Antonio Pizzuso




Nicola Carducci



Si era da poco risolto il "caso Lampedusa", con buona pace dei critici refrattari,che già se ne profilava un altro, ben più clamoroso:il caso dell'ex alto funzionario del Ministero degli Interni, Antonio Pizzuto, palermitano anch'egli (1893-1976), che, collocato in quiescenza, si rivelava tra i più audaci e geniali scrittori sperimentali di questo secolo. Nel 1959 usciva Signorina Rosina e si apriva un dibattito, destinato a durare a lungo, specialmente tra le pagine della leggendaria rivista di Luciano Anceschi, "Il Verri"; e ne restavano coinvolti autori e tendenze d'oltralpe, da Sarraute a Butor a Robbe-Grillet, dalla école du regard al nouveau roman. Si presumeva di liquidare il romanzo tradizionale nella sua ideologia di fondo e nella sua struttura di superficie, ma insospettiva il vezzo da Roncisvalle e la velleità anche politicamente eversiva; e ne nacque, così, all'interno della pattuglia di punta, la nota scissione, tra chi voleva netta la distinzione tra "politica" e "letteratura" e chi insisteva sulla loro, pur dissimulata, omologazione(1).
Pizzuto si ritrovava nell'occhio del ciclone suo malgrado, essendo da sempre un uomo d'ordine e perciò conservando una intangibile autonomia, da non ignorare e non sottovalutare. A segnalarlo tra i primissimi era stato Montale, senza troppo entusiasmo ma con convinzione; l'anno seguente, su "Il Verri", Luigi Baldacci e Sergio Solmi rompevano gli ormeggi della cautela e della circospezione, Pizzuto incalzando con altri suoi testi narrativi, stilisticamente sempre più spericolati: Si riparano bambole (1960), Ravenna (1962), Paginette (1964), Sinfonia (1966), per limitarci alle prove più rappresentative del suo credo sperimentale (2). Si fu in tanti a inseguire lo scrittore ex questore, di opera in opera, e l'enigma di quella sua "stravagante" scrittura veniva via via disciogliendosi. Ma chi altri poteva spezzare il "nodo gordiano" di quella presenza se non Gianfranco Contini? E lo fece con il memorabile articolo, pubblicato sul "Corriere della Sera" del settembre 1964, all'uscita di Paginette: "Allo scacco matto già inflitto da Carlo Emilio Gadda a quella che, con ispanismo faceto quasi quanto il concetto, si vuole chiamare critica generazionale, si aggiunge ormai la beffa anche più abrupta giocatale da Antonio Pizzuto", scrittore insomma "traumaticamente perfetto, rotondo, catafratto in una maturità che è magistero" (3).
Intervento non meno autorevole, e decisivo per il diagramma della critica successiva, è l'altro di Cesare Segre, apparso su "Strumenti critici" del 1967: "Un fenomeno ormai consueto: nella nostra società letteraria, sono gli outsiders a portare le novità più grosse, le spinte più decisive di rinnovamento o di regresso, comunque di chiarificazione". Se Contini agganciava lo sperimentalismo pizzutiano a quello "scapigliato" otto-novecentesco di Gadda, Segre ne coglieva ben più remote suggestioni nella letteratura espressionistico-dialettale dell'autore della Hypnerotomachia Poliphili, Francesco Colonna (4).

Tra calligrafismo e tardo ermetismo
Sul ceppo di una cultura ben solida, filosofica e letteraria con trasversali innesti giuridici, non tarda a spuntare sin dagli anni trenta una irrequieta vocazione letteraria, che i cumuli di carte e cartigli burocratico-ministeriali non riescono a tenere a freno. Pizzuto la coltiva clandestinamente ma con perseveranza, come a voler "trarre il cervello di muffa" e "sfogare la malignità della sorte" (Machiavelli), che lo ingabbia in una attività pubblica non congeniale. Nel 1938, si decide a pubblicare, pseudonimo, e in pochi esemplari, Sul ponte di Avignone: "un romanzo vero e proprio, arcaico, dialogato", nel quale riesce a "spiccare il volo", ma restando "terra terra", come poi, ammiccando, al tempo della incubazione di Signorina Rosina. In verità, si riscopre sin d'ora "scrittore da laboratorio", il cui testo, sospeso tra calligrafismo e tardo ermetismo, prefigura in Pizzuto "il nostro massimo narratore informale" (5).
