Si
era da poco risolto il "caso Lampedusa", con buona pace dei
critici refrattari,che già se ne profilava un altro, ben più
clamoroso:il caso dell'ex alto funzionario del Ministero degli Interni,
Antonio Pizzuto, palermitano anch'egli (1893-1976), che, collocato in
quiescenza, si rivelava tra i più audaci e geniali scrittori
sperimentali di questo secolo. Nel 1959 usciva Signorina Rosina e si
apriva un dibattito, destinato a durare a lungo, specialmente tra le
pagine della leggendaria rivista di Luciano Anceschi, "Il Verri";
e ne restavano coinvolti autori e tendenze d'oltralpe, da Sarraute a
Butor a Robbe-Grillet, dalla école du regard al nouveau roman.
Si presumeva di liquidare il romanzo tradizionale nella sua ideologia
di fondo e nella sua struttura di superficie, ma insospettiva il vezzo
da Roncisvalle e la velleità anche politicamente eversiva; e
ne nacque, così, all'interno della pattuglia di punta, la nota
scissione, tra chi voleva netta la distinzione tra "politica"
e "letteratura" e chi insisteva sulla loro, pur dissimulata,
omologazione(1).
Pizzuto si ritrovava nell'occhio del ciclone suo malgrado, essendo da
sempre un uomo d'ordine e perciò conservando una intangibile
autonomia, da non ignorare e non sottovalutare. A segnalarlo tra i primissimi
era stato Montale, senza troppo entusiasmo ma con convinzione; l'anno
seguente, su "Il Verri", Luigi Baldacci e Sergio Solmi rompevano
gli ormeggi della cautela e della circospezione, Pizzuto incalzando
con altri suoi testi narrativi, stilisticamente sempre più spericolati:
Si riparano bambole (1960), Ravenna (1962), Paginette (1964), Sinfonia
(1966), per limitarci alle prove più rappresentative del suo
credo sperimentale (2). Si fu in tanti a inseguire lo scrittore ex questore,
di opera in opera, e l'enigma di quella sua "stravagante"
scrittura veniva via via disciogliendosi. Ma chi altri poteva spezzare
il "nodo gordiano" di quella presenza se non Gianfranco Contini?
E lo fece con il memorabile articolo, pubblicato sul "Corriere
della Sera" del settembre 1964, all'uscita di Paginette: "Allo
scacco matto già inflitto da Carlo Emilio Gadda a quella che,
con ispanismo faceto quasi quanto il concetto, si vuole chiamare critica
generazionale, si aggiunge ormai la beffa anche più abrupta giocatale
da Antonio Pizzuto", scrittore insomma "traumaticamente perfetto,
rotondo, catafratto in una maturità che è magistero"
(3).
Intervento non meno autorevole, e decisivo per il diagramma della critica
successiva, è l'altro di Cesare Segre, apparso su "Strumenti
critici" del 1967: "Un fenomeno ormai consueto: nella nostra
società letteraria, sono gli outsiders a portare le novità
più grosse, le spinte più decisive di rinnovamento o di
regresso, comunque di chiarificazione". Se Contini agganciava lo
sperimentalismo pizzutiano a quello "scapigliato" otto-novecentesco
di Gadda, Segre ne coglieva ben più remote suggestioni nella
letteratura espressionistico-dialettale dell'autore della Hypnerotomachia
Poliphili, Francesco Colonna (4).
Tra calligrafismo
e tardo ermetismo
Sul ceppo di una cultura ben solida, filosofica e letteraria con trasversali
innesti giuridici, non tarda a spuntare sin dagli anni trenta una
irrequieta vocazione letteraria, che i cumuli di carte e cartigli
burocratico-ministeriali non riescono a tenere a freno. Pizzuto la
coltiva clandestinamente ma con perseveranza, come a voler "trarre
il cervello di muffa" e "sfogare la malignità della
sorte" (Machiavelli), che lo ingabbia in una attività
pubblica non congeniale. Nel 1938, si decide a pubblicare, pseudonimo,
e in pochi esemplari, Sul ponte di Avignone: "un romanzo vero
e proprio, arcaico, dialogato", nel quale riesce a "spiccare
il volo", ma restando "terra terra", come poi, ammiccando,
al tempo della incubazione di Signorina Rosina. In verità,
si riscopre sin d'ora "scrittore da laboratorio", il cui
testo, sospeso tra calligrafismo e tardo ermetismo, prefigura in Pizzuto
"il nostro massimo narratore informale" (5).
Del romanzo tradizionale vi compaiono ancora taluni strumenti, la
cui ruggine lo scrittore s'industria di ripulire, non sempre con successo:
di tecnica narrativa, di scandaglio psicologico, di angolazione realistica.
