PRE-POST-EURO




Franco Bonati, Vanni Plateroti



Chi ha festeggiato anche rumorosamente l'ingresso dell'Italia nell'Euro deve avere oggi una forte consapevolezza della responsabilità che è chiamato ad assumersi per costruire, nella stabilità monetaria e nel mantenimento degli equilibri finanziari, condizioni di sviluppo, di occupazione e di benessere. E su questo è stata detta una grande verità: ora l'Italia ha bisogno di sette anni di solido e duraturo sviluppo. Questa consapevolezza e questa prospettiva non sono frutto spontaneo della ripresa del ciclo economico, né della ritrovata stabilità monetaria e finanziaria, ma di una responsabile e lungimirante "costruzione della politica".
In questo senso, il Documento di programmazione economica deve assumere, al di là degli stessi numeri, un ruolo "strategico" di grandissimo rilievo. Esso infatti deve assumersi due compiti precisi: uno esterno, verso gli altri partner europei; e uno interno, verso noi stessi. Sul fronte europeo, infatti, deve garantire agli altri compagni di strada che la stabilità finanziaria italiana diventi un fatto duraturo e permanente, rispettando il patto di stabilità. In questo quadro deve garantire il disinnesco della mina del nostro elevato debito pubblico.
E qui va fatta chiarezza. L'elevato debito pubblico è, e resterà, un nostro serio problema interno. La sconfitta dell'inflazione, la ritrovata stabilità finanziaria, l'ingresso nell'Euro ci hanno consentito di vedere rapidamente ridursi i tassi e, di conseguenza, ci permetteranno di ridurre la spesa pubblica per interessi sotto i 150 mila miliardi, sempre che le condizioni internazionali non volgano al peggio nei prossimi anni. Ciò significa che, comunque, con un alto debito pubblico continueremo ad essere fortemente vincolati dalle spese per interessi, che continueranno a chiudere spazi agli investimenti e alla necessaria, strutturale, progressiva riduzione della pressione fiscale e contributiva. Ecco allora che la questione vera sul rientro dal debito pubblico va posta in termini diversi da quanto finora è apparso.


Qualcuno ha infatti tentato di dire che chi si colloca sul fronte della gradualità del rientro del debito pubblico è "buono", non chiede ulteriori sacrifici e vuole la "fase due" dello sviluppo e dell'occupazione. Al contrario, chi invece si colloca su un fronte di maggiore rigore è "cattivo", e vuole insistere quasi sadicamente con i sacrifici. La verità è invece che chi propone il gradualismo esasperato allontana nel tempo sviluppo e occupazione; chi invece propone tempi ragionevolmente accelerati indica la prospettiva di liberarci il più presto possibile di quel giogo. Si tratta allora di decidere come diluire nel tempo i sacrifici per ottenere in tempi più brevi i vantaggi di un bilancio pubblico liberato dal gran peso degli interessi, e quindi in grado di dare sul serio sviluppo e occupazione, con maggiori investimenti e minori tasse.
Qui si colloca allora l'equivoco sulla possibilità che, raggiunta la meta dell'Euro, d'ora in poi possiamo permetterci manovre leggere. Da questo punto di vista, i primi dati sembrano confermare l'equivoco. Nell'epoca del dopo-Euro, infatti, è necessario cambiare il modo di "leggere" le manovre di politica economica rispetto all'epoca del pre-Euro. Se rivolgiamo lo sguardo all'indietro, miriamo cioè esclusivamente ai saldi finanziari come era necessario fare per "entrare" nell'Euro, è evidente che, avendo compiuto grandi sforzi negli anni passati, adesso possiamo mantenere quegli equilibri finanziari, confermando un basso deficit con poche migliaia di miliardi di lire di intervento. Nella logica del pre-Euro questo poteva bastare. Ciò che però non pare ben compreso è che quei numeri, nella logica del post-Euro, sono estremamente modesti e non garantiscono, nei tempi e nelle quantità, quelle modifiche strutturali del bilancio pubblico capaci di rendere la programmazione economica e finanziaria un vero strumento di propulsione della crescita, di volano dell'occupazione, di più giusta e più equa distribuzione del reddito tra le generazioni. Se allora oggi dobbiamo volgere la testa in avanti e guardare al futuro, pur nella ragionevole soddisfazione che questo futuro lo possiamo guardare soprattutto perché siamo riusciti ad agganciare l'Euro, dobbiamo anche svegliarci e aprire gli occhi molto bene. Ai primi di maggio, infatti, non si è chiusa una partita vincente. Se ne è aperta una che è ancora tutta da giocare.