Del romanzo tradizionale vi compaiono ancora taluni strumenti, la cui ruggine lo scrittore s'industria di ripulire, non sempre con successo: di tecnica narrativa, di scandaglio psicologico, di angolazione realistica. Non sembra persuaderlo del tutto la lezione di Svevo e Pirandello, ma non osa nemmeno tentare la temerarietà di un James Joyce, in anni di esterofobia e di "restaurazione". Nell'ingresso di una vicenda, di per sé assai tenue (una contorta e fallimentare storia di amore), eventi e situazioni si affastellano in una rincorsa, che vorrebbe essere di "opera aperta" e nella quale le dramatis personae appaiono e dispaiono quali larve, cerebralisticamente sovraccaricate di intenzioni simboliche. Il racconto è in prima persona, ma l'io narrante è l'alter ego di Pizzuto, sicché Sul ponte di Avignone è davvero "un libro di confessiones", come lo definisce Contini, e di "decisiva importanza per la conoscenza di Pizzuto" (6). Volutamente provocatoria la pagina introduttiva: "Non scrivo en artiste. Scrivo per un impulso così complicato che rinuncio ad esaminarlo. Scrivo infine proponendomi che altri non legga. Ma l'avvenire si potrebbe chiamare l'imprevedibile? Per caso che queste pagine dovessero cadere un giorno sotto sguardi estranei farò il seguente avvertimento: non badare troppo ai fatti in ciò che espongo, mai vi fu sì poca voglia di raccontare! Tuttavia, inatteso lettore, per cui non scrivo, tu non mi scorderai facilmente" (7).
Un funzionario meridionale, ammogliato con prole, incontra una giovane donna, malmaritata e separata, e al racconto dei suoi casi se ne intenerisce sino ad innamorarsene; come può, ottempera ai suoi doveri coniugali oltre che economici, clandestinamente avvicendando una dimora all'altra; intanto è venuta al mondo una creatura, cui si concorda di dare il nome propiziatorio di Giovanna ("se interpretata, val come si dice"); e su Giovanna il pover uomo riversa intera la piena del suo sentimento di padre, anche perchè la bambina, così vezzosa e dolce, gli canticchia la melodietta (donde il titolo del romanzo): "Sur le pont d'Avignon tout le monde passe. / Sur le pont d'Avignon tout le monde passera". Questo dongiovanni in pantofole rivive così nella sua immaginazione la beata spensieratezza della propria infanzia. Le pagine del rapporto tra i due sono tra le più schiette e intensamente poetiche. Intanto si affacciano i primi guai per il nostro incauto e intraprendente amatore; la sua doppia vita non sfugge a lungo ai suoi superiori che ne decidono il trasferimento; ma meno ancora può sfuggire alle due donne, che da rivali si riconoscono solidali nell'ac canirsi contro il ribaldo; accanimento che non vale a lenire l'innocente intatto trasporto della piccola Giovanna: "Era veramente la fine. Quei pochi passi nel vicolo sotto lo sguardo di tutti; indi la casetta che mi affascinava sparì" (8). E' un drammetto zeppo di falsi patemi e di grottesche inattendibili ambiguità; anche, o forse anzitutto, per difetto del "fren dell'arte". Gli si deve riconoscere, comunque, il valore dell'incunabolo.

Armamentario teorico e suggestioni francesi
Qualche anno prima della pubblicazione di Signorina Rosina, uscivano su una rivista di filosofia "Note per una nuova estetica": un salvacondotto per il suo revirement. Oltralpe, si guardava a Joyce con emula insistenza, e si affermavano le tecniche e le poetiche del "nouveau roman", con testi che avranno ben presto larga diffusione anche in Italia: da Portrait d'un inconnu di Nathalie Sarraute (con la malleveria di Sartre) a Molloy di Samuel Beckett (con l'avallo di Joyce) a Les Gommes di Alain Robbe-Grillet (con il plauso di Roland Barthes), tutti usciti tra il 1948 e il 1953. Il presunto colpo di grazia al romanzo tradizionale era inferto dalla Sarraute nei saggi raccolti col titolo L'ère du soupçon, e più energicamente da Robbe-Grillet in Pour un nouveau roman (9). L'abbozzo pizzutiano della "nuova estetica" è chiaramente, anche se indirettamente, tributario del dibattito d'oltre confine, con spunti di originalità, dovuti essenzialmente alle idee del suo vecchio maestro di filosofia teoretica, cattedratico a Palermo, Cosmo Guastella: un empirismo assoluto, non alieno ad intrusioni di provenienza esistenzialistico-fenomenologica. E' senza appello il rifiuto delle posizioni neoidealistiche crocio-gentiliane, perchè la natura dell'arte, secondo Guastella e secondo Pizzuto, postula l'attingibilità dell'esperienza, come suo aspetto particolare di fondo, e la conseguente presa totalizzante su di essa. La "comunicatività" del linguaggio artistico fa tutt'uno con la sua "espressività"; commistione che è propria insiste Pizzuto - "della sensibilità estetica musicale del tempo nostro, (che) non è più armonica nè melodica, (ma) essenzialmente ritmica, e più precisamente poliritmica; ed è merito di Strawinskij l'avere avuto per primo l'intuizione di questa nuova tendenza estetica (10).
