Si cantava pure "è arrivato l'ambasciatore..."




Gennaro Pistolese



I ricordi della mia prima e lontana infanzia - con la loro valenza nel tempo ricca di verità e pure non di rado di immaginazione - fanno rimbalzare nelle mie orecchie una canzone faceta e tutt'altro che memorabile, ma frequente in quei tempi: "è arrivato l'ambasciatore con le piume sul cappello", ecc... Rappresentava certamente l'eco popolare della rilevanza pure nel costume di una figura che avendo un posto di rilievo nella società ne faceva derivare in gran numero aspiranti fra i giovani e pure personaggi eminenti.
A me è capitato, da osservatore, anzi da testimone minore, di potervi dire da questa angolazione di quattro generazioni: la prebellica, la prefascista, la fascista, la repubblicana. E ciò non attraverso i fatti, che sono in gran parte quanto mai rilevanti non solo per un secolo, ma per un intero millennio, ma mediante i personaggi, che quasi tutti ho direttamente conosciuto.
Premetto che l'evoluzione della figura dell'ambasciatore è stata estremamente profonda nel corso del secolo, con un accavallarsi di motivi che hanno per lo meno affievolito quello che una volta era definito il fascino dell'ambasciata. Oggi esso sopravvive forse soltanto per il fasto di taluni ricevimenti, perché si può secondo me più propriamente parlare di "manager" dell'Ambasciata. Ormai tutte le rappresentanze diplomatiche sono a livello di ambasciata, anche se dietro di essa vi è l'articolazione della carriera.
Le comunicazioni dirette fra i governi diventano dal canto loro sempre più dirette e frequenti. I telefoni congiungono capi di Stato, presidenti del Consiglio, ministri degli Esteri. Voli rapidissimi prontamente li fanno incontrare al posto giusto. Le frequentissime convenzioni e sedi istituzionali rendono ricorrente il caso che sia il centro a dover informare la periferia.
Gli stessi giovani stanno manifestando attitudini più risolutamente diverse. Nel passato valeva il peso di certe tradizioni familiari, con un primogenito rigorosamente impegnato negli studi, con un servizio militare esercitato nella cavalleria, con la coscienza di doversi a tutti i costi inserire nel top delle carriere. Eppure nei primi decenni di questo secolo non esistevano i collegi diplomatici, promessi poi dal fascismo ma da esso dimenticati; non c'erano le scuole specializzate (anche se qualcuna di esse aveva qualcosa in più, come a Firenze e Pisa). Era invece nata da poco alla Sapienza a Roma la facoltà di Scienze politiche, con una sola aula e qualche decina di studenti, fra cui un siriano, una iugoslava, un albanese.
Quelli che poi sarebbero diventati ambasciatori erano nelle facoltà di Legge e si intravvedevano nei licei. Al liceo Massimo di Roma ne ho ad esempio avuto come compagni di classe almeno tre, con la loro manifesta pretesa di avviarsi a quella carriera, riuscendovi: un futuro ambasciatore nell'Iran, un console generale a San Francisco, il figlio di un nostro delegato nella Società delle Nazioni. Noi altri sapevamo cosa avremmo cercato di fare. Ceti, dimensioni, culture, tradizioni di quei tempi, consentivano anzi spesso determinavano queste attitudini di percorso nel bene o nel male già più o meno precostituite o per lo meno da tentare preliminarmente a tutti i costi.
Non indugerò naturalmente su quanto c'era ieri e c'è oggi dietro la diplomazia: qualcuno estremamente autorevole ha detto agli allievi di un'apposita Accademia "la diplomazia è un'arte che si giova di virtù intrinseche e di doti naturali". Ma forse questo è un giudizio legato ai tempi, pur recenti, che esprime un'aspirazione o una capacità di primato con la verifica che comporta.

Qualche nome del primo dopoguerra
Ne posso ricordare, avendoli conosciuti, solo quattro, e non avendolo conosciuto, ma sapendo qualcosa di lui anche di prima mano, solo un altro. Sono Giolitti, Salandra, Orlando, Nitti, Scialoia. E poi il Conte Sforza.
Dei quattro ho avuto occasione di parlare su queste pagine, quali statisti. Qui mi limiterò a ricordare i tratti salienti: la conquista della Libia e "il parecchio" che ci sarebbe derivato dalla neutralità nella prima guerra mondiale per Giovanni Giolitti; la denuncia della Triplice Alleanza e la dichiarazione di guerra all'Austria per Salandra; il periodo di presidenza dal 1917 fino alla conclusione della prima guerra mondiale, la sua messa in minoranza subito dopo, che non gli impedì tuttavia di partecipare alla Conferenza della Pace dalla quale uscì la Società delle Nazioni, ma nulla per l'Italia in materia di mandati, per Orlando; l'occhio estremamente aperto sulla politica estera, che già nel '20 gli fece scrivere L'Europa senza pace e nell'esilio gli consentì esegesi e pure cronache d'attualità internazionale ricche di intuizioni, di moniti, preveggenza, per Nitti; per la squalifica di ministro, rappresentante dell'Italia alla Conferenza di Versailles, di delegato italiano alla Società delle Nazioni 1921-1932, oltre che insigne e insuperato maestro di diritto romano, per Vittorio Scialoia.