Su questa più corretta lettura della nostra situazione, possiamo porci alcune serie perplessità, dimostrando ancora una volta con spirito realistico che quel che la programmazione è il massimo possibile che si poteva fare. A ben vedere, la manovra sul 1999 appare certamente "leggera" come entità di contenimento del deficit. Purtroppo, però, appare anche "leggera" come incidenza strutturale sui livelli e sulla composizione delle spese e delle entrate pubbliche. Si punta infatti quasi tutto sul risparmio di spesa dovuto alla riduzione degli interessi. Si aumentano le entrate di 4.500 miliardi unificando la riscossione di imposte e contributi e condonando contributi per far emergere attività in nero. Si tagliano per 9.000 miliardi i trasferimenti (frenando in parte investimenti) a ferrovie, poste, amministrazioni pubbliche, vincolando anche l'indebitamento delle Regioni e delle Usl. Si dice poi che verranno aumentati gli investimenti pubblici per 5.500 miliardi. Tutto questo è a fronte di una spesa pubblica totale di oltre un milione di miliardi di lire e di un prelievo totale appena sotto il milione di miliardi di lire. Può certo essere una prima importante goccia nel mare, ma sempre una goccia è.
Ciò significa che, di fatto, stiamo "programmando" una spesa pubblica che rimarrà attorno al 50 per cento del Prodotto interno lordo, e un prelievo pubblico che rimarrà un po' sotto il 50 per cento dello stesso Prodotto interno lordo. Ma allora questo va posto a confronto con la sacrosanta verità di cui parlavamo, e cioè che adesso l'Italia ha bisogno di sette anni di crescita al 3 per cento e più, per poter sul serio aggredire e sconfiggere la disoccupazione, aggredire e sconfiggere le sacche di sottosviluppo e di povertà del nostro Paese, entrambe concentrate nel Mezzogiorno, e per poter infine attrezzare e modernizzare l'intero nostro sistema infrastrutturale procedendo ad una rapida trasformazione di tutto l'apparato della pubblica amministrazione.
Per tutto questo basta la discesa dei tassi? In realtà, si tratta di porci tutti una domanda di fondo: siamo entrati nell'Euro per poter "salvare e conservare" il vecchio apparato pubblico, il vecchio apparato produttivo, le vecchie certezze e protezioni che appaiono sempre più corporative e penalizzanti per le nuove generazioni; oppure siamo entrati nella moneta unica come condizione necessaria sulla quale basare la nostra volontà e capacità di riformare e di cambiare in meglio il Paese?
Ecco le ragioni per le quali nel dopo-Euro le sfide continuano e non finiscono, e anzi assumono un contenuto strutturale più forte e richiedono un confronto politico ben più alto e trasparente. E su questo piano ciò che è successo e continua ad accadere alla Borsa di Milano è del tutto emblematico.
Noi italiani risparmiamo ogni anno circa 250 mila miliardi di lire. Fino a un paio di anni fa questo risparmio veniva attirato e in grandissima parte assorbito dai circa 170 mila miliardi di deficit pubblico. Ora, con un deficit che si attesta sotto i 60 mila miliardi, significa che almeno 100 mila miliardi di risparmio all'anno debbono andarsi a trovare un'altra collocazione. E' chiaramente un bene per tutti che i risparmiatori "domandino" di investire nel capitale di rischio delle imprese. D'altro canto, però, se I' "offerta" di azioni rimane limitata a quelle poche imprese quotate a Milano, è evidente che faccia esplodere i prezzi oltre ogni ragionevole limite di redditività reali di quelle imprese e, in prospettiva, rischi poi di rivolgersi all'estero su mercati ben più ampi e ben più solidi del nostro.
Ecco allora un serissimo problema strutturale: procedere a tappe forzate, in questo momento favorevole, alle privatizzazioni (se avessimo fatto di più già negli ultimi due anni, avremmo dato ai risparmiatori più offerta dei titoli e forse avremmo meglio calmierato il mercato); agevolare in tutti i modi l'entrata in Borsa di nuove imprese, e incentivare la raccolta di nuovo capitale di rischio da parte di quelle che già ci sono.
Ma qui va posto l'altro grande nodo strutturale del nostro Paese, che al 95 per cento è rappresentato da piccole e medie imprese che per le loro dimensioni non potranno mai singolarmente collocarsi in Borsa. Da qui l'esigenza di inventare e realizzare prodotti finanziari che canalizzino capitale di rischio verso questo grande e fitto tessuto connettivo del nostro sistema produttivo.
In sintesi, quindi, guardando "indietro", la manovra "leggera" può in un certo senso andare anche bene; ma guardando avanti rischia di porre obiettivi di sviluppo e di occupazione che sono giusti, sacrosanti, ma che si trovano di fronte a strumenti troppo timidi, troppo lenti, troppo spalmati nel tempo ed eccessivamente affidati agli automatismi della riduzione dei tassi di interesse, che un diverso vento internazionale potrebbe persino far invertire.
Certamente, questo può anche essere il massimo possibile "compatibile" con le condizioni politiche. Dobbiamo però chiederci se comunque questo massimo politicamente possibile non rischi di stare sotto il minimo economicamente necessario e, in prospettiva, sotto il minimo socialmente sostenibile, visti la grave disoccupazione giovanile, l'insostenibile degrado economico e sociale di parti importanti del Sud e la crescente insofferenza del Nord.


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