Sul terreno più specifico della poetica, suscita in noi maggiore interesse la "Lettera all'editore (Scheiwiller)" del 1962, contemporanea a Ravenna, il romanzo che chiude la trilogia della prima stagione letteraria di Pizzuto (con Signorina Rosina e Si riparano bambole); lettera fin troppo perentoria nelle sue istanze applicative: "La realtà nostra come spirito e come esperienza, come res cogitans e come res extensa, è non la connessione ma la coesione, donde la mia tecnica avvologente la narrazione come un tessuto uniforme (…), in cui lo stesso punto fermo è superfluo, non avendone alcun bisogno una tecnica come la mia che procede per scorci e per sfaccettature". L'essenza della prosa pizzutiana, d'ora innanzi, risiede dunque "nel ritmo e nella musicalità" - ribadisce l' autore che avverte: "ecco perchè (…) bisogna leggermi au ralenti (…), perchè il fatto non conta, ed io incomincio da dove il fatto cessa di avere una validità, anche qualche antefatto, che non posso non respingere" (11). Vi si preannuncia la seconda stagione letteraria del nostro scrittore, che ha inizio con Paginette (1964), cui seguono Sinfonia (1966) e Testamento (1969). Nel frattempo rincalzano i "Paragrafi sul raccontare", del 1963, in cui colpisce, fra l'altro, un postulato filosofico traumatizzante: l'antistoricismo assoluto, perchè "la storia è un'esigenza a priori, categorica, inattuale nella realtà storiografica, perchè è una ricerca senza fine che nessun risultato può soddisfare". Ne discende, naturale corollario, che "il fatto è un'astrazione, continuamente trascesa dal nostro bisogno di storia, che può concepirsi come una ricerca della persona nella persona e della vita nella vita"; con la conseguente distinzione, nella poetica pizzutiana tra il "raccontare", che non è altro se non una "rappresentazione di una azione", un inerte "svolgimento di fatti", e il "narrare", in grado di vincere l'assurdo di tradurre l'azione in rappresentazione". Insomma, il racconto (sospetto termine naturalistico) produce "pietrificazione" di persone, eventi, dati psicologici, ed esibisce freddi "documenti"; la narrazione, invece, vivacizza e vivifica nel suo "trainante" continuum ed offre "testimoninnze", diventando in tal modo "sostanza-forma, cioè stile, non più analisi ma sintesi trascendentale, in cui l'azione riprende vita", ed il narrato non tende al "ritratto" bensì alla "risonanza". Tutto ciò, sul piano morfo-sintattico, implica il rigetto dei "tempi determinativi del verbo, in particolare il passato e il trapassato remoto, da sostituire con delle forme infinitive" (12).

La prima stagione letteraria tra elegia ed ironia
Da quanto sin qui chiarito, si deduce la inopportunità esegetica di estrapolare, dai flussi narrativi di Pizzuto compiuti canovacci tematici", giova invece risalirli, per individuare nuclei o filamenti o grumi "testimoniali" della condizione esistenziale, se non proprio dell'Essere (con l'iniziale maiuscola), come spesso puntualizza lo stesso scrittore. E la Musa, come sempre, non può che essere la memoria, domestica, isolana e insieme storica, giocata in una ambiguità suggestiva, in cui si intrecciano reperti di realtà, rivisitati come topos, rimeditati come logos, rivendicati come mito. Intelligenza e moralità sono infatti i fattori gnoseologici della Musa pizzutiana.
