EUROLAND




Carlo Sartori, Riccardo D'Arco



Euroland, oppure, se si preferisce, Eurolandia: così il quotidiano inglese Financial Times ha deciso di chiamare la nuova "Cosa" dell'economia mondiale nata con l'Unione monetaria europea. Non si tratta (ancora) di un Paese, ma rappresenta già molto di più di un puro e semplice accordo monetario tra Paesi. E' in realtà un pianeta sconosciuto, la cui esplorazione, per quanto sommaria, svela risultati sorprendenti.
Dimensioni economiche. Eurolandia è un colosso dell'economia mondiale. Il peso può essere calcolato in vari modi, ma complessivamente poco meno di un quarto di ciò che si produce nell'intero pianeta proviene da questo angolo di mondo che conta circa 290 milioni di abitanti, un ventesimo degli uomini presenti sulla Terra. Ciò significa che Eurolandia "pesa" all'incirca quanto Giappone, Cina e "Tigri asiatiche" messi assieme e solo un po' meno degli Stati Uniti. Mediamente, i suoi abitanti sono un po' meno ricchi dei nordamericani, ma il reddito di Eurolandia è distribuito in modo più uniforme e le punte di povertà sono assai meno acute, anche grazie ai meccanismi dello "Stato sociale".


A un peso produttivo così grande si accompagna un peso finanziario assai meno importante. La capitalizzazione di Borsa delle imprese europee è pari ad appena un sesto di quella delle imprese degli Stati Uniti, appena un po' superiore a quella di un Giappone colpito da una crisi piuttosto grave. Londra e Zurigo, due delle piazze finanziarie più importanti del Vecchio Continente, non appartengono a Eurolandia, la quale può contare su due mercati azionari di prima grandezza, come Francoforte e Parigi, e almeno su tre di dimensioni medie, come Amsterdam, Milano e Madrid. Più o meno rapidamente, questi centri unificheranno le procedure e lavoreranno in sintonia, ma la sfida con Londra per il primato delle grandi operazioni è tutt'altro che vinta.
Verso il mercato. Dietro alla finanza c'è l'economia reale, e questa sta subendo una grandiosa spinta verso la liberalizzazione e il mercato. Negli ultimi anni sono stati liberalizzati - o si apprestano ad esserlo nel prossimo futuro - settori che vanno dalle assicurazioni alle telecomunicazioni.
Gli Stati nazionali, compresa, negli ultimi tempi, l'Italia, hanno ridotto o annullato la loro presenza diretta in compagnie petrolifere, società elettriche e linee aeree, e negli ultimissimi tempi sono uscite, o stanno uscendo, dall'orbita pubblica anche attività per le quali ciò era una volta impensabile, come le poste olandesi o la Borsa italiana.
In Eurolandia non si privatizza "all'inglese", vale a dire vendendo genericamente sul mercato, ma si cerca di solito un nucleo duro di azionisti stabili. Esiste così una via europea continentale al capitalismo di mercato, in cui talora gli Stati non rinunciano all'ultima parola sulle decisioni strategiche. Mantengono magari una sola azione, ma è un'azione "d'oro", la cosiddetta golden share. Il tempo solo potrà dire se questo sistema sia più efficiente di quello anglo-americano, che comporta una vendita senza tanti complimenti.
I mercati azionari in Eurolandia si gonfiano non solo perché vi si collocano azioni di grandi imprese pubbliche, ma anche perché cominciano ad accedervi imprese private talora di dimensioni piccolissime. In questo, però, Eurolandia, anche se di gran lunga avanti rispetto ai Paesi asiatici, è in forte ritardo rispetto agli Stati Uniti, dove chiunque abbia un progetto imprenditoriale con qualche possibilità di riuscita trova facilmente i capitali necessari per realizzarlo. Ritardi di questo genere dovranno essere inevitabilmente colmati.
La produzione. Eurolandia produce letteralmente ogni ben di Dio. Provengono da Eurolandia, e soprattutto dalla Francia e dall'Italia, i più raffinati prodotti di lusso, i cibi più succulenti, i vestiti più eleganti del pianeta: e qui è anche localizzata la parte più cospicua del patrimonio artistico mondiale.
Eurolandia, però, è in posizione di forza anche in settori avanzati, come le costruzioni aeronautiche, in cui compete ad armi pari con gli Stati Uniti, nel settore petrolifero, grazie a italiani, francesi e tedeschi, nella chimica, grazie a tedeschi e francesi.