Non sembra persuaderlo del tutto la lezione di Svevo e Pirandello,
ma non osa nemmeno tentare la temerarietà di un James Joyce,
in anni di esterofobia e di "restaurazione". Nell'ingresso
di una vicenda, di per sé assai tenue (una contorta e fallimentare
storia di amore), eventi e situazioni si affastellano in una rincorsa,
che vorrebbe essere di "opera aperta" e nella quale le dramatis
personae appaiono e dispaiono quali larve, cerebralisticamente sovraccaricate
di intenzioni simboliche. Il racconto è in prima persona, ma
l'io narrante è l'alter ego di Pizzuto, sicché Sul ponte
di Avignone è davvero "un libro di confessiones",
come lo definisce Contini, e di "decisiva importanza per la conoscenza
di Pizzuto" (6). Volutamente provocatoria la pagina introduttiva:
"Non scrivo en artiste. Scrivo per un impulso così complicato
che rinuncio ad esaminarlo. Scrivo infine proponendomi che altri non
legga. Ma l'avvenire si potrebbe chiamare l'imprevedibile? Per caso
che queste pagine dovessero cadere un giorno sotto sguardi estranei
farò il seguente avvertimento: non badare troppo ai fatti in
ciò che espongo, mai vi fu sì poca voglia di raccontare!
Tuttavia, inatteso lettore, per cui non scrivo, tu non mi scorderai
facilmente" (7).
Un funzionario meridionale, ammogliato con prole, incontra una giovane
donna, malmaritata e separata, e al racconto dei suoi casi se ne intenerisce
sino ad innamorarsene; come può, ottempera ai suoi doveri coniugali
oltre che economici, clandestinamente avvicendando una dimora all'altra;
intanto è venuta al mondo una creatura, cui si concorda di
dare il nome propiziatorio di Giovanna ("se interpretata, val
come si dice"); e su Giovanna il pover uomo riversa intera la
piena del suo sentimento di padre, anche perchè la bambina,
così vezzosa e dolce, gli canticchia la melodietta (donde il
titolo del romanzo): "Sur le pont d'Avignon tout le monde passe.
/ Sur le pont d'Avignon tout le monde passera". Questo dongiovanni
in pantofole rivive così nella sua immaginazione la beata spensieratezza
della propria infanzia. Le pagine del rapporto tra i due sono tra
le più schiette e intensamente poetiche. Intanto si affacciano
i primi guai per il nostro incauto e intraprendente amatore; la sua
doppia vita non sfugge a lungo ai suoi superiori che ne decidono il
trasferimento; ma meno ancora può sfuggire alle due donne,
che da rivali si riconoscono solidali nell'ac canirsi contro il ribaldo;
accanimento che non vale a lenire l'innocente intatto trasporto della
piccola Giovanna: "Era veramente la fine. Quei pochi passi nel
vicolo sotto lo sguardo di tutti; indi la casetta che mi affascinava
sparì" (8). E' un drammetto zeppo di falsi patemi e di
grottesche inattendibili ambiguità; anche, o forse anzitutto,
per difetto del "fren dell'arte". Gli si deve riconoscere,
comunque, il valore dell'incunabolo.
Armamentario
teorico e suggestioni francesi
Qualche anno prima della pubblicazione di Signorina Rosina, uscivano
su una rivista di filosofia "Note per una nuova estetica":
un salvacondotto per il suo revirement. Oltralpe, si guardava a Joyce
con emula insistenza, e si affermavano le tecniche e le poetiche del
"nouveau roman", con testi che avranno ben presto larga
diffusione anche in Italia: da Portrait d'un inconnu di Nathalie Sarraute
(con la malleveria di Sartre) a Molloy di Samuel Beckett (con l'avallo
di Joyce) a Les Gommes di Alain Robbe-Grillet (con il plauso di Roland
Barthes), tutti usciti tra il 1948 e il 1953. Il presunto colpo di
grazia al romanzo tradizionale era inferto dalla Sarraute nei saggi
raccolti col titolo L'ère du soupçon, e più energicamente
da Robbe-Grillet in Pour un nouveau roman (9). L'abbozzo pizzutiano
della "nuova estetica" è chiaramente, anche se indirettamente,
tributario del dibattito d'oltre confine, con spunti di originalità,
dovuti essenzialmente alle idee del suo vecchio maestro di filosofia
teoretica, cattedratico a Palermo, Cosmo Guastella: un empirismo assoluto,
non alieno ad intrusioni di provenienza esistenzialistico-fenomenologica.