Gli scenari ci riportano alla Sicilia della belle époque ed al clima della jeunesse dorée alto borghese tra otto e novecento. Una recherche dunque, che si sviluppa lungo la trilogia (Signorina Rosina, Si riparano bambole e Ravenna), sulla scorta degli epifanici frammenti della memoria, e con l'accumularsi di percezioni e di giudizi in un gioco semiserio di ammiccamenti allegorici. Bibi, Pofi e Foco, dalla emblematica onomatopea, rispettivi protagonisti (nei limiti propri della poetica pizzutiana) delle tre "narrazioni", incarnano altrettanti atteggiamenti mentali di uno stesso personaggio, uno e trino, che domina, sin dal romanzo del '38, nella immaginazione dello scrittore siciliano; atteggiamenti che tradiscono, o l'autocoscienza della propria inettidudine, con Bibi di Signorina Rosina, o il presentimento dello scacco estremo, con Pofi di Si riparano bambole, o la percezione di sé, ormai non più che un rudere di uomo oltre che di scrittore. Perché l'antistoricismo assoluto, che è l'impalcatura filosofica alla base della sua opera letteraria, non può che sfociare nel nichilismo. Vi si affollano anche, come su uno schermo svanente, figure e figurette, sempre, come sappiamo, in prospettiva testimoniale, ora attendibili e ora imprevedibili nella loro funzione scenica, di volta in volta antagonista o consolatoria o surrettizia in relazione alle tre "sagome" centrali. Non stupisce allora che la "signorina Rosina" che dà il titolo al romanzo, non è più che un fantasma innocuo, trasmutabile in mille guise, alla maniera di certi personaggi che trasvolano nella fantasia ariostesca, seducenti sgorbi psicologici; o come la "signora Ava" del romanzo omonimo di Francesco Jovine (13).
Un qualsiasi passo, ricavato dal primo capitolo, è immediatamente orientativo dei toni e dei temi del mondo fantastico del nostro scrittore: "Uscivano appena dalla stazione e già ella con voce stentoria litigava senza guardarlo, senza udire i conduttori di albergo intenti ai compassati richiami. Ogni parola di lui era nettamente troncata.
Ciò delle volte, allorché gli argomenti sono sopraffatti dalla realtà, fa comodo; il poco che si offrirebbe da dire trasfigura in una reticenza a forzata. Ella però la sapeva lunga. Voltasi di botto, in aperta sfida, attese che egli parlasse. A lui non rimase che inghiottire; trasferì la perplessità al destreggiare fra i veicoli, assunse aria delusa; ma tutto invano. Sentiamo, lo incalzava ella, sentiamo. Dunque sei venuto per me. E' vero? Benissimo. Poverino, è venuto per me. Intanto puoi correre a casa tua: è la prima cosa che hai detto. Correre no, ho detto: andare. Ecco, qui ti volevo. Lo confermi perciò. Sì, per la valigia. Te la porto io, questa gran valigia: peserà tre chili. Oh, tre chili, poi. Cento chili, mille chili, va bene? Dalla a me e cammina" (14). E' la schermaglia indiziaria ad apertura di una vicenda, dagli esiti facilmente intuibili, di un rapporto adulterino tra un lui, Bibi, ed una lei, Compiuta, perpetue maschere del variegato campionario maschile e femminile di quotidiana esperienza. Lui è un assistente edile, di scarso rendimento nel suo proprio lavoro, ma dalle goffe arie dell'intellettuale, che filosofeggia sui principi supremi dell'Essere, e quando gli riesce parla di un suo libro, che gli è "costato tanti anni e disinganni". Come un amuleto contro i maligni, ne conserva il voluminoso manoscritto, intitolato Ravenna, che non è nè un "romanzo storico", né una "guida della città"; ma che anzi, a ripensarci bene, di là da ogni ubbia, "è una vera e propria empietà, insulto alla ragione e al buon gusto (...). Sì, peccato di gioventù, lo riconosceva senz'altro" (15). All'inetto Bibi, che tenterà poi senza risultato una cura psicoanalitica, corrisponde contrastivamente la volitiva e risoluta e generosa Compiuta, una modesta stenografa, che alle gragnuole, che riserva anche a lei la vita, reagisce con la ferrea logica del buon senso. E' evidente la contrapposizione che Pizzuto ha inteso esemplificare, tra le fatue elucubrazioni, e vanità letterarie (Bibi), e la "docta ignorantia" della popolana, che non cede ai motivi della delusione e dello sconforto (16).
