Arcitaliani 2




Aldo Bello



Qualche tempo fa Norberto Bobbio, di professione filosofo, disse di vergognarsi "di essere italiano". Gesualdo Bufalino, poco prima di morire tragicamente, si augurava con amara ironia che la Sicilia fosse "occupata da un qualche esercito straniero". Almeno da Barzini jr. in poi si può dire che non ci sia stato un giornalista-scrittore che non si sia esercitato nella descrizione degli italiani, del loro carattere, della loro antropologia culturale, della loro rissosità in politica, dei loro rancori e livori storici, e via di seguito. Lontano dallo Stivale, dal suo balcone newyorkese, Prezzolini ne ha scritto così: "Tutti i vizi che i secoli hanno lasciato nel popolo italiano: la faziosità del Trecento, la rettorica del Quattrocento, la cortigianeria del Cinquecento, la servilità del Seicento, il dilettantismo del Settecento, e il regionalismo, il campanilismo, l'indifferenza religiosa e morale, lo spirito di tornaconto di tutti i tempi".
Dall'estero, gli esperti di cose peninsulari si adoperano a tener vivi i nostri rossori. Il quotidiano francese Figaro ha sostenuto che ormai a Roma e dintorni vige solo la legge della giungla. I paragoni più frequenti del tedesco Die Zeit ci hanno accostato al Libano, alla Colombia, alla Jugoslavia. Non siamo ancora in clima algerino, ma c'è chi profetizza come possibile anche questa involuzione: non ci sarà un Ramadan che avvii una guerra religiosa, con annesse ritorsioni mascherate da stragi islamiche, ma si potrà profilare il "giorno uno" di una guerra latitudinale, del Nord contro il Sud. Il che ci fa tornare in mente l'Hemingway di "Addio alle armi": terribili sono gli italiani, quando trasformano una battaglia in rissa al coltello.
"You don't look italian", lei non sembra italiano, ripete meravigliato, ritenendo di farti un gran complimento, chi viene da Boston o da Londra. Intendendo dire: è noto che i tuoi connazionali sono delinquenti o istrioni, tu sei diverso, si vede che ti sei salvato: complimenti! Al di là delle Alpi presumono che essere una persona per bene sia una condizione normale per chiunque, tranne che per un abitante del Bel Paese, e che lo Stato sia espressione di gente normale, tranne che per noi: l'Umanité ha affermato apoditticamente che "lo Stato italiano è una specie in via di estinzione".
Evidentemente, siamo stati costretti a studiare una storia che non ci appartiene. Per decenni, fin dalle scuole elementari, siamo stati mobilitati per protestare contro Alphonse de Lamartine e il principe Metternich. Costoro avevano sostenuto, rispettivamente, che il nostro Paese è "la terra dei morti", e che "l'Italia è un'espressione geografica", ("Italien ist ein geographischer Begriff"). E noi a indignarci e a considerarli dei cialtroni. Adesso, al confronto, che cosa dovremmo fare: sparare a vista contro l'opinione pubblica mondiale? Oppure riconsiderare la nostra storia, e ammettere che - in fondo - gli altri non sempre e non del tutto hanno torto?