Ha un'importanza mondiale nella farmaceutica e in una vastissima serie di industrie meccaniche. Eccelle nell'editoria, nelle tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni. E', tra le altre cose, il maggiore produttore mondiale di automobili.
Tutto bene, dunque? Non proprio, purtroppo. Ci sono aree vitali in cui Eurolandia è scarsamente presente, a cominciare dal software elettronico dominato dagli Stati Uniti e dai microchips, dove il predominio è americano e giapponese. Appare complessivamente in ritardo nei nuovi materiali e nelle biotecnologie. Sono poi gli Stati Uniti, e non Eurolandia, a dominare i settori strategici delle informazioni, delle comunicazioni, e quelli culturalmente importanti dello spettacolo, della musica, del cinema e dell'istruzione superiore.
Per comunicare tra loro, gli europei di Eurolandia usano sempre più spesso l'inglese, che è per tutti loro una lingua straniera. Il pericolo che Eurolandia diventi una sorta di "museo industriale" ancorato a tecnologie complessivamente antiquate non va sottovalutato, ed è uno dei motivi che hanno portato alla costituzione dell'Euro.
La debolezza culturale. La frammentazione linguistica conduce ad una più marcata debolezza culturale. Come i politici francesi non si stancano di ripetere, gli abitanti di Eurolandia guardano soprattutto spettacoli cinematografici e televisivi di origine americana, o più genericamente anglosassone, leggono in buona misura romanzi americani, ascoltano la musica americana. Il solo ispettore Derrick, cortese, affabile, con addosso l'esperienza e la malinconia della vita, è un prodotto di successo di tradizione europea. Il che, francamente, è poco.
Continente vecchio. Proprio l'ispettore Derrick, del resto, ormai sul punto di andare in pensione, pone l'accento su un'altra caratteristica: Eurolandia ha i capelli grigi. Da un quarto di secolo vi nascono nettamente meno bambini che negli Stati Uniti e certamente ancora meno che in Asia (Giappone escluso).
Italia, Germania e Spagna occupano le prime posizioni in questa classifica delle cicogne inoccupate, con circa dieci nascite ogni mille abitanti, circa i due terzi in meno di quante ne sarebbero necessarie per mantenere stabile il livello della popolazione. Francia e Paesi nordici vanno un po' meglio, ma la tendenza è la stessa: ovunque il numero degli adulti sopra i 65 anni si avvia, più o meno rapidamente, a superare quello dei giovani sotto i 15 anni.
I risultati di questa situazione si riflettono in moltissimi aspetti della vita. Il peso delle pensioni cresce dappertutto e costituisce un carico non indifferente per i bilanci pubblici: assorbe all'incirca un sesto del prodotto nazionale che non è disponibile per altri usi, e soprattutto per gli investimenti.
L'effetto invecchiamento si fa sentire anche in politica, in quanto un elettorato anziano, di destra o di sinistra che sia, ha una forte propensione a non cambiare i meccanismi fondamentali delle ridistribuzioni, e si oppone a riforme radicali del sistema di welfare. Tutto ciò fa sì che Eurolandia sia decorosa e decente, ma anche scarsamente innovativa. E la scarsità dello sviluppo, nettamente inferiore, negli anni Novanta, a quello degli Stati Uniti e di gran parte dell'Asia - escluso il Giappone degli ultimi anni - si riflette nella scarsità dell'occupazione. Tra le aree avanzate, spetta a Eurolandia il poco invidiabile primato della disoccupazione, soprattutto di quella giovanile.
La conclusione di questa sintetica esplorazione del pianeta Eurolandia è che l'osservazione di queste caratteristiche aiuta a capire le ragioni che hanno portato all'Euro. La nuova moneta avrà successo se saprà dare la carica a un continente sufficientemente addormentato, vissuto per decenni sotto l'ombrello difensivo americano e senza prospettive di grandi contatti ad Est.
Una moneta nuova rappresenta ad un tempo una possibilità tecnica e uno stimolo culturale a far cose nuove. Può darsi che Eurolandia ci riesca, e può anche darsi di no. Se non dovesse riuscirci, questo Vecchio Continente, che un secolo fa dominava il mondo, sprofonderà, sia pure lentamente e maestosamente, nella soffitta della Storia.


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