Si direbbe poi che l'autenticità dei sentimenti radicali del vivere intersoggettivo, Pizzuto voglia riscoprirla e vagheggiarla, in un'atmosfera di favola, nel mondo animale. L'intero capitolo settimo è dedicato alla gattina siamese di nome Camilla: tutto da delibare nella freschezza nativa degli affetti, dei quali non sempre sono capaci le "canne pensanti". Una freschezza che lambisce persino Bibi; e alla morte della gattina, per postumi di parto, un suo allievo privato, Mario, alle prese con traduzioni dal greco, accudisce alla sua sepoltura con pietosa premura: "Due lagrimoni inseguendosi caddero sullo scritto. Mario ebbe un singhiozzo. Suvvia, che ragione di far così. Era una bestiolina, una bestiolina felice, una bestiolina privilegiata. Che le mancò mai? E ancora venivano lì a trovarla. Presto vi sarebbero sbocciati i fiori; col tempo diverrà un fiore lei stessa, la farfalla ne diffonderà il polline: un giorno potrebbe trapassare in una ciliegia, tornar viva". Viene in mente al ragazzo la dottrina pitagorica della metempsicosi (17).
Questo capitolo su Camilla ha davvero - come ha scritto Alfredo Giuliani - "l'andamento quasi strofico di un'ode, di un carme epicedico sulla bestiolina" (18).
In Si riparano bambole, Pofi ripercorre a ritroso il primo cinquantennio di questo secolo, sul filo degli avvenimenti privati e pubblici dello stesso Pizzuto: dall'infanzia palermitana alla pensione romana. L'autobiografismo è però accortamente dissimulato da una vorticosità sintattico-semantica di forte effetto suggestivo; quasi a voler stornare l'eventuale interesse per i "fatti" o "fatterelli", realisticamente recepiti, e dirottarlo invece sulle "astrazioni", ossia sul loro spessore "testimoniale". Un icastico rivolo umoristico, alla maniera del pirandelliano Uno, nessuno e centomila, attraversa le Pagine, compatte come altrettante lasse, per lasciarne trasparire al tempo stesso sobbalzi di angoscia o ripiegamenti autoironici. Il Pofi-Pizzuto si fa testimone del suo e nostro tempo. Non tragga in inganno la dedica alle "dilette Palermo, Erice e Castronovo", luoghi della sua infanzia e adolescenza, in qualche modo felici; perchè il turbinio degli eventi in agguato (fallimenti affettivi, scelte esistenzial-professionali mal sopportate, un indigesto sovrappiù di letteratura, l'uggia della spettacolarità Piccolo-borghese che lo accompagna nei suoi anni maturi) ne cancellerà, irreversibilmente, ogni gratificante ricordo, e il pover uomo si vedrà precocemente invecchiato, e poi recluso, col suo vano bisogno protettivo, in un pensionato dove "si riparano bambole". Il male oscuro di Pofi non è la "la boria di classe" (il nonno, esimio filologo, una madre poetessa, se pure sdolcinata, amicizie di alto rango sociale, simpatie culturali di un Giosuè Carducci e di un Alessandro D'Ancona), ma piuttosto quel suo ostinato rimuginare sogni di gloria letteraria, sempre dileguantisi, e la doppia vita. che ne deriva, di alti funzionario di Stato e di smanioso scrittore (19).
Il manierismo ellittico dello stile aderisce alle semischizofreniche contorsioni di un personaggio dimezzato, con esemplarità di risultati artistici. E di avvisaglie, se ne intravedono per tempo; perchè, pavesianamente, si è da adulti quel che si è stati da fanciulli, e, con la sapienza dell'antica Grecia, "il carattere dell'uomo è il suo destino".
Ecco uno squarcio dell'interno domestico, con il contrappunto di Pofi: "Le pareti erano rivestite di drappo, divani e tappeti, una luce dolce, pesanti riviste lucide, grossi libri ben rilegati e pitture e vasi (…). Contessine sottili, baronesse e marchesi stavano là (…). Egli (Pofi) affondando tra i cuscini sfogliava le pagine forestiere (…). Nel sottovoce saltuario il suo pianto incompreso diede un disagio che i gran singhiozzi trasformarono in muto rincrescimento. Una manina gli fece due tre glaciali carezze, gli altri ignorarono quel dolore e Pofi non sapeva come fuggirre" (20).
Ma forse, in limine vitae, Pofi osa sussurrarsi, tra fiducia e incredulità: "Non omnis moriar"; e ripensa ad un manoscritto, l'ennesimo, dal titolo ultimativo, Testamento, che non a caso si apre col paesaggio di Erice: "Odoranti di salvia i suoi paradisi, in giù dallo scosceso il mare cresputo immobile, terse come stoviglie le strade spirali, ingressi ed imposte chiusi, laddentro cortili dove minuscole lune l'acqua nei profondissimi pozzi in echi, ben scarsa entro cisterna simmetrica, framezzo qualche albero, mura mura convolvoli, secondari usci su candida viuzza tra verdi persiane opposti a quelli maestri" (21).
