Buongiorno, Europa!




Leber Soligo, Franco Di Salvo, Karl F. Liethner
coll.: Carlo Orsini, Franco Bonati, Mabel



Polemiche, referendum, discussioni, contestazioni. Nonostante tutto, Maastricht è andato avanti come un rullo compressore, ha portato diritto all'Unione europea, oltre che all'accordo di Schengen, e promette per il futuro tanti miglioramenti ancora. Nasce un'Europa razionale prima ancora che democratica; la quale, con difetti e ombre, è pur sempre la cosa migliore che il Vecchio Continente abbia espresso nella seconda metà di questo secolo. Cerchiamo di capire, da angolazioni in parte insolite, come è fatto questo nuovo grande attore della scena mondiale.
Nel campionato della crescita, l'Unione europea ha ormai superato il Giappone, e questa è una consolazione per molti europei, i quali sono culturalmente nazionalisti e pronti a trasferire il proprio nazionalismo dalla bandiera nazionale a quella con stelle d'oro della nascente aggregazione politica. Ponendo l'ipotetica linea del "via" al 1990, a partire dal 1994, e tranne un brevissimo periodo del 1996 i valori europei risultano più alti di quelli giapponesi (Fig. 1).
Complessivamente, nella parte finora trascorsa del decennio, la vecchia Europa ha totalizzato circa un punto e mezzo di sviluppo in più dei temutissimi nipponici; e guarda con qualche barlume di maligna soddisfazione alla lunga serie di scandali, arresti, errori di politica economica che mettono in luce un'economia del Sol Levante ingessata così come era (e solo in parte ancora è) l'economia europea.
La soddisfazione si attenua subito se il confronto viene effettuato con gli Stati Uniti. Rispetto alla Repubblica Stellata, l'Unione europea ha perso, nello stesso periodo, cinque punti percentuali di crescita, equivalenti almeno a 5-7 milioni di disoccupati che non ci sarebbero se si fossero raggiunti i livelli americani. Il contrasto sull'andamento dell'occupazione è indicato nella Fig. 2, e non potrebbe essere più stridente.
E' probabilmente vero, come sostiene qualcuno, che i dati europei e quelli americani non siano esattamente comparabili e che a un'Europa con più disoccupati si contrappone un Nordamerica più violento e con maggiori e crescenti disparità sociali. I molti disoccupati europei, però, a differenza di quelli statunitensi, sono sempre più spesso di lunga durata e si configurano come una "sottoclasse" dalle scarse speranze e dai molti pericoli per la società in genere. L'Europa alla quale diamo con molto entusiasmo il buongiorno è un infante ancora fragile, il cui primo, vero "test" sarà precisamente la capacità di ridurre la disoccupazione.
Occupazione deve far rima con Unione europea, e in particolare con Unione monetaria. Detto molto brutalmente: se l'Euro non riuscirà a far scendere il tasso di disoccupazione verso livelli anglo-americani, ossia dall'attuale 10- 11 verso il 5-6%, non scommettiamo sul fatto che la nuova moneta possa raggiungere l'alba del 2010. Il Cancelliere Kohl ha dovuto ammettere qualche mese fa di non poter rispettare la promessa fatta ai tedeschi di ridurre la disoccupazione del suo Paese della metà entro il Duemila. E' necessario che i nuovi leader europei si impegnino con promesse analoghe spostate in là nel tempo solo di qualche anno; altrimenti, come è ben possibile che succeda al grande uomo politico tedesco, saranno spazzati via. Il problema è che l'Unione potrebbe essere spazzata con loro.
La riduzione della disoccupazione però non basta: l'Europa della moneta unica vivrà se saprà ridurre i divari territoriali, realizzare quella "coesione" che è entrata nel vocabolario standard dei burocrati di Bruxelles.
