International Institute for
Management di Losanna per il '97 mostra che, nella graduatoria internazionale,
noi siamo al 30° posto, su 46 nazioni; e ultimi nella graduatoria
dei Paesi dell'Euro, dopo il Portogallo (29°) e la Spagna (27°).
Il nostro concorrente più stretto, la Francia, tradizionalmente
impacciato da vari lacci dirigisti e da fiscalità, comunque,
è al 21° posto. Il Belgio, che è, per debito pubblico,
assieme all'Italia, la "maglia nera" dell'Euro, è,
nella competitività, al 23° posto. La Germania occupa nella
graduatoria la posizione 14, mentre l'Olanda ci guarda dall'alto del
suo 4° posto. Vicino ad essa troviamo la pattuglia nordica di
Finlandia, Norvegia, Danimarca, cui si è recentemente agganciata
l'Irlanda, che -adottando regole vantaggiose per le imprese -ha ormai
tassi di crescita del reddito e dell'occupazione spettacolari.
I nostri handicap sono molteplici. In primo luogo, rispetto agli altri,
abbiamo servizi pubblici, come poste e ferrovie, più scadenti,
e che peggiorano, anziché migliorare. Le nostre tariffe telefoniche
sono più alte. Abbiamo una tassazione che, nella media, è
sia per i contributi sociali sia per le imposte, pari a quella tedesca
e francese, ma con aliquote più alte sulle piccole e medie
imprese, e incertezze fiscali che gli altri non hanno (ad esempio,
nei rimborsi Iva).
Abbiamo servizi pubblici peggiori. Abbiamo una burocrazia lenta e
caotica, che rende difficoltose e ritardate le decisioni di investimento.
E nessuna decisione di rilievo viene presa, se non col consenso sindacale.
Siamo entrati nell'Euro, dopo aver tagliato le spese per investimenti
pubblici, che pertanto sono i più bassi d'Europa. Abbiamo davanti
una partita che riguarda l'intero sistema Paese.
Francesco Forte
Economista