Ormai, "la scrittura di Pizzuto suggerisce una realtà che travalica l'area descritta" (Contini); e la si riscontra di già in Ravenna, non più che un asettico flatus vocis il nome della città, metafisicamente rievocativo e sornionamente acronico. Tuttavia, da quel "tessuto di farneticamenti", ammesso a mezza bocca da Bibi di Signorina Rosina, e "sotto il velo dello stile contorto e impuro", "lo spirito della rivolta". Contro chi o contro che cosa? Contro la tradizione romanzesca da cui non riesce ancora a liberarsi del tutto? O contro i reticoli esistenziali di una routine d'ufficio che gli depaupera gli slanci creativi? Foco, protagonista di Ravenna, sta a Bibi e a Pofi, come, salvo debite varianti, Zeno Cosini sta ad Alfonso Nitti e ad Emilio Brentani di Italo Svevo. Si è al punto terminale di una parabola (22). L'"area descritta" abbraccia la quotidianità insignificante, al limite della banalità camuffata, dell'entourage che si agita intorno al paziente e incupito Foco, distratto e sgomento "occhio vivente" su un mondo, nel quale si riconosce sempre meno: Malinda, Andrea, Cicì, Nanni e Fufina si susseguono e sovrappongono come in un caleidoscopio dagli effetti visivi sfocati: son vanità "che paion persone"; e Foco, che intanto avverte sempre più insistenti disturbi neuropsichici, conclude i suoi giorni in una clinica, nell'indifferenza generale.
Ma è il modulo prosastico a incuriosire particolarmente il lettore, per cui tutto si risolve in un intenso brusio stilistico, quasi a se stante, ora teso al rovello del contrappunto lessicale e ora abbandonato in intenerimenti nostalgici. La ricerca del preziosismo è tale da precludere ogni possibilità di sviluppo letterario che non sia soltanto orizzontale. Citiamo un brano, almeno: si tratta di una cerimonia nuziale in chiesa: "Dammi il braccio papà. Avanzarono (gli sposi) fra innumerevoli sguardi, l'inno, intuendo i visi più cari, il lucido solenne cappello del suocero. Missa pro sponso et sponsa, l'organo sonava Traumerei, detto Pater noster il sacerdote tornando in cornu Epistolae tolse, fra gli indici indistaccabili dai pollici e i medi, l'esile libro rosso. Voltosi verso i due genuflessi fece super eos le prime orazioni, quelle dedicate alla sposa, ne pervenivano tratti, sit verecundia gravis, pudore venerabilis, doctrinis coelestibus erudita - ella sospirò - it fecunda in sobole, sit porobata et innocens. Dopo l'Ite Missa est disse le altre, li asperse, unico momento intelligibile per tutti col sermoncino alla buona, eccovi imbarcati come in piccola navicella (navicélla, dev'essere meridionale) all'inizio di un viaggio" (23). Le malie joyciane sono fin troppo scoperte, filtrate magari attraverso la mediazione dell'Innomable di Beckett, e, per concludere con la Forni Mizzau, l'importanza di questo esperimento linguistico "nasce dal fatto che l'estrosità e imprevedibilità del linguaggio linguistico-letterario coincide con la sua essenzialità e con un assoluto rigore" (24).
D'ora in avanti i titoli che Pizzuto appone ai suoi testi "narrativi" sono deliberatamente insoliti, amleticamente sfidanti l'intelligenza intuitiva e critica dei suoi selezionati lettori; riduttivi, come a costringerli nei recinti sempre più angusti della filologia pura: Pagelle I (1973), Pagelle II (1975), Giunte e virgole (1976), Ultime e penultime (1978). Ma forse, anche, con la scostante grinta aristocratica del suo Orazio: "Odi profanum vulgus et arceo"; con un grave rischio, tuttavia, per il nostro scrittore: quello della "evacuazione dell'uomo", della sua "defenestrazione" dallo stallo che "solum" è suo, nella tragicommedia del tempo (25).