E' senza appello il rifiuto delle posizioni neoidealistiche crocio-gentiliane,
perchè la natura dell'arte, secondo Guastella e secondo Pizzuto,
postula l'attingibilità dell'esperienza, come suo aspetto particolare
di fondo, e la conseguente presa totalizzante su di essa. La "comunicatività"
del linguaggio artistico fa tutt'uno con la sua "espressività";
commistione che è propria insiste Pizzuto - "della sensibilità
estetica musicale del tempo nostro, (che) non è più
armonica nè melodica, (ma) essenzialmente ritmica, e più
precisamente poliritmica; ed è merito di Strawinskij l'avere
avuto per primo l'intuizione di questa nuova tendenza estetica (10).
Sul terreno più specifico della poetica, suscita in noi maggiore
interesse la "Lettera all'editore (Scheiwiller)" del 1962,
contemporanea a Ravenna, il romanzo che chiude la trilogia della prima
stagione letteraria di Pizzuto (con Signorina Rosina e Si riparano
bambole); lettera fin troppo perentoria nelle sue istanze applicative:
"La realtà nostra come spirito e come esperienza, come
res cogitans e come res extensa, è non la connessione ma la
coesione, donde la mia tecnica avvologente la narrazione come un tessuto
uniforme (
), in cui lo stesso punto fermo è superfluo,
non avendone alcun bisogno una tecnica come la mia che procede per
scorci e per sfaccettature". L'essenza della prosa pizzutiana,
d'ora innanzi, risiede dunque "nel ritmo e nella musicalità"
- ribadisce l' autore che avverte: "ecco perchè (
)
bisogna leggermi au ralenti (
), perchè il fatto non conta,
ed io incomincio da dove il fatto cessa di avere una validità,
anche qualche antefatto, che non posso non respingere" (11).
Vi si preannuncia la seconda stagione letteraria del nostro scrittore,
che ha inizio con Paginette (1964), cui seguono Sinfonia (1966) e
Testamento (1969). Nel frattempo rincalzano i "Paragrafi sul
raccontare", del 1963, in cui colpisce, fra l'altro, un postulato
filosofico traumatizzante: l'antistoricismo assoluto, perchè
"la storia è un'esigenza a priori, categorica, inattuale
nella realtà storiografica, perchè è una ricerca
senza fine che nessun risultato può soddisfare". Ne discende,
naturale corollario, che "il fatto è un'astrazione, continuamente
trascesa dal nostro bisogno di storia, che può concepirsi come
una ricerca della persona nella persona e della vita nella vita";
con la conseguente distinzione, nella poetica pizzutiana tra il "raccontare",
che non è altro se non una "rappresentazione di una azione",
un inerte "svolgimento di fatti", e il "narrare",
in grado di vincere l'assurdo di tradurre l'azione in rappresentazione".
Insomma, il racconto (sospetto termine naturalistico) produce "pietrificazione"
di persone, eventi, dati psicologici, ed esibisce freddi "documenti";
la narrazione, invece, vivacizza e vivifica nel suo "trainante"
continuum ed offre "testimoninnze", diventando in tal modo
"sostanza-forma, cioè stile, non più analisi ma
sintesi trascendentale, in cui l'azione riprende vita", ed il
narrato non tende al "ritratto" bensì alla "risonanza".
Tutto ciò, sul piano morfo-sintattico, implica il rigetto dei
"tempi determinativi del verbo, in particolare il passato e il
trapassato remoto, da sostituire con delle forme infinitive"
(12).
La prima stagione
letteraria tra elegia ed ironia
Da quanto sin qui chiarito, si deduce la inopportunità esegetica
di estrapolare, dai flussi narrativi di Pizzuto compiuti canovacci
tematici", giova invece risalirli, per individuare nuclei o filamenti
o grumi "testimoniali" della condizione esistenziale, se
non proprio dell'Essere (con l'iniziale maiuscola), come spesso puntualizza
lo stesso scrittore. E la Musa, come sempre, non può che essere
la memoria, domestica, isolana e insieme storica, giocata in una ambiguità
suggestiva, in cui si intrecciano reperti di realtà, rivisitati
come topos, rimeditati come logos, rivendicati come mito. Intelligenza
e moralità sono infatti i fattori gnoseologici della Musa pizzutiana.
Gli scenari ci riportano alla Sicilia della belle époque ed
al clima della jeunesse dorée alto borghese tra otto e novecento.