La Fig. 3 mostra che la coesione interna è un problema grave anzitutto in Germania (a seguito dell'incorporazione dei Länder orientali), ma anche nella gran parte dei Paesi del "nucleo duro", dove la regione più ricca presenta un reddito per abitante che è più che doppio rispetto a quello della regione più povera. Solo i Paesi nordici e, in parte, Portogallo e Grecia presentano situazioni leggermente migliori.

Le contraddizioni interne saranno rese più gravose dalla moneta unica che ridurrà il potere degli Stati nazionali e tenderà ad acuire i divari, richiedendo un'intensa politica di redistribuzione delle risorse comunitarie. A tutto ciò occorre aggiungere i divari tra Paesi: l'Attica, cioè la regione più ricca della Grecia, ha un reddito inferiore al Flevoland, la regione più povera dei Paesi Bassi.
Se l'Euro dovesse diventare la moneta delle regioni ricche, prepariamoci a una fortissima tensione tra Paesi membri, oltre che interna a ciascuno dei Paesi membri, di cui i contrasti sui fondi strutturali sono solo una prima, timidissima avvisaglia. E non dimentichiamo che è prossimo l'allargamento dell'Unione verso Est, ossia verso alcuni Paesi ex comunisti, che hanno ancora standard di vita notevolmente inferiori a quelli occidentali. Insomma, o la coesione europea si farà davvero, oppure tutto è destinato ad andare in pezzi.
La Fig. 4 aiuta a comprendere che cosa c'è davvero alla base della debolezza europea nei confronti degli americani, perché l'Europa non riesce a creare occupazione e sviluppo in quantità sufficiente. Fatti pari a 100 gli investimenti in impianti e macchinari del 1990, quelli statunitensi hanno superato ampiamente quota 150 nel 1997, mentre quelli europei non raggiungono ancora quota 120.
Nell'Europa dell'Euro, in altre parole, non basta redistribuire, occorre creare ricchezza. E la ricchezza nel mondo d'oggi non si crea con pesanti interventi pubblici, ma piuttosto governando lo sviluppo ordinato dei mercati, correggendone le tentazioni squilibranti e lasciandoli poi liberi di prendere il corso che vogliono. L'Europa ha fatto molto in questo senso e dal 1914 i mercati europei non sono stati mai così liberi. Ora la palla è nel campo delle imprese. In questo senso, buona parte del destino dell'Europa è in mano agli europei.
E' necessario, per dirla con una sola parola, che la struttura della crescita europea assomigli di più a quella degli Stati Uniti, mentre ora, analizzando i dati disponibili più recenti, se ne scorge il marcato contrasto (Fig. 5).
Il contributo dei consumi alla crescita del prodotto (una crescita che negli Usa è stata superiore di oltre un terzo rispetto a quella europea) è all'incirca analogo. Negli Stati Uniti, però, la percentuale del contributo derivante dagli investimenti è quasi doppia rispetto a quella europea (ad essa si aggiunge, per motivi ciclici, una forte componente di accumulazione di scorte). Per contro, l'Europa deve contare su una forte componente di domanda estera, il che, in definitiva, significa che una parte notevole di quello che produce non va a beneficio diretto degli europei, ma dell'estero.
L'Euro dovrà contribuire proprio a questo: l'uso della moneta unica nelle transazioni internazionali dovrebbe, fra le altre cose, ridurre l'ansia di esportare e liberare risorse per uso interno. E così, indirettamente, rendere anche più agevole la soluzione dei due problemi cruciali, la riduzione della disoccupazione e dei divari territoriali.


Qual è, in questo quadro, la situazione dell'Italia? Dopo il difficile "passaggio" dei parametri di Maastricht, è ora la volta del "patto di stabilità". Il patto significa sostanzialmente che, anche se migliorano i conti pubblici, il governo non avrà molti soldi da spendere per stimolare l'economia, perché dovrà perseguire prima di tutto l'obiettivo di ridurre il debito pubblico.