Cenni Biografici
Nato a Palermo nel 1893, da famiglia di tradizione umanistica e giuridica; giovanissimo, consegue due lauree, in giurisprudenza e in filosofia; entrato nella Pubblica Sicurezza, arriva al grado di questore, coprendo poi l'incarico di vice presidente della Commissione internazionale di polizia criminale di Vienna; compie numerose missioni all'estero, in Europa, negli Stati Uniti e nell'America latina; non ha mai trascurato i suoi interessi letterari che filosofici; ha letto in originale e schedato classici latini e greci; ha tradotto e pubblicato, spesso con poseudonimi, testi filosofici, tra cui La fondazione della metafisica dei costumi di Emanuele Kant; tutt'ora sono inediti tre altri romanzi, composti durante il ventennio fascista; muore a Roma nel 1976


Note
1) A tutt'oggi, è fondamentale R. Barilli, La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del "Verri" alla fine di "Quindici", Bologna, 1995; didatticamente assai utile F. Gambaro, Invito a conoscere la neoavanguardia, Milano, 1993; ma resta un terminus a quo per ogni dibattito che voglia fuoriuscire dagli steccati accademici, il vol. coll. Avanguardia e neoavanguardia, Milano, 1966.
2) E. Montale, in "Corriere della Sera", 14 ottobre 1959, ora in Auto da fé, 1966, p. 165 sg. I due interventi di Baldacci e Solmi, ne "Il Verri", a. IV, febbraio 1960, rispettivamente, p.68 e p.89. L'elenco completo delle opere di Pizzuto, note a tutt'oggi, nella einaudiana Letteratura italiana. Autori, vol . II, 1991, p. 1419.
3) G. Contini, con nuovo titolo "Guida breve a Paginette" nel vol. Varianti e altra linguistica, Torino, 1970, pp. 621-25. Ma v. anche il medaglione in Letteratura dell'Italia unita: 1861-1968, Firenze 1968, pp. 1091-98. Sulle orme di Contini, con ulteriori acquisizioni, C. Bologna, nella einaudiana Letteratura italiana, Torino, 1986, vol. VI, pp. 911-12.
4) C. Segre, I segni e la critica, Torino, 1969, pp. 208-27
5) A. Pizzuto, Sul ponte di Avignone, Milano, 1985, postumo a cura e con presentazione di W. Pedullà, il cui giudizio citato è a p. VIII.
6) G. Contini, Nota per l'ultimo Pizzuto nel vol. Ultimi esercizi ed elzeviri, Torino 1988, pp.161-70, il virgolato a p.161.
7) A. Pizzuto, Sul ponte di Avignone, cit. p. 4. Provocatorio l'artcolo di G. Barberi Squarotti, Il ponte di Pizzuto chiuso ai lettori, aperto ai semiologi, ne l'"Avanti" 26 gennaio 1985.
8) Sul Ponte di Avignone, p.272.
9) I testi teorico-saggistici di Sarraute e di Robbe-Grillet escono in traduzione italiana nella collana "Quaderni del Verri", diretta da L. Anceschi. Sulla école du regard, per una essenziale ma esuriente informazione, da segnalare, tra i francesi, almeno R. M. Albérès, Métamorphoses du roman, Paris 1966, e tra gli italiani, almeno M. Forni Mizzau, Tecniche narrative e romanzo contemporaneo, Milano, 1965. A quei tempi la neoavanguardia francese incuriosì, e non per esteromania, persino chi, come lo scrivente, operava in Provincia; mi si permetta, per la cronaca non per la storia, di ricordare qualche mio contributo: Robbe-Grillet e la crisi del romanzo, in "Culture française" a. IX n 6 novembre-dicembre 1962, pp. 329-33; Il romanzo francese al bivio, ivi, a. XI, n. 6 novembre-dicembre 1964, pp. 367-69; Realtà e nouveau roman, ivi, a. XIV, n. 5, settembre-ottobre, 1967, pp. 33-43.
10) A. Pizzuto, Note per una nuova estetica, in "Sophia", a. XXII, 1954, pp. 251-59; ne era direttore Carmelo Ottaviano, autorevole esponente della ortodossia neototomista. Per Guastella, v. Pizzuto parla di Pizzuto (di cui appresso), pp. 42 sgg.
11) A. Pizzuto, Lettera all'editore, premessa come introduzione alla plaquette "Il triciclo", Milano 1962.
12) A. Pizzuto, Paragrafi sul raccontare, in "Questo e altro", n. 5, 1963, pp. 31-2, poi in appendice a Paginette, Milano 1964, pp. 177-79, e infine nella ristampa presso Il Saggiatore, 1972, col titolo,più modestamente concepito, di "Vedutine circa la narrativa", pp. 187-89.
