STORIA DI UN LUNGO CAMMINO




Federico Ranieri



Il 20 e il 21 ottobre 1972 i Capi di Stato e di Governo della Comunità tennero una Conferenza al vertice a Parigi, al termine della quale proclamarono solennemente la decisione di arrivare ad un'unione monetaria entro dieci anni.
La crisi finanziaria americana seguita alla guerra nel Vietnam aveva da poco portato alla fine degli accordi di Bretton Woods che, con il dollaro agganciato all'oro e con le altre valute agganciate al dollaro, avevano garantito per decenni una grande stabilità monetaria. In marzo, a Basilea, si era raggiunta un'intesa per la creazione di un "Serpente monetario" ancorato al dollaro, in cui ogni valuta europea poteva oscillare del 2,25 per cento attorno alla moneta americana.
La decisione annunciata nella capitale francese di arrivare "al più tardi nel dicembre 1981" a stabilire "tassi di cambio fissi e irrevocabili" si basava in buona parte sul piano presentato due anni prima da Pierre Werner, capo del governo lussemburghese, che prevedeva una fase di armonizzazione delle politiche di bilancio seguita dall'unione monetaria vera e propria, basata però non su una moneta unica, ma su tassi di cambio fissi.
Fu un disastro. Pochi mesi dopo il vertice parigino, lo shock petrolifero e una nuova tempesta valutaria con al centro il dollaro seppellirono definitivamente ogni speranza di un nuovo ordine valutario. Il "Serpente" europeo dapprima si sganciò dal dollaro, e in seguito saltò del tutto. Sarebbe ricomparso, sotto altra forma e con altro nome, lo Sme, Sistema monetario europeo, solo nel 1979.
L'idea di un'unione monetaria europea, dunque, per quanto ci appaia oggi rivoluzionaria, non è affatto nuova. Anche senza contare i tentativi del secolo scorso, come l'Unione monetaria latina o quella scandinava, l'ipotesi di una stabilizzazione delle valute percorre tutta la storia del Vecchio Continente nel dopoguerra, a partire dall'Unione europea dei pagamenti (Uep), del 1950, per arrivare all'Accordo monetario europeo (Ame), del 1958, oppure alla Conferenza europea dell'Aja, nel 1969, che già parlava di unione monetaria.
Anche in questo caso la storia dell'Europa procede con moto sussultorio, fatto di vertiginose fughe in avanti e di precipitosi passi indietro, ma senza allontanarsi mai troppo o definitivamente da alcuni temi conduttori di fondo.
Quello che è cambiato profondamente, nel corso dei decenni, non è stato tanto l'obiettivo finale, quanto la filosofia che lo ha sotteso.
I primi tentativi di un'unione monetaria nascevano da una concezione molto volontaristica e da una scuola di pensiero sostanzialmente "monetarista", secondo la quale bastavano la volontà politica di creare una moneta unica e la costituzione di congrue riserve per raggiungere il risultato.
Mentre l'Euro che ha visto la luce è il prodotto del "Piano Delors", un progetto che vede l'unione monetaria come una funzione di una futura unione politica, e di una filosofia "economicista", secondo cui la moneta unica era possibile solo come risultato di una profonda armonizzazione delle politiche economiche e di bilancio.
In molte delle delegazioni che parteciparono alla preparazione del Trattato di Maastricht, e in particolare in quella tedesca, era forte la spinta verso la costruzione di un'Europa soprannazionale, in cui la moneta unica sarebbe stata uno degli aspetti della sovranità condivisa.
Questa visione non superò le prove del lungo negoziato e soprattutto della durissima resistenza britannica (erano gli anni di Margaret Thatcher) a qualsiasi approfondimento istituzionale dell'integrazione continentale. L'impegno alla costruzione dell'unione monetaria sopravvisse così isolato, sganciato dal progetto di più vasto respiro che lo aveva suggerito.
Formalmente, venne giustificato come il necessario completamento del mercato unico. Ma sotto sotto, nella mente dei padri fondatori, restava la speranza che la rinuncia alla sovranità monetaria avrebbe inevitabilmente costretto gli Stati nazionali a una progressiva cessione di poteri in favore delle istituzioni comuni.
Da allora, molte cose sono cambiate, il Trattato di Maastricht ha incontrato enormi difficoltà di accettazione da parte dell'opinione pubblica. Gli egoismi nazionali hanno apparentemente ripreso il sopravvento sulla spinta federalista. Le tempeste valutarie del '92 e del '93 hanno messo definitivamente in crisi la vecchia concezione dirigistica dello Sme. Il Trattato di Amsterdam, nel giugno '98, ha segnato il punto più basso nella volontà comune di approfondimento dell'integrazione.
E tuttavia, il progetto della moneta unica non venne abbandonato. Il percorso doloroso e difficile della convergenza economica e del risanamento è stato seguito da tutti i Paesi con caparbia ostinazione, indipendentemente dalle alternanze di governo che si susseguivano nelle diverse capitali europee, sfidando una congiuntura economica sfavorevole per buona parte degli anni Novanta e un tasso di disoccupazione angosciante.
Le sempre più esigenti richieste tedesche di garanzie preventive sul futuro governo dell'economia sono state accettate senza fiatare. Nessuno parla più di federalismo o di Europa soprannazionale. Ma la lunga marcia della convergenza che ha reso possibile l'Euro rappresenta, di fatto, la più importante delega di poteri e di sovranità nella storia recente del continente europeo. Un evento che non mancherà di avere conseguenze.
L'intuizione di Jacques Delors e degli altri padri di Maastricht, per quanto azzardata, alla fine si è rivelata vincente. La moneta unica, vista come un mezzo e non come un fine, ha avvicinato i governi europei molto più di quanto fosse lecito supporre. Nel Vecchio Continente si è creato di fatto un patrimonio di interessi comuni che deve ancora trovare le forme politiche ed istituzionali del proprio autogoverno. Ma questa crediamo che sarà, quasi inevitabilmente, la storia del dopo-Euro e del prossimo secolo.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000