Del primo in altra occasione ho ricordato la mia estemporanea ricostruzione della figura all'angolo di una singolare edicola di giornali; di Nitti ho altre volte ricordato la conterraneità e i rapporti pure familiari. Degli altri dirò che sono stati miei insegnanti alla Sapienza a Roma, avendo in tutti potuto apprezzare l'elevatezza irripetibile in campo scientifico e l'estrema semplicità con noi: ricordavano di essere stati anch'essi un tempo giovani. E forse questo era il reciproco insegnamento che ci scambiavamo, pure con i nostri canti irriguardosi forse, disattenti in coro, come con molta probabilità saranno stati anche i loro.
Ma di Nitti debbo anche ricordare, sempre in questo ambito diplomatico, un attributo da lui dato a quello che si riteneva un mostro sacro della diplomazia di allora e anche di dopo: "porta la sua testa come il Santissimo", e si riferiva a Carlo Sforza, che nulla aveva a che fare con gli Sforza del 400 e dopo. Ministro invece in Cina, in Serbia, ambasciatore a Parigi nel 1922, si dimise con l'avvento del fascismo, esiliò, rientrando in Italia nell'ottobre del 1943, dichiarandosi intransigentemente repubblicano e divenendo ministro degli Esteri in diversi governi De Gasperi. Certamente ha avuto dei pregi, ma probabilmente molto gli importava la barbetta, che cercava di valorizzare inclinando leggermente il capo, come generico segno di attenzione anche verso chi non c'era.
Montanelli ne ha fatto a suo tempo il soggetto di uno dei suoi "incontri". Come ho già avuto occasione di scrivere, questi "Incontri" non mancano di suscitare qualche mia riserva, dalla quale non mi dispensa il fatto di essere suo coetaneo, uno dei decani largamente ignoto ormai del giornalismo con qualche anno in più di lui (per me 1930). E la riserva riguarda il fatto che egli si è costruito un suo museo delle cere, al quale la realtà fornisce solo qualche spunto, con la ripetitività spesso monotona della chiave interpretativa.
Per Sforza leggo, dopo aver scritto della "sua attenzione anche verso chi non c'era": "Di lui si può dire quello che Sainte Beuve diceva di una famosa donna sua contemporanea, non ricordo quale: che la sua gioia di sedurre era tale che trattava ognuno che veniva per la prima volta in casa sua come se fosse il suo amante e ogni amante come se fosse per la prima volta in casa sua". L'iperbolismo di Montanelli - che è poi il suo modo di fare giornalismo, da "principe" come si ama dire - si rivela nella conclusione dell'incontro: "Sono venuto a visitare l'ultimo grande vero diplomatico d'Europa".
Strano per me che debba convenire con Montanelli che ci siano stati veri e grandi diplomatici, dovendo aggiungere però che per me gli ultimi sono quelli che io ho conosciuto e di cui dirò in appresso, sottolineando che per me sono stati i più veri, più di quanto non possa, non debba dire di Sforza. Purtroppo l'assenza di Diari degli uomini di cui veniamo parlando (qualche eccezione riguarda Ciano, Jacomoni per l'Albania, Grandi solo per una fase, Romano per quello che scrive oggi, ecc.) non ci aiuta nelle personali ricostruzioni che traiamo dai ricordi.

Un regime solo con ambasciatori "in fieri"
Come si sa, la politica estera, durante il fascismo, l'ha fatta Mussolini, con i percorsi che si conoscono: da Palazzo Chigi a Palazzo Venezia. Ha avuto anch'egli bisogno di ambasciatori e di ministri plenipotenziari, ma gran parte di questi ultimi si son fatti le ossa dopo di lui.
Metterei nel novero degli ambasciatori veri Attolico a Berlino, di quelli capaci ma condizionati Grandi, di quelli nepotisti ma con la voglia supportata di far bene la propria parte Ciano, con una spalla critica, Anfuso e con un'altra spalla veramente diplomatica Pietromarchi. Non sono mancati altri personaggi in fieri, ma con incarichi rilevanti, come ad esempio Ghigi, Bova, Scoppa, ecc.).
Dato che la politica estera di Mussolini è stata quella che si conosce, conta solo quanto di critico o di correttivo sono riusciti a fare i nostri rappresentanti all'estero.