Come fare, allora, per venire incontro alla fame di lavoro nel Mezzogiorno, che è giunta ad esprimersi in forme di Intifada? Come fare per rispondere all'implicita domanda di lavoro che deriva dalle agitazioni degli "squatters" di Torino? Come fare per finanziare il rinnovo delle infrastrutture pubbliche che, grazie alle economie del Tesoro, stanno cadendo a pezzi?
Le strade aperte sono sostanzialmente due: la prima consiste in una migliore utilizzazione dei fondi europei, correggendo l'assurdità per cui l'Italia versa all'Unione sensibilmente più di quanto riceve. La seconda implica invece la riduzione di vincoli e restrizioni che limitano l'attività economica italiana e l'ampliamento dell'area dei privati.
Dai nostri calcoli sommari, le "vacche grasse" che ci sono state promesse si materializzeranno se il Paese riuscirà a realizzare una crescita del prodotto interno lordo reale del 3% all'anno per un numero alto (cinque-dieci) di anni. Al "3 per cento" c'è spazio per un aumento di occupazione di 200-300 mila unità all'anno e per una riduzione della pressione fiscale di circa un punto percentuale l'anno, senza creare pressioni inflazionistiche. Per usare un'espressione cara agli analisti finanziari, è questo, secondo noi, il vero benchmark dell'economia.
Stabiliti i tassi di cambio delle singole monete nazionali nei confronti dell'Euro, ha avuto inizio per l'Europa e per il suo sistema valutario in rapidissima transizione un lungo periodo di passione. L'intero, grandioso progetto europeo sarà, infatti, ampiamente vulnerabile fino all'entrata in funzione della Banca centrale europea (Bce) e potrebbe essere attaccato e fatto fallire in maniera pressoché improvvisa.
Vulnerabile a che cosa? A un'azione speculativa da parte di "qualcuno" che scommettesse in modo deciso proprio contro l'Euro e facesse leva sulle debolezze dell'Europa.
Abbastanza realisticamente, l'attacco all'Euro potrebbe avvenire tra novembre e Natale, potrebbe tecnicamente essere condotto da parte di un pool di banche svizzere e di Hong Kong, operanti su indicazione di alcune "grandi potenze" finanziarie delle quali si parla pochissimo (il sultano del Brunei, per esempio). Potrebbe assumere, sempre per fare un esempio plausibile, la forma di una serie imponente e mirata di operazioni futures con vendite di franchi francesi, accompagnata da operazioni di segno contrario sul marco o sul fiorino olandese.
E' questo lo scenario delineato da Paul Erdman, un esperto finanziario che ha lasciato la professione per quella, ancora più redditizia, di scrittore di documentatissimi romanzi di "fantaeconomia", cioè di economia verosimile. Nella sua ultima fatica, anticipata in parte dal Financial Times, Erdman immagina un mondo finanziario asiatico umiliato e provato dalla crisi di fine '97, che sogna una riscossa e ha nel mirino precisamente la parità dell'Euro. L'azione, nel lavoro dell'Erdman, ha inizio sulla sterlina irlandese, una moneta dal flottante limitato e quindi relativamente debole e per di più improvvidamente rivalutata. La forte caduta della sterlina irlandese obbliga l'Unione europea ad escluderla "temporaneamente", secondo l'ovattato gergo comunitario, dal Sistema monetario europeo, pochi giorni prima del varo dell'Euro, creando incertezza e nervosismo.
Il secondo stadio comporta il ben più importante attacco alla Francia, dove si ipotizza una pessima situazione politica interna, con fortissime divisioni sulle 35 ore. L'attacco, alla fine, ha successo, sempre secondo l'autore: la Bundesbank non ha il coraggio di impiegare più di tanto quelle che sono ancora riserve valutarie tedesche per sostenere il franco francese, che è ancora formalmente una moneta straniera. E tutto salta.