Diciamoci la verità: il disagio con il quale rileggiamo i rapporti fra noi stessi e la politica non è di oggi soltanto. Penso al Dante del sesto canto del Purgatorio - quello, profetico, di Sordello e dell'"Ahi serva Italia" - o alle invettive del Machiavelli. Anche all'interno di un'Italia divisa in piccole comunità geopolitiche, quella di organizzare lo Stato veniva sentita come la difficoltà principale delle nostre genti. Sembrava piuttosto problematico far coesistere negli italiani certe indubbie doti intellettuali o artistiche con la virtù civile e con il senso delle istituzioni. E' un tormentone di vecchia data, anche se di tanto in tanto qualcuno cerca di convincerci che il cancro politico dell'Italia - la sua scarsa attitudine a ben governarsi come Nazione - nasconda dei pregi, o addirittura rappresenti esso stesso un valore. Uno degli ultimi è stato, una quindicina di anni fa, lo storico Fernand Braudel. Costui escogitò per il nostro Paese la teoria di un "nuovo Rinascimento". Poi, come forse era inevitabile, non se ne è parlato più. Ma il dato è sintomatico. C'è una sorta di vizio, che consiste nell'esaltare una speciale vitalità italiana primitiva ed eslege. Confrontata con le attitudini politiche più ordinate ma meno "brillanti" di un inglese o di un francese, questa nostra specialità sembra persino far bella figura. Ancora di recente si è sentito parlare delle nostre complicate traversie politiche come di un "laboratorio" dal quale sarebbero emerse formule impreviste e ingegnose; o delle nostre tuttora sanguinanti vicende economiche come di un nuovo "miracolo". L'attenzione straniera, le lodi e l'ammirazione (in questo caso, risvolto delle definizioni negative che abbiamo riportato) possono sembrare anche un nobile tentativo di consolarci. Ma, alla prova dei fatti, non risulta efficace. E infatti, da quando esiste un "caso italiano", vale a dire dalla notte dei tempi, càpita che se ne parli in maniera semiseria, paradossale, e talora affettuosamente razzistica. Per i viaggiatori-letterati che nei secoli scorsi venivano a visitare le nostre contrade, il disprezzo etico-politico riservatoci poteva camuffarsi da indulgente ammirazione. E' appena il caso di ricordare il patibolare Charles de Brosses, il quale, dopo aver viaggiato in Italia fra il 1739 e il 1740, invitò i suoi lettori a immaginarsi "che cosa possa essere un popolo, un quarto del quale è formato da preti, un quarto da statue, un quarto da persone che non lavorano quasi mai, e l'ultimo quarto da gente che non fa assolutamente nulla".
Passa più o meno un secolo e un altro francese, Stendhal, dedica all'Italia un monumento che sprizza intelligenza, ma che a un italiano attento e un poco permaloso può sembrare persino perfido. Tutti i nostri vizi ce li rifila come punti di forza. In virtù della sua penna, il cinismo, la povertà di spirito pubblico, la ferocia privata diventano doti preziose, sintomi di un fascinoso vitalismo vicino allo "stato di natura". Gli italiani sono fatti così, e non lo nascondono. Sono cattivi, selvaggi, e per questo mi piacciono: ecco come ci ha visti e descritti l'autore della "Certosa di Parma", un genio della cultura europea. La violenza? "L'immorale felicità che gli italiani provano nel vendicarsi", si legge proprio nella "Certosa", "rientra nella forza d'immaginazione di questo popolo". La libertà? A dirla con Napoleone, che per Stendhal era un idolo, gli italiani "amano parlarne con le loro amanti". Il gran Corso si riferiva in particolare ai bresciani - una parte per il tutto - e lo scrittore lo cita, divertito, in una delle sue "Cronache italiane".
Altri non si divertono affatto. Quando, cinque o sei anni fa, gli chiesero un pensiero sulle radici lontane del "caso italiano", Lucio Colletti rispose: "Io mi sono formato sulla "Storia della letteratura" di Francesco De Sanctis, un libro che nessuno legge più. Il fantasma che aleggia in quelle pagine, dal Trecento in poi, è la corruzione. Questo spettro che ancora ci accompagna impedì al Risorgimento di diventare un moto di popolo. Ne fece un espediente di élite. Alla sua ombra lo Stato liberale nacque in forme manchevoli, provvisorie, fatiscenti. Non riuscì a formarsi una vera coscienza civica, cioè la consapevolezza che la sfera pubblica è qualcosa di diverso dalla somma degli interessi privati. Nonostante fasi ricorrenti di parossismo nazionalistico, non raggiungemmo l'intento di essere una Nazione. E oggi lo siamo meno che mai".