Una recherche dunque, che si sviluppa lungo la trilogia (Signorina
Rosina, Si riparano bambole e Ravenna), sulla scorta degli epifanici
frammenti della memoria, e con l'accumularsi di percezioni e di giudizi
in un gioco semiserio di ammiccamenti allegorici. Bibi, Pofi e Foco,
dalla emblematica onomatopea, rispettivi protagonisti (nei limiti
propri della poetica pizzutiana) delle tre "narrazioni",
incarnano altrettanti atteggiamenti mentali di uno stesso personaggio,
uno e trino, che domina, sin dal romanzo del '38, nella immaginazione
dello scrittore siciliano; atteggiamenti che tradiscono, o l'autocoscienza
della propria inettidudine, con Bibi di Signorina Rosina, o il presentimento
dello scacco estremo, con Pofi di Si riparano bambole, o la percezione
di sé, ormai non più che un rudere di uomo oltre che
di scrittore. Perché l'antistoricismo assoluto, che è
l'impalcatura filosofica alla base della sua opera letteraria, non
può che sfociare nel nichilismo. Vi si affollano anche, come
su uno schermo svanente, figure e figurette, sempre, come sappiamo,
in prospettiva testimoniale, ora attendibili e ora imprevedibili nella
loro funzione scenica, di volta in volta antagonista o consolatoria
o surrettizia in relazione alle tre "sagome" centrali. Non
stupisce allora che la "signorina Rosina" che dà
il titolo al romanzo, non è più che un fantasma innocuo,
trasmutabile in mille guise, alla maniera di certi personaggi che
trasvolano nella fantasia ariostesca, seducenti sgorbi psicologici;
o come la "signora Ava" del romanzo omonimo di Francesco
Jovine (13).
Un qualsiasi passo, ricavato dal primo capitolo, è immediatamente
orientativo dei toni e dei temi del mondo fantastico del nostro scrittore:
"Uscivano appena dalla stazione e già ella con voce stentoria
litigava senza guardarlo, senza udire i conduttori di albergo intenti
ai compassati richiami. Ogni parola di lui era nettamente troncata.
Ciò delle volte, allorché gli argomenti sono sopraffatti
dalla realtà, fa comodo; il poco che si offrirebbe da dire
trasfigura in una reticenza a forzata. Ella però la sapeva
lunga. Voltasi di botto, in aperta sfida, attese che egli parlasse.
A lui non rimase che inghiottire; trasferì la perplessità
al destreggiare fra i veicoli, assunse aria delusa; ma tutto invano.
Sentiamo, lo incalzava ella, sentiamo. Dunque sei venuto per me. E'
vero? Benissimo. Poverino, è venuto per me. Intanto puoi correre
a casa tua: è la prima cosa che hai detto. Correre no, ho detto:
andare. Ecco, qui ti volevo. Lo confermi perciò. Sì,
per la valigia. Te la porto io, questa gran valigia: peserà
tre chili. Oh, tre chili, poi. Cento chili, mille chili, va bene?
Dalla a me e cammina" (14). E' la schermaglia indiziaria ad apertura
di una vicenda, dagli esiti facilmente intuibili, di un rapporto adulterino
tra un lui, Bibi, ed una lei, Compiuta, perpetue maschere del variegato
campionario maschile e femminile di quotidiana esperienza. Lui è
un assistente edile, di scarso rendimento nel suo proprio lavoro,
ma dalle goffe arie dell'intellettuale, che filosofeggia sui principi
supremi dell'Essere, e quando gli riesce parla di un suo libro, che
gli è "costato tanti anni e disinganni". Come un
amuleto contro i maligni, ne conserva il voluminoso manoscritto, intitolato
Ravenna, che non è nè un "romanzo storico",
né una "guida della città"; ma che anzi, a
ripensarci bene, di là da ogni ubbia, "è una vera
e propria empietà, insulto alla ragione e al buon gusto (...).
Sì, peccato di gioventù, lo riconosceva senz'altro"
(15). All'inetto Bibi, che tenterà poi senza risultato una
cura psicoanalitica, corrisponde contrastivamente la volitiva e risoluta
e generosa Compiuta, una modesta stenografa, che alle gragnuole, che
riserva anche a lei la vita, reagisce con la ferrea logica del buon
senso. E' evidente la contrapposizione che Pizzuto ha inteso esemplificare,
tra le fatue elucubrazioni, e vanità letterarie (Bibi), e la
"docta ignorantia" della popolana, che non cede ai motivi
della delusione e dello sconforto (16).