Uno di questi è stato sicuramente Attolico. Era nato nel 1880, e come tale apparteneva ad un'epoca che pretendeva molto dalla propria classe dirigente, anche perché sapeva costruirsela e selezionarla. Molto di più e meglio di quanto è successivamente avvenuto.
Aveva sposato la sorella di un altro diplomatico, Luca Pietromarchi: donna eccezionalmente bella e nobile nel significato realmente vissuto che si può dare a questo termine, che diversamente non significa nulla. Si diceva che lo stesso Hitler, evidentemente alla maniera sua, ne fosse innamorato, quando Attolico nel 1935-40 fu ambasciatore a Berlino. Attolico era nettamente contrario al Patto d'Acciaio. E qui si inserisce un ricordo personale. Nell'immediata vigilia della guerra, ero a Berlino con una missione artigiana di cui ero il portavoce, e nel comunicare all'ambasciatore quanto avevamo appreso nei nostri contatti artigiani, annunciammo che ci era stata indicata la nostra entrata in guerra come imminentissima. Attolico con una curiosità che tale non era si limitò a domandarci: "Vi hanno indicato anche la data?".
La data era quella che conosciamo e l'ambasciatore che nientemeno vi arrivava per sostituirlo era Dino Alfieri, non abile, ma costante navigatore in un secolo: da nazionalista a fascista, forse con qualche rigurgito monarchico quando l'Italia era divenuta Repubblica.
Sul finire della sua carriera politica, adusa alla frequenza dei cambi della guardia che lo investivano e non certo per statura politica quanto per la distinzione nel vestire e per la capacità suadente del sorriso, ebbe anche a salire le scale della Confindustria, con il nulla di fatto che lo concludeva e che lui subiva non foss'altro perché era stata un'occasione per far capire che esisteva nientemeno pure politicamente.
Non si può dire che abbia portato fortuna al regime, perché le disavventure più banali lo rincorrevano. Anche quando avventure amorose preparate per il Duce si traducevano in agguati.
Montanelli, nei suoi Incontri, riprendendo i racconti di Ardengo Soffici, scrive: "una volta mi chiamò il ministro della... Come si chiamava?". "Della cultura popolare", suggerisce Vallecchi. "Sì, ma lui come si chiamava? Quello bello, che organizzava tanto bene i cotillons". "Alfieri", dice Spadolini. "Ecco, sì, Alfieri. Un buon uomo, tanto gentile...". Cioè dai cotillons alla diplomazia, con ... la gentilezza, virtù essenziale ma infrequente in tempo di guerra...
Un altro valido ambasciatore, ma estremamente condizionato (dalla sua qualifica di alto esponente del regime con le pretese o i diritti relativi, nonché dalla dimensione delle sue ambizioni è stato Dino Grandi. L'ho conosciuto solo quando da tempo era solo un ex. Era stato ministro degli Esteri, ministro di Grazia e Giustizia e contemporaneamente Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (altro che separazione dei poteri!), ma il cuore l'aveva lasciato all'Ambasciata di Londra.
Dal 1932, e cioè all'indomani stesso delle sue "dimissioni" da ministro degli Esteri, al 1939 egli è stato accreditato,presso la Corte di San Giacomo, indossando le polpe sotto la marsina di ambasciatore. Ne fu allontanato nel 1939, perché notoriamente avverso alla politica dell'Asse, ma sempre pretenzioso e bisognoso di un nuovo incarico di rilievo. Tale attitudine non mancò di manifestarla alla stessa monarchia, quando bisognava avviare le trattative con gli alleati anglo-americani.
L'occasione per conoscerlo mi fu data da un convegno che il Circolo di Studi Diplomatici, di cui - avendo concorso a fondarlo - sono stato segretario generale dal 1970 al 1977, aveva indetto a Venezia, nella Fondazione Cini dell'isola di San Giorgio. Fra i presenti c'era Grandi, al quale fui presentato. Sentendo il mio cognome, largamente ignoto, egli replicò compiaciuto: "Ah, Pistolese!". Ritenne evidentemente che io ero stato un suo collega e quindi era naturale che dovesse essere cordiale anche con me.
Il terzo ambasciatore del quale vengo parlando è quello da me definito nepotista e con la volontà di far bene con l'apporto di un supporto valido. Parlo di Galeazzo Ciano, che non ho mai conosciuto, né ho mai avuto opportunità o convenienze per conoscere. Lo intravvedevo dietro una vetrata della sua abitazione di Via Sechi in Roma, attento a guardare nel primo pomeriggio quanto accadeva sulla strada. Era un'abitudine che aveva copiato, tra le altre, da Mussolini.