Giulio Bollati è stato l'autore, nell'83, di una raccolta di saggi intitolata "L'italiano", (sottotitolo: "Il carattere nazionale come storia e invenzione"). Un libro arguto, raffinato, oltre che ricco di aneddoti e di citazioni. Ma al di fuori di queste pagine, in privato, racconta e chiosa Bollati: "Come dimenticare che il primo re d'Italia, il Padre della nostra Patria, si chiamò Vittorio Emanuele II? Si cominciava dal numero due, quasi a confessare che era un'Italia costruita con carta e colla, mettendo insieme schegge di passato. Un puzzle estemporaneo, che purtroppo è rimasto tale. Immaginiamo quale enorme differenza esistesse allora fra un aristocratico marchigiano come Giacomo Leopardi e un nobile-borghese di Milano, fra un barone del Regno delle Due Sicilie e un agrario emiliano. Oltre tutto, questa classe "superiore" era ristrettissima: alla fine dell'Ottocento veniva valutata intorno al due o al tre per cento della popolazione. E' difficile che un ceto così sottile ed eterogeneo fosse capace di ciò che Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente del costume degl'italiani, scritto a ventisei anni, chiamava "la conversazione": che nel suo vocabolario significava valori condivisi, sguardo realistico sul mondo, capacità di stare al passo con i tempi europei. E tutto questo, infatti, in Italia non c'era. Leopardi parlava di "mancanza di società". Più tardi, anche Metternich avrebbe detto più o meno la stessa cosa: eravamo un'espressione geografica. Oggi, a volte, ci viene la tentazione di chiederci se siamo diventati qualcosa di più".
Rileggendo quel saggio giovanile di Leopardi vien di spaventarsi: "Le classi superiori d'Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de' popolacci". Una pagina dello Zibaldone è ancora più drastica: "Se noi vogliamo risvegliarci una volta e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev'essere, non la superbia né la stima delle cose presenti, ma la vergogna".
E' la stessa parola - "vergogna" - usata da Bobbio, il quale tuttavia dice di aver nutrito sempre fiducia in ciò che chiama "l'altra Italia", il Paese che Piero Gobetti sognava e che emerge, a volte, nei momenti più difficili: "Può darsi che un giorno l'Italia si riveli un Paese non soltanto cattolico, ma anche cristiano", dice Bobbio. E aggiunge: "Ci pensavo leggendo le frasi pronunciate, a Palermo, da Rosaria Schifani, la giovane vedova di uno dei componenti della scorta di Falcone, trucidato insieme a lui. L'esortazione rivolta ai mafiosi assassini: - Inginocchiatevi! -, può suggerirla soltanto un profondo spirito cristiano. E' come dire: sappiate che persino il più malvagio degli uomini può fare un gesto capace di estrarlo dall'abisso. In quella chiesa, quella donna mi ha richiamato alla memoria il cardinal Federigo del Manzoni, quando si rivolge all'Innominato chiedendogli di redimersi. Rosaria Schifani ha fatto appello a una trasformazione radicale dell'uomo. Quell'invito a inginocchiarsi è una parola di speranza per tutti".
"Nel 1945 gli italiani hanno avuto la loro rivoluzione democratica, cinquant'anni dopo ancora attendono la loro rivoluzione liberale". La classe dirigente italiana usa "dar luogo a grandi sceneggiate sulle pagliuzze che mettono in disordine la casa, trascurando di occuparsi costantemente delle travi che, col tempo, logorandosi, la portano a un passo dal crollo". In Italia "si passa in un attimo dalla guerra civile al compiacente accordo, senza batter ciglio [...]. L'Italia oscilla permanentemente fra Orwell e Cencelli". "Tra gli italiani e il sistema è nata una sorta di sindrome di Stoccolma. Il prigioniero si è innamorato del carceriere". "Se le classi dirigenti devono essere solo uno specchio, allora tanto vale estrarle a sorte". Il giornalismo italiano si ispira a "un modello che si può chiamare produzione di notizie a mezzo di notizie".
E' una sintetica scelta di secchi aforismi e di efficaci battute che danno un'idea dello stile e dei contenuti dell'ultimo libro di Ferdinando Adornato, "La rivoluzione delle coscienze". Forma e struttura quelle del taccuino di viaggio attraverso la crisi italiana, intessuto di richiami all'attualità e di citazioni colte - sono identiche a quelle di un suo precedente volume, "Oltre la sinistra", del '91. Ma toni e contesti sono diversi. Se allora prevalevano le speranze in un mutamento politico-istituzionale appena agli inizi (che avrebbe visto lo stesso Adornato fra i suoi più attivi promotori), ora domina la delusione per un'interminabile transizione, di cui non si scorge la fine. La critica è dura e non risparmia nessuno: non i politici, principali imputati; ma nemmeno gli imprenditori, abituati da sempre a dipendere dallo Stato; gli intellettuali, narcisisti e dogmatici; i giornalisti, superficiali e faziosi; infine, la stessa "gente", a suo tempo frettolosamente eletta a protagonista di rivoluzioni fittizie. Tutti colpevoli, a diverso titolo, del deficit di cultura civica e della carenza di classe dirigente che da sempre affliggono il nostro Paese.