Le trame dei libri di Erdman sono spesso destinate a restare nel regno della fantasia o dell'incubo, ma sono sufficientemente realistiche, fanno riflettere e debbono essere analizzate con serietà. Anche perché si può chiudere il romanzo per constatare che la realtà presenta alcuni elementi che confermano che ci si trova di fronte a un problema di fondo, e non ad una semplice fantasia. L'approssimarsi dell'Euro è coinciso, infatti, col forte apprezzamento del dollaro (e della sterlina). Queste monete sono salite, in buona parte, per una fuga dal marco, indebolito dal via libera all'Euro, accettato a fatica dalla Bundesbank, e per la crisi giapponese. I Paesi petroliferi sono stati in gravi difficoltà, e con loro tutti i produttori di materie prime, alle prese con prezzi che, in termini reali, sono tornati a livelli precedenti a quelli della crisi petrolifera. Questi Paesi potrebbero dunque essere tentati dalla prospettiva di una speculazione vincente sul fronte valutario.
In Europa, poi, si avvicina il "periodo grigio" dei mercati. Alla moneta europea mancherà in questo periodo la capacità di intervento garantita da una Banca centrale; ci saranno ancora, sia pure ampiamente coordinate tra loro ma in grado di mantenere la propria indipendenza, undici Banche centrali nelle quali già comincia ad affiorare il rimpianto per la perdita di potere e di autonomia, a beneficio del nuovo Istituto di Francoforte. Gli eventuali attaccanti avranno, dal canto loro, il privilegio di poter sparare munizioni senza alcun rischio perché, una volta fissati i tassi di cambio, il denaro "a pronti" è valso quanto quello "a termine". E con l'introduzione effettiva dell'Euro, al 31 dicembre, trovarsi con marchi, lire oppure franchi francesi o belgi sarà la stessa cosa.
Si tratta, insomma, di una situazione ideale per una guerriglia monetaria, in cui un cecchino può sparare a un avversario che attraversa una radura allo scoperto, senza protezione. L'impressione è rafforzata dalle situazioni di instabilità politica di vari Paesi europei, e, in Italia, dall'avvicinamento del "semestre bianco", durante il quale il Capo dello Stato non può sciogliere le Camere. A rendere le cose più difficili c'è l'ottima salute dell'economia americana, che dal 1991 viaggia sui binari della crescita. La disoccupazione è ai minimi da 24 anni, l'inflazione non è stata così bassa da trent'anni a questa parte, la Borsa ha creato più ricchezza negli ultimi tre anni che nei precedenti tre decenni; il deficit del governo federale è sceso del 5% sul prodotto interno lordo a zero. Secondo la versione "ufficiale", a fine '98 si registrerà un rallentamento della ripresa americana e una maggiore espansione di quella europea. Il dollaro si indebolirà e l'Euro prenderà per gradi il posto che gli spetta tra le monete di riserva mondiali.
Il rischio, però, esiste, (e non si può certo escludere che qualcuno nel mondo finanziario americano veda con particolare sfavore l'approssimarsi di una moneta che potrebbe rappresentare un temibile concorrente per il dollaro). Per evitarlo, la strada maestra è una sola: occorre anticipare i tempi di questa lunga transizione dalle monete nazionali alla moneta europea. Mentre ciò non è possibile sul piano tecnico dell'uso concreto del nuovo mezzo di pagamento o della tenuta della contabilità, con la gran parte delle imprese europee addirittura in ritardo rispetto ai tempi previsti, la cosa diventa probabilmente realizzabile sul piano squisitamente valutario.
In conclusione: anche se formalmente esisteranno ancora marchi e franchi, lire e fiorini, ci deve essere il più presto possibile, e in anticipo sulla stessa data prevista, un solo dito sul grilletto europeo del mercato dei cambi, e non undici dita timorose, titolari, ancora per poco, di undici interessi diversi. Altrimenti, è reale il pericolo che si debba scrivere: Addio, Europa!


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