Si direbbe poi che l'autenticità dei sentimenti radicali del
vivere intersoggettivo, Pizzuto voglia riscoprirla e vagheggiarla,
in un'atmosfera di favola, nel mondo animale. L'intero capitolo settimo
è dedicato alla gattina siamese di nome Camilla: tutto da delibare
nella freschezza nativa degli affetti, dei quali non sempre sono capaci
le "canne pensanti". Una freschezza che lambisce persino
Bibi; e alla morte della gattina, per postumi di parto, un suo allievo
privato, Mario, alle prese con traduzioni dal greco, accudisce alla
sua sepoltura con pietosa premura: "Due lagrimoni inseguendosi
caddero sullo scritto. Mario ebbe un singhiozzo. Suvvia, che ragione
di far così. Era una bestiolina, una bestiolina felice, una
bestiolina privilegiata. Che le mancò mai? E ancora venivano
lì a trovarla. Presto vi sarebbero sbocciati i fiori; col tempo
diverrà un fiore lei stessa, la farfalla ne diffonderà
il polline: un giorno potrebbe trapassare in una ciliegia, tornar
viva". Viene in mente al ragazzo la dottrina pitagorica della
metempsicosi (17).
Questo capitolo su Camilla ha davvero - come ha scritto Alfredo Giuliani
- "l'andamento quasi strofico di un'ode, di un carme epicedico
sulla bestiolina" (18).
In Si riparano bambole, Pofi ripercorre a ritroso il primo cinquantennio
di questo secolo, sul filo degli avvenimenti privati e pubblici dello
stesso Pizzuto: dall'infanzia palermitana alla pensione romana. L'autobiografismo
è però accortamente dissimulato da una vorticosità
sintattico-semantica di forte effetto suggestivo; quasi a voler stornare
l'eventuale interesse per i "fatti" o "fatterelli",
realisticamente recepiti, e dirottarlo invece sulle "astrazioni",
ossia sul loro spessore "testimoniale". Un icastico rivolo
umoristico, alla maniera del pirandelliano Uno, nessuno e centomila,
attraversa le Pagine, compatte come altrettante lasse, per lasciarne
trasparire al tempo stesso sobbalzi di angoscia o ripiegamenti autoironici.
Il Pofi-Pizzuto si fa testimone del suo e nostro tempo. Non tragga
in inganno la dedica alle "dilette Palermo, Erice e Castronovo",
luoghi della sua infanzia e adolescenza, in qualche modo felici; perchè
il turbinio degli eventi in agguato (fallimenti affettivi, scelte
esistenzial-professionali mal sopportate, un indigesto sovrappiù
di letteratura, l'uggia della spettacolarità Piccolo-borghese
che lo accompagna nei suoi anni maturi) ne cancellerà, irreversibilmente,
ogni gratificante ricordo, e il pover uomo si vedrà precocemente
invecchiato, e poi recluso, col suo vano bisogno protettivo, in un
pensionato dove "si riparano bambole". Il male oscuro di
Pofi non è la "la boria di classe" (il nonno, esimio
filologo, una madre poetessa, se pure sdolcinata, amicizie di alto
rango sociale, simpatie culturali di un Giosuè Carducci e di
un Alessandro D'Ancona), ma piuttosto quel suo ostinato rimuginare
sogni di gloria letteraria, sempre dileguantisi, e la doppia vita.
che ne deriva, di alti funzionario di Stato e di smanioso scrittore
(19).
Il manierismo ellittico dello stile aderisce alle semischizofreniche
contorsioni di un personaggio dimezzato, con esemplarità di
risultati artistici. E di avvisaglie, se ne intravedono per tempo;
perchè, pavesianamente, si è da adulti quel che si è
stati da fanciulli, e, con la sapienza dell'antica Grecia, "il
carattere dell'uomo è il suo destino".
Ecco uno squarcio dell'interno domestico, con il contrappunto di Pofi:
"Le pareti erano rivestite di drappo, divani e tappeti, una luce
dolce, pesanti riviste lucide, grossi libri ben rilegati e pitture
e vasi (
). Contessine sottili, baronesse e marchesi stavano
là (
). Egli (Pofi) affondando tra i cuscini sfogliava
le pagine forestiere (
). Nel sottovoce saltuario il suo pianto
incompreso diede un disagio che i gran singhiozzi trasformarono in
muto rincrescimento. Una manina gli fece due tre glaciali carezze,
gli altri ignorarono quel dolore e Pofi non sapeva come fuggirre"
(20).
Ma forse, in limine vitae, Pofi osa sussurrarsi, tra fiducia e incredulità:
"Non omnis moriar"; e ripensa ad un manoscritto, l'ennesimo,
dal titolo ultimativo, Testamento, che non a caso si apre col paesaggio
di Erice: "Odoranti di salvia i suoi paradisi, in giù
dallo scosceso il mare cresputo immobile, terse come stoviglie le
strade spirali, ingressi ed imposte chiusi, laddentro cortili dove
minuscole lune l'acqua nei profondissimi pozzi in echi, ben scarsa
entro cisterna simmetrica, framezzo qualche albero, mura mura convolvoli,
secondari usci su candida viuzza tra verdi persiane opposti a quelli
maestri" (21).