13) A. Pizzuto, Signorina Rosina, Milano Lerici, 1959, in seconda edizione presso Einaudi, 1978; noi citeremo dalla lericiana. In realtà, il romanzo vide la luce la prima volta nel 1956, presso uno sconosciuto editore romano e passò inosservato; quindi, previa segnalazione di Giuseppe De Robertis, fu ristampato nelle Collana Narratori, diretta da R. Bilenchi e M. Luzi, per Lerici. Disponiamo a tutt'oggi di due monografie,di R. Jacobbi, nella fiorentina "Collana Il Castoro" (1971), che integra utilmente il profilo marzoratiano di G. A. Peritore (Milano,1969,vol. III de "I Contemporanei", pp. 899-919); ragguagli di storia della critica in Jacobbi, pp.97-101. Per la cronaca e non certo per la storia, ricordare alcuni miei anteriori contributi critici su Pizzuto: Scrittore poliziotto, in "La Gazzetta del Mezzogiorno", 12 marzo 1963; Tecnica e ironia di Antonio Pizzuto, in "Il Baretti", a. IV, 19-20, 1963, pp. 116-130; Robbe-Grillet e Pizzuto, in "La Diana", a. V, n. 6, novembre-dicembre 1964, pp. 329-334, e con altro titolo e qualche variazione, L'antistoricismo a la "scrittura zero", nel Supplemento letterario de "Il Critone", a. XI, n.1-2, gennaio-febbraio 1966, pp. 5 sgg.
14) A. Pizzuto, Signorina Rosina, p. 7
15) Ibidem, p. 126
16) Ibidem, p. 87 sg.Va osservato che il nome Compiuta, per un tipico divertissement del nostro raffinatissimo scrittore, ammicca anche alla infelice e misteriosa poetessa fiorentina del XIII ("A la stagion che il mondo foglia e fiora"). Infatti Pizzuto, sin dal romanzo del '38, ama infiorare le sue pagine, tra ironia e compiacimento, di dotti ritagli fugacissimi, tratti da autori antichi e moderni, letterati e filosofi d'ogni epoca; ma, a sovrastare è l'Alighieri; si veda a riguardo L. Bartolini, Presenza di Dante in Gadda e Pizzuto, in "Letteratura italiana contemporanea", a. V, n. 13, settembre-dicembre 1984; relative al nostro autore, sono pp. 67-76
17) Signorina Rosina, p. 54 sg.
18) A. Gluliani, Ode per una bestiolina, in "La Repubblica", 16 febbraio 1979, in occasione della edizione einaudiana. Sulla polisemia che assumono i titoli e i nomi o nomignoli nel lessico pizzutiano, utile l'articolo di F. Audisio, "Signorina Rosina" e la funzione del nome titolo, in "Forum italicum", VII, n. 3, 1973, pp. 415-428.
19) A. Pizzuto, Si riparano bambole, Milano Lerici, 1960, da cui citeremo; altra edizione Milano Mondadori, 1973. Per l'autobiorgrafismo, qui più accentuato, di notevole interesse è il volume Pizzuto parla di Pizzuto, a cura di P. Peretti e con introduzione di W. Pedullà, Cosenza 1977. La Peretti accompagna la sua intervista con stralci di pagine critiche dei vari studiosi, cui fa seguire, in appendice, un ragionato excursus storico-critico.
20) Si riparano bambole, p. 38.
21) A. Pizzuto, Testamento, Milano 1969, con dedica a Giovanni Nencioni e presentazione di G. Contini; il passo cit. a. p. II. Penetrante la lettura di W. Pedullà, La rivoluzione della letteratura, Roma 1972, pp. 153-59. Rivoluzione Pizzutiana, anche in ordine ai sistemi psicoanalitici dei referti autobiografici; a riguardo l'ottimo saggio di D. Ferraris, "Si riparano bambole". Une structure narrative trublée per l'aposiopesis, nel vol. coll. A travers le XX siècle italienne, Université de Paris VIII, Vincennes, 1976, pp. 93-138.
22) A. Pizzuto, Ravenna, Milano Lerici, 1962,
23) Ibidem, pp. 23 sgg.
24) M. Forni Mizzau, op.cit. p. 135.
25) Sulla produzione dell'ultimo Pizzuto, non è azzardato ipotizzare più o meno dirette o indirette ascendenze della nouvelle critique, da da R. Barthes ("Le degré zéro de l'écriture", 1953, trad. it. 1960) a M. Blanchot ("L'espace litteraire", 1958, trad. it. 1966). Su questi aspetti ritorna ancora il cit. Ferraris, Sur Pagelle. Avatars d'une écriture religieuse in "Esperienze letterarie", a. VII, n. 4, ottobre-dicembre, 1982, pp. 14-52.


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