L'analisi, impietosa ma sostanzialmente veritiera, non si limita alla recente storia politica italiana, ma acquista spessore grazie al richiamo a tematiche di grande respiro storico e filosofico: in primo luogo, i conti con la fede; poi il ruolo, spesso nefasto, degli intellettuali negli ultimi due secoli; e il nostro rapporto con le grandi rivoluzioni da cui ha origine la contemporaneità. Se la diagnosi è amara, le conclusioni non sono radicalmente pessimistiche: il nostro Paese, per quanto malmesso, ha ancora qualche possibilità di tirarsi fuori dalla palude, purché riesca a fornirsi, anche in virtù di un più genuino richiamo ai valori liberali e cristiani, di una nuova e più matura cultura diffusa; purché si compia, insomma, quella "rivoluzione delle coscienze", cui si allude nel titolo.
Molti possono essere d'accordo. Molti altri, no. Come la maggior parte dei fautori di "riforme intellettuali e morali", Adornato rischia di mirare troppo in alto, di affidare le sue speranze di mutamento a fattori etici e culturali sui quali è impossibile agire in tempi brevi; e di sottovalutare, al contrario, il peso dei congegni istituzionali, delle leggi elettorali e degli stessi assetti politici nell'influenzare le scelte, i comportamenti e persino i valori di riferimento dei cittadini.
Congegni, leggi e assetti di cui invece ha tenuto conto Denis Mack Smith, aggiornando al 1997 la "Storia d'Italia", con la quale aveva già conquistato il pubblico di casa nostra nel '59, imponendo il suo modo di raccontare divulgativo, accattivante, anti-accademico. Smith, che non ha mai perdonato agli italiani di aver fatto un Risorgimento diverso da quello che gli sarebbe piaciuto, si lancia in una profezia: "Le ragioni per essere ottimisti sono oggi forse maggiori di quanto siano mai state in qualsiasi momento del passato. I sogni di Cavour e di Mazzini non sono mai stati così vicini a realizzarsi".
Domanda: è lecito scrivere di storia in tempo reale? Risponde lo storico britannico: "Non amo la scrittura dei sì e dei ma, dei no e dei però, quella in cui ogni giudizio è accompagnato da un elenco di fattori positivi, bilanciati da altri negativi, o viceversa. Se lo storico ha un punto di vista personale, è giusto che non lo tenga nascosto. Anche se qualcuno se la prenderà con lui". Dunque, Smith prende posizione: non ama i Savoia, detesta Cavour, e come tutti gli inglesi liberal predilige Mazzini e Garibaldi. Soprattutto, si sforza di rendere comprensibile ai suoi concittadini il nostro complicato Paese. Senza "sì, ma... no, però". Cioè senza le giustapposizioni che ci infliggono i pendolarismi di tanti scrittori indigeni. I quali, pur vivendo nel tempo reale, sprecano intelligenza ed energie per ricacciare nel passato 1'attualità. Per renderla, appunto, inattuale. Per dimenticarla, e per far dimenticare ciò che non legittimano, con giudizio insindacabile, come attuale.
Altra domanda: è possibile vivere senza memoria? No, perché si perderebbe identità. Questo vale per gli individui, per i popoli e per le società. Ma si può obiettare qualcosa a questa constatazione? E' stato scritto che esistono sensibili differenze tra le rimemorazioni individuali - le discese nelle "caverne incalcolabili della memoria", come le chiamava Sant'Agostino - e quelle collettive, le "commemorazioni" che si appoggiano a monumenti, sacrari, ricorrenze, discorsi ufficiali, iscrizioni e altro ancora. Dice Giovanni Mariotti: "Le prime hanno a che fare con una selezione involontaria, che misteriosamente conserva alcune cose e ne cancella e inghiotte altre; le seconde sono frutto di una cernita cosciente, e diciamo pure politica (giacché per l'essenziale è opera di gruppi politici e di élites intellettuali) tra cose da ricordare e cose da dimenticare". In altre parole: gli uomini hanno bisogno di ricordare, ma anche di staccarsi dal passato, in un delicatissimo equilibrio fra memoria e oblio.