Ormai, "la scrittura di Pizzuto suggerisce una realtà
che travalica l'area descritta" (Contini); e la si riscontra
di già in Ravenna, non più che un asettico flatus vocis
il nome della città, metafisicamente rievocativo e sornionamente
acronico. Tuttavia, da quel "tessuto di farneticamenti",
ammesso a mezza bocca da Bibi di Signorina Rosina, e "sotto il
velo dello stile contorto e impuro", "lo spirito della rivolta".
Contro chi o contro che cosa? Contro la tradizione romanzesca da cui
non riesce ancora a liberarsi del tutto? O contro i reticoli esistenziali
di una routine d'ufficio che gli depaupera gli slanci creativi? Foco,
protagonista di Ravenna, sta a Bibi e a Pofi, come, salvo debite varianti,
Zeno Cosini sta ad Alfonso Nitti e ad Emilio Brentani di Italo Svevo.
Si è al punto terminale di una parabola (22). L'"area
descritta" abbraccia la quotidianità insignificante, al
limite della banalità camuffata, dell'entourage che si agita
intorno al paziente e incupito Foco, distratto e sgomento "occhio
vivente" su un mondo, nel quale si riconosce sempre meno: Malinda,
Andrea, Cicì, Nanni e Fufina si susseguono e sovrappongono
come in un caleidoscopio dagli effetti visivi sfocati: son vanità
"che paion persone"; e Foco, che intanto avverte sempre
più insistenti disturbi neuropsichici, conclude i suoi giorni
in una clinica, nell'indifferenza generale.
Ma è il modulo prosastico a incuriosire particolarmente il
lettore, per cui tutto si risolve in un intenso brusio stilistico,
quasi a se stante, ora teso al rovello del contrappunto lessicale
e ora abbandonato in intenerimenti nostalgici. La ricerca del preziosismo
è tale da precludere ogni possibilità di sviluppo letterario
che non sia soltanto orizzontale. Citiamo un brano, almeno: si tratta
di una cerimonia nuziale in chiesa: "Dammi il braccio papà.
Avanzarono (gli sposi) fra innumerevoli sguardi, l'inno, intuendo
i visi più cari, il lucido solenne cappello del suocero. Missa
pro sponso et sponsa, l'organo sonava Traumerei, detto Pater noster
il sacerdote tornando in cornu Epistolae tolse, fra gli indici indistaccabili
dai pollici e i medi, l'esile libro rosso. Voltosi verso i due genuflessi
fece super eos le prime orazioni, quelle dedicate alla sposa, ne pervenivano
tratti, sit verecundia gravis, pudore venerabilis, doctrinis coelestibus
erudita - ella sospirò - it fecunda in sobole, sit porobata
et innocens. Dopo l'Ite Missa est disse le altre, li asperse, unico
momento intelligibile per tutti col sermoncino alla buona, eccovi
imbarcati come in piccola navicella (navicélla, dev'essere
meridionale) all'inizio di un viaggio" (23). Le malie joyciane
sono fin troppo scoperte, filtrate magari attraverso la mediazione
dell'Innomable di Beckett, e, per concludere con la Forni Mizzau,
l'importanza di questo esperimento linguistico "nasce dal fatto
che l'estrosità e imprevedibilità del linguaggio linguistico-letterario
coincide con la sua essenzialità e con un assoluto rigore"
(24).
D'ora in avanti i titoli che Pizzuto appone ai suoi testi "narrativi"
sono deliberatamente insoliti, amleticamente sfidanti l'intelligenza
intuitiva e critica dei suoi selezionati lettori; riduttivi, come
a costringerli nei recinti sempre più angusti della filologia
pura: Pagelle I (1973), Pagelle II (1975), Giunte e virgole (1976),
Ultime e penultime (1978). Ma forse, anche, con la scostante grinta
aristocratica del suo Orazio: "Odi profanum vulgus et arceo";
con un grave rischio, tuttavia, per il nostro scrittore: quello della
"evacuazione dell'uomo", della sua "defenestrazione"
dallo stallo che "solum" è suo, nella tragicommedia
del tempo (25).