Per me si trattava di giungere il più rapidamente possibile da Via Archimede a Piazza Ungheria. Per lui si trattava invece di pensieri e forse pure di sguardi a qualche bella donna passante, dato che il suo destino presente in lui fino alla morte - con il suo amore corrisposto per la spia tedesca che lo sorvegliava nelle carceri di Verona - è stato sempre quello di essere soprattutto "gallo", come sua moglie Edda lo chiamava nell'intimità.
Egli aveva esordito come critico e autore drammatico, ma non aveva avuto fortuna. Entrò subito dopo in carriera e a quei tempi quella più ambita era quella diplomatica, nella quale raggiunse la qualifica di console generale a Shanghai; richiamato in patria, divenne prima sottosegretario, poi ministro alla Cultura Popolare e infine ministro degli Esteri dal 1936 al febbraio 1943. Nulla c'è da aggiungere a quanto di lui si conosce; tuttavia libri e talvolta anche filmati si susseguono, con l'intento di scoprire qualcosa di nuovo, che sostanzialmente non c'è. Ora è anche il tempo del teatro, con tanto di autore, Enzo Siciliano; di regista, Marco Tullio Giordana; di sala teatrale, il Carignano di Torino. Si ricerca la tragedia, la si descrive, si tende a fare spettacolo, la tecnica della fiction che scruta e documenta la storia e fa cultura. Si ampliano biblioteche, cineteche, spazi documentari dei computers, con una storia che questa volta è tutta fatta e perciò sta solo a guardare.
Forse qualche cosa si può ancora meglio conoscere e riguarda le persone che lo circondavano e lo secondavano. Non parliamo del golf di Villa Santa, con le tante principesse romane che lo circondavano e che non si erano accorte che Galeazzo era fra quelli che amavano i calzini bianchi bassi (orrore per la mondanità ortodossa). Non parliamo della sua preferenza modaiola per l'aperitivo al pomodoro. Ma parliamo della sua necessità di essere stato anche lui squadrista. E il titolo relativo gli fu offerto da un giornalista fiorentino, con il quale ho avuto lunga consuetudine di lavoro giornalistico, che ce lo rivelò come squadrista della "Disperata" di Firenze. La campionatura per l'eloquenza e la gestualità derivarono invece direttamente da Mussolini.
Ma qui di due pilastri di Ciano si può utilmente parlare. Uno l'ho visto una sola volta, a Budapest, e si tratta di Filippo Anfuso; l'altro, Luca Pietromarchi, è stato un mio grande e indimenticabile amico: mi riprometto di parlarne più ampiamente, in seguito, allorché mi intratterrò sugli ambasciatori del Circolo di Studi Diplomatici, in gran parte purtroppo dimenticati, perché - come si sa - i morti camminano in fretta. Ma è noto che le rimembranze non sono il nostro forte e sono di molto occasionale circostanza.
Filippo Anfuso era in carriera dal 1925, avendo coperto incarichi diplomatici a Budapest, Berlino, in Cina - dove probabilmente avrà conosciuto Ciano - Atene. E' nel 1937 che egli è nominato Capo di Gabinetto di Ciano. Questi ne parla nel suo Diario con una frequenza riscontrabile in tale misura solo per pochi altri personaggi. Si tratta, infatti, di richiami tendenti più che altro a fargli fare buona figura a Ciano. Qualche citazione riguarda un Anfuso che va a rapporto da Mussolini nell'assenza da Roma del ministro. Qualche altra riferisce che Anfuso è il più germanofilo dei suoi collaboratori. E questa è certamente una constatazione, che mentre anticipa i futuri comportamenti di Anfuso (sarà l'ambasciatore a Berlino della Repubblica Sociale, per divenirne sottosegretario agli Esteri nel gennaio del 1945), sottolinea lo spazio assicurato alle oscillazioni e agli umori della politica estera di Mussolini e di chi collaborava con lui. Altre citazioni riguardano le confidenze che attraverso Anfuso arrivano alle sue orecchie (per esempio la conoscenza da parte dei tedeschi dei nostri cifrari).
Ed eccoci ad una citazione conclusiva. Reca la data del 13 novembre 1941. "Anfuso parte. Va ministro a Budapest. Lo desiderava molto ed ora è stato accontentato. Me ne dispiace, più ancora che per la sua collaborazione, per la sua compagnia". Ma la sua collaborazione è stata sempre privilegiata per Ciano, tante son ancora le citazioni e le segnalazioni di Anfuso da Budapest.
Ciano, come si sa, continua a fare il diplomatico anche nei pochissimi mesi che si concluderanno il 25 luglio: in febbraio, infatti, diventa ambasciatore presso la Santa Sede e lui ritiene che un ampio spazio gli si dischiudeva. Aveva dimenticato che un suo predecessore era stato Cesare Maria de Vecchi, che era stato, nientemeno, pure ministro dell'Educazione Nazionale.
Più solida e soprattutto più valida mi pare la presenza