In un racconto di Borges, "Funes o della memoria", e in un libro del neurologo russo A. R. Lurija, "Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla", sono descritti i difficili destini di due personaggi, uno immaginario e uno reale, sopraffatti da un eccesso di memoria. Ne emerge, simultaneamente, che è legittimo lodare questa facoltà. Ma il rovescio della medaglia è la dimenticanza, cioè la parte amputata, e se si vuole censurata, dalla stessa memoria, utile a sedare rancori e ad instaurare predisposizioni pacifiche. Concetto al quale si rifà Nicole Loraux nel suo "La cité divisée" dedicato alla politica del dimenticare nell'antica Atene, applicata nel 403 a.C., dopo la caduta dei Trenta Tiranni e il ritorno al potere della democrazia. La formula del giuramento che ogni ateniese fu tenuto a pronunciare - Ou mnesi kakèso, "io non ricorderò" i mali accaduti -, con la rinuncia alle vendette nei confronti di coloro che si erano macchiati di crimini anche orrendi, accomunò nella radice "amnesia" e "amnestia", con l'impegno della generale prescrizione dei reati. Si trattò di un paradosso, perché una legge che impone di dimenticare qualcosa, ogni volta che viene richiamata alla memoria ci ricorda esattamente quella cosa. Ma dal paradosso emergeva l'ipotesi del "memorabile oblio" finalizzato al bene collettivo. Idea non estranea alla tradizione greca. Nel quarto canto dell'"Odissea", Elena (causa di grandi mali) versa a Menelao, a Telemaco e a tutti gli altri un farmaco "che fuga il dolore e l'ira, il ricordo di tutti i malanni", e Omero definisce "benigno" quel "rimedio". E senza l'oblio, sentenzia Plutarco, uomini e poleis cadrebbero in balia di "quei démoni chiamati Giustizieri implacabili e Vendicatori del sangue versato, perché risvegliano il ricordo di ferite antiche e mai dimenticate". E narra Erodoto che una tragedia di Frinico fu vietata perché, rievocando un avvenimento recente e doloroso - la caduta di Mileto -, aveva provocato negli spettatori una commozione eccessiva. Così gli autori tragici si allontanarono dall'attualità e proiettarono le loro opere nel passato mitico: scelta che forse contribuì alla grandezza e alla nobiltà della tragedia greca. Comunque, la prudenza verso la memoria dei conflitti vale anche all'interno dei miti: gli stessi ateniesi cancellarono il secondo giorno del mese di Boedromione, perché proprio in quel giorno aveva avuto luogo la sfida tra Atena e Poseidone, inclini entrambi a dare il nome alla città. Una cicatrice sul calendario abolì una commemorazione non desiderata, perché aveva a che fare con la sconfitta di un dio del quale si coltivava la benevolenza.
Ritorniamo in Italia. Nella nostra storia, il tentativo di dare una "memoria comune" è stato compiuto almeno tre volte. Dopo l'Unità, mentre il senso di appartenenza a una Patria era di gruppi ristretti: venne inventata una "tradizione patriottica", poi predicata al popolo. Di recente, per le spinte secessioniste in atto, gli storici hanno abbandonato gli aspetti celebrativi della storiografia risorgimentale, preferendo analizzare le forme e i tempi della costruzione unitaria individuandone la forza ma anche le debolezze: tutti gli Stati-Nazione, all'atto della loro nascita, hanno bisogno di inventarsi un passato in qualche modo comune e aggregante, e in Italia quell'invenzione aveva l'obiettivo di mascherare il più possibile le fratture geo-etniche, territoriali, politiche e culturali lasciate in eredità da una storia secolare.
Secondo tentativo, quello di Mussolini, il quale mobilitò le masse ricorrendo anche lui all'idea di Patria, invitando gli storici a reinventarla (magari in nome della "romanità"), mandando in esilio il peso che avevano avuto le forze liberali nella fondazione dello Stato-Nazione. Anche questo sforzo naufragò, perché aveva basi fragili e perché non resse all'urto della seconda guerra mondiale.
Successivamente, i partiti politici che diedero vita alla Prima Repubblica furono impegnati non tanto sull'idea di Nazione, quanto su quella dell'antifascismo, (Denis Mack Smith, ironizzando, scrisse che dopo il '43 la popolazione italiana miracolosamente raddoppiò: ai 43 milioni e mezzo di fascisti si sommarono 43 milioni e mezzo di antifascisti). E anche questa volta venne forzata la mano alla storia, con la rimozione delle responsabilità collettive che consentì di riciclare tutto, uomini e vicende. Ma la costruzione di una "memoria possibile" non poté riguardare tutti gli italiani, perché la guerra civile che seguì, finì per proiettare le divisioni e gli scontri sugli scenari interno (la "democrazia bloccata") e internazionale (la guerra fredda). In Spagna, Franco aveva adottato la politica dell'oblio, seppellendo i caduti della terribile guerra civile in un unico, gigantesco cimitero, nella Valle de los Caídos, come simbolo di una "reconciliaCiòn" nazionale che doveva cancellare l'odio e gli orrori del passato. In Italia, fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo hanno condizionato politica e cultura fino ai nostri giorni.
Oggi, in tempi in cui la globalizzazione seguita alla caduta del Muro di Berlino e la velocità della comunicazione seguita allo sviluppo tecnologico rendono tutto "post", con prese di distanza, dissociazioni e abiure, la furbizia italica sta escogitando un altro machiavello: quello degli "oblii parziali", paralleli, bilanciati. L'immagine del "gappista" che stringe la mano al "repubblichino", ciascuno riconoscendo nell'altro la buona fede e la spinta ideale, e quella dell'ex fascista che scrive insieme con l'ex comunista un libro di memorie, l'uno e l'altro rievocando una lotta in fondo convergente per la libertà d'Italia, ancora una volta mettono in ombra la realtà delle cose: la visione della storia incentrata sui nazisti come unici capri espiatori porta a una generale e indistinta autoassoluzione, che non chiarisce la sequela di misteri di cui è costellata la vicenda italiana. Lo avevano già fatto i francesi, per Vichy, applicando il principio della "damnatio memoriae". L'utopia è che la storia sia scritta da cittadini partecipi di una democrazia compiuta, non dalle Chiese-Stato (che generano integralismo), né dagli Stati-Chiesa (che generano totalitarismo).
Allora: ricordare o dimenticare? E meglio ancora: che cosa dimenticare e che cosa ricordare? Dilemma arduo, e forse irrisolvibile. Perché per ogni piemontese che dimenticherà la sanguinosa riconquista del Sud ci sarà un meridionale che ricorderà le stragi contadine ai tempi del brigantaggio; per ogni padano che rammenterà le "componenti celtiche" delle legioni di Cesare, ci sarà un romano che non cancellerà nella sua imperiale memoria la visione di Vercingetorige in catene sulla via Trionfale; per ogni milanese che sorvolerà sulla rovinosa ambizione di Ludovico il Moro, ci sarà un napoletano che attribuirà allo Sforza la discesa di Carlo VIII e l'inizio della disgregazione della penisola; per ogni filogaribaldino che sublimerà l'epopea dei Mille, ci saranno un indipendentista sardo che griderà "Forza, Paris!" e uno siciliano che esalterà la gloria dei Vespri, un veneto che rimetterà in circolo la grandezza euro-mediterranea dei dogi, un genovese o un amalfitano che rievocheranno le libere leggi e la potente civiltà delle Repubbliche marinare; e via di seguito.
In ultima analisi: chi aveva ragione, Metternich o Stendhal? Forse, nei destini incrociati delle memorie e degli oblii, un po' l'uno e un po' l'altro. Allora è possibile azzardare un'ipotesi, che dovrebbe calzar bene in quest'Italia fatta di "paradisi", sì, ma "abitati da diavoli". La storia della penisola è stata caratterizzata, senza soluzione di continuità, da istinti periferico-tribali, ciascuno con una forte etica della convinzione (la propria, che non sa, non può o non vuole tener conto delle altrui), ma senza alcuna etica della responsabilità collettiva. Nel momento in cui sono scoppiati il "post" e la modernità, (o il tentativo di attingere la modernità), queste forze istintive hanno avuto, e in parte cospicua continuano ad avere, un modo di procedere non politico, non edificatore, ma pseudo-rivoluzionario e dominato da una sola passione invadente: quella del risentimento, su cui hanno fondato gli stati d'animo, e insieme con questi anche le visioni del mondo. Ciò spiega pure la continua germinazione di massimalismi simmetrici, compresi quelli attuali, tutti interni all'insoddisfatta borghesia della rivoluzione industriale. Lo storico François Furet ha chiarito bene questo atteggiamento della borghesia, che dopo la Rivoluzione francese non ha saputo trovare il modo di legittimare le proprie forme di governo, né conciliare la libertà dell'individuo con la volontà generale, e che per questo si è rifugiata nell'odio di se stessa e persino nei sussulti separatisti.
Ovviamente, la storia non si ripete uguale a se stessa. Ma certe pulsioni tornano a riapparire in Italia. Una, fondata sui miti del sangue e dell'etnia, rappresenta la "variante territoriale" della disunità d'Italia; l'altra, basata sulla difesa di sempre più esigui ceti minoritari guidati da avanguardie velleitarie, rappresenta la "variante sociale, di classe" della frammentazione e diaspora della Nazione. In forma drammaticamente caricaturale, si ripresentano sulla scena le due componenti della guerra civile europea, che sembravano sepolte dal tempo e dalle esperienze storiche vissute.
Ma l'esperienza, a quanto pare, non serve a coloro i quali vivono di sole convinzioni, cioè di ideologia, e non di pragmatismo. A costoro non è possibile parlare di realtà, perché sono accomunati dalla a-temporalità che esclude il domani, con le scadenze che in politica sono il vero segno della responsabilità, e che rifiutano il kairos, l'occasione propizia da cogliere subito. Essi vivono nell'eternità e hanno gli sguardi fissi su orizzonti remoti, ineffabili. Illimitati, sognano divine onnipotenze ed eccentriche, esclusive superiorità. Non confinano con gli altri. Li fronteggiano. Non comparano le storie, nobilitano la propria a scapito di tutte le altre, anche a costo di richiamare in servizio radici e miti devastati dalla risacca dei secoli e dei millenni. Con questi spettri andiamo verso il Duemila.
"Le fini di ogni secolo si somigliano tutte", ha sostenuto Joris-Karl Huysmans. "Vacillano e sono torbide". Già allo scadere dell'Ottocento gli uomini sentivano barcollare le grandi cattedrali del pensiero: mentre si affermava il pessimismo filosofico, affiorava l'esistenzialismo come antidoto alla kierkegaardiana "paura di vivere". Il presentito declino della civiltà europea prendeva forma, con Spengler, nel "Tramonto dell'Occidente". In seguito, si sarebbe preconizzata la morte di Dio. Verlaine poteva gridare: "Io sono l'Impero alla fine della Decadenza".
Sono avanzati, di pari passo, scienza, progresso e macerie. Come in tutto il millennio di Bisanzio si erano affermati la mistica, l'occulto e l'edonismo, così oggi il nostro neopaganesimo si nutre di post-psicoanalisi e di esoterismo New Age. Beckett ha potuto gridare: "Ma che cos'è questo vuoto?". E' "Finale di partita": poiché in realtà Dio è duro a morire, è il preludio alla resa dei conti tra l'egolatria e il cannibalismo, da una parte, e il respiro vertiginoso dello spirito, dall'altra. In mezzo, ci possono essere solo Muri provvisori.
E il cielo sopra l'Italia? Inclina su animosi, insensati provinciali, che tra mandarinismo kitsch, profezie aliene e iconoclastie partigiane non riescono a scoprire il codice iniziatico che li faccia venir fuori dalla Nuova Era Bassa, dal parallelo di angeli gregari e maldestri, irrazionali e apocalittici, che pervade le loro nevrosi. E', in fondo, l'Italia di sempre: predicatoria e maldicente, callida, a volte schizofrenica. E' la terra di Pirandello, dove tutto è virtuale, con la realtà che c'è e non c'è, con l'esistenza che gioca con se stessa, con l'apparenza che si arruffa con la verità. E' l'Italia degli italiani. Questo dobbiamo tener presente, se vogliamo finirla di fingere e di mentirci. Pirandello chiamava i morti "pensionati della memoria". E Sciascia aggiungeva: "Ma dobbiamo sempre pensionarli di verità, non di menzogna. La menzogna è offesa ai morti quanto ai vivi". Menzogna e mito sono gli archetipi del conformismo che invera tutte le Decadenze. Restarne fuori, ha ricordato Beppe Fenoglio, è "sentirsi uccelli di un altro stormo". Che ancora non fa rotta sul Bel Paese.


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