Cenni Biografici
Nato a Palermo nel 1893, da famiglia di tradizione umanistica e giuridica;
giovanissimo, consegue due lauree, in giurisprudenza e in filosofia;
entrato nella Pubblica Sicurezza, arriva al grado di questore, coprendo
poi l'incarico di vice presidente della Commissione internazionale
di polizia criminale di Vienna; compie numerose missioni all'estero,
in Europa, negli Stati Uniti e nell'America latina; non ha mai trascurato
i suoi interessi letterari che filosofici; ha letto in originale e
schedato classici latini e greci; ha tradotto e pubblicato, spesso
con poseudonimi, testi filosofici, tra cui La fondazione della metafisica
dei costumi di Emanuele Kant; tutt'ora sono inediti tre altri romanzi,
composti durante il ventennio fascista; muore a Roma nel 1976
Note
1) A tutt'oggi, è fondamentale R. Barilli, La neoavanguardia
italiana. Dalla nascita del "Verri" alla fine di "Quindici",
Bologna, 1995; didatticamente assai utile F. Gambaro, Invito a conoscere
la neoavanguardia, Milano, 1993; ma resta un terminus a quo per ogni
dibattito che voglia fuoriuscire dagli steccati accademici, il vol.
coll. Avanguardia e neoavanguardia, Milano, 1966.
2) E. Montale, in "Corriere della Sera", 14 ottobre 1959,
ora in Auto da fé, 1966, p. 165 sg. I due interventi di Baldacci
e Solmi, ne "Il Verri", a. IV, febbraio 1960, rispettivamente,
p.68 e p.89. L'elenco completo delle opere di Pizzuto, note a tutt'oggi,
nella einaudiana Letteratura italiana. Autori, vol . II, 1991, p.
1419.
3) G. Contini, con nuovo titolo "Guida breve a Paginette"
nel vol. Varianti e altra linguistica, Torino, 1970, pp. 621-25. Ma
v. anche il medaglione in Letteratura dell'Italia unita: 1861-1968,
Firenze 1968, pp. 1091-98. Sulle orme di Contini, con ulteriori acquisizioni,
C. Bologna, nella einaudiana Letteratura italiana, Torino, 1986, vol.
VI, pp. 911-12.
4) C. Segre, I segni e la critica, Torino, 1969, pp. 208-27
5) A. Pizzuto, Sul ponte di Avignone, Milano, 1985, postumo a cura
e con presentazione di W. Pedullà, il cui giudizio citato è
a p. VIII.
6) G. Contini, Nota per l'ultimo Pizzuto nel vol. Ultimi esercizi
ed elzeviri, Torino 1988, pp.161-70, il virgolato a p.161.
7) A. Pizzuto, Sul ponte di Avignone, cit. p. 4. Provocatorio l'artcolo
di G. Barberi Squarotti, Il ponte di Pizzuto chiuso ai lettori, aperto
ai semiologi, ne l'"Avanti" 26 gennaio 1985.
8) Sul Ponte di Avignone, p.272.
9) I testi teorico-saggistici di Sarraute e di Robbe-Grillet escono
in traduzione italiana nella collana "Quaderni del Verri",
diretta da L. Anceschi. Sulla école du regard, per una essenziale
ma esuriente informazione, da segnalare, tra i francesi, almeno R.
M. Albérès, Métamorphoses du roman, Paris 1966,
e tra gli italiani, almeno M. Forni Mizzau, Tecniche narrative e romanzo
contemporaneo, Milano, 1965. A quei tempi la neoavanguardia francese
incuriosì, e non per esteromania, persino chi, come lo scrivente,
operava in Provincia; mi si permetta, per la cronaca non per la storia,
di ricordare qualche mio contributo: Robbe-Grillet e la crisi del
romanzo, in "Culture française" a. IX n 6 novembre-dicembre
1962, pp. 329-33; Il romanzo francese al bivio, ivi, a. XI, n. 6 novembre-dicembre
1964, pp. 367-69; Realtà e nouveau roman, ivi, a. XIV, n. 5,
settembre-ottobre, 1967, pp. 33-43.
10) A. Pizzuto, Note per una nuova estetica, in "Sophia",
a. XXII, 1954, pp. 251-59; ne era direttore Carmelo Ottaviano, autorevole
esponente della ortodossia neototomista. Per Guastella, v. Pizzuto
parla di Pizzuto (di cui appresso), pp. 42 sgg.
11) A. Pizzuto, Lettera all'editore, premessa come introduzione alla
plaquette "Il triciclo", Milano 1962.
12) A. Pizzuto, Paragrafi sul raccontare, in "Questo e altro",
n. 5, 1963, pp. 31-2, poi in appendice a Paginette, Milano 1964, pp.
177-79, e infine nella ristampa presso Il Saggiatore, 1972, col titolo,più
modestamente concepito, di "Vedutine circa la narrativa",
pp. 187-89.
13) A. Pizzuto, Signorina Rosina, Milano Lerici, 1959, in seconda
edizione presso Einaudi, 1978; noi citeremo dalla lericiana. In realtà,
il romanzo vide la luce la prima volta nel 1956, presso uno sconosciuto
editore romano e passò inosservato; quindi, previa segnalazione
di Giuseppe De Robertis, fu ristampato nelle Collana Narratori, diretta
da R. Bilenchi e M. Luzi, per Lerici. Disponiamo a tutt'oggi di due
monografie,di R. Jacobbi, nella fiorentina "Collana Il Castoro"
(1971), che integra utilmente il profilo marzoratiano di G. A. Peritore
(Milano,1969,vol. III de "I Contemporanei", pp. 899-919);
ragguagli di storia della critica in Jacobbi, pp.97-101. Per la cronaca
e non certo per la storia, ricordare alcuni miei anteriori contributi
critici su Pizzuto: Scrittore poliziotto, in "La Gazzetta del
Mezzogiorno", 12 marzo 1963; Tecnica e ironia di Antonio Pizzuto,
in "Il Baretti", a. IV, 19-20, 1963, pp. 116-130; Robbe-Grillet
e Pizzuto, in "La Diana", a. V, n. 6, novembre-dicembre
1964, pp. 329-334, e con altro titolo e qualche variazione, L'antistoricismo
a la "scrittura zero", nel Supplemento letterario de "Il
Critone", a. XI, n.1-2, gennaio-febbraio 1966, pp. 5 sgg.
14) A. Pizzuto, Signorina Rosina, p. 7
15) Ibidem, p. 126
16) Ibidem, p. 87 sg.Va osservato che il nome Compiuta, per un tipico
divertissement del nostro raffinatissimo scrittore, ammicca anche
alla infelice e misteriosa poetessa fiorentina del XIII ("A la
stagion che il mondo foglia e fiora"). Infatti Pizzuto, sin dal
romanzo del '38, ama infiorare le sue pagine, tra ironia e compiacimento,
di dotti ritagli fugacissimi, tratti da autori antichi e moderni,
letterati e filosofi d'ogni epoca; ma, a sovrastare è l'Alighieri;
si veda a riguardo L. Bartolini, Presenza di Dante in Gadda e Pizzuto,
in "Letteratura italiana contemporanea", a. V, n. 13, settembre-dicembre
1984; relative al nostro autore, sono pp. 67-76
17) Signorina Rosina, p. 54 sg.
18) A. Gluliani, Ode per una bestiolina, in "La Repubblica",
16 febbraio 1979, in occasione della edizione einaudiana. Sulla polisemia
che assumono i titoli e i nomi o nomignoli nel lessico pizzutiano,
utile l'articolo di F. Audisio, "Signorina Rosina" e la
funzione del nome titolo, in "Forum italicum", VII, n. 3,
1973, pp. 415-428.
19) A. Pizzuto, Si riparano bambole, Milano Lerici, 1960, da cui citeremo;
altra edizione Milano Mondadori, 1973. Per l'autobiorgrafismo, qui
più accentuato, di notevole interesse è il volume Pizzuto
parla di Pizzuto, a cura di P. Peretti e con introduzione di W. Pedullà,
Cosenza 1977. La Peretti accompagna la sua intervista con stralci
di pagine critiche dei vari studiosi, cui fa seguire, in appendice,
un ragionato excursus storico-critico.
20) Si riparano bambole, p. 38.
21) A. Pizzuto, Testamento, Milano 1969, con dedica a Giovanni Nencioni
e presentazione di G. Contini; il passo cit. a. p. II. Penetrante
la lettura di W. Pedullà, La rivoluzione della letteratura,
Roma 1972, pp. 153-59. Rivoluzione Pizzutiana, anche in ordine ai
sistemi psicoanalitici dei referti autobiografici; a riguardo l'ottimo
saggio di D. Ferraris, "Si riparano bambole". Une structure
narrative trublée per l'aposiopesis, nel vol. coll. A travers
le XX siècle italienne, Université de Paris VIII, Vincennes,
1976, pp. 93-138.
22) A. Pizzuto, Ravenna, Milano Lerici, 1962,
23) Ibidem, pp. 23 sgg.
24) M. Forni Mizzau, op.cit. p. 135.
25) Sulla produzione dell'ultimo Pizzuto, non è azzardato ipotizzare
più o meno dirette o indirette ascendenze della nouvelle critique,
da da R. Barthes ("Le degré zéro de l'écriture",
1953, trad. it. 1960) a M. Blanchot ("L'espace litteraire",
1958, trad. it. 1966). Su questi aspetti ritorna ancora il cit. Ferraris,
Sur Pagelle. Avatars d'une écriture religieuse in "Esperienze
letterarie", a. VII, n. 4, ottobre-dicembre, 1982, pp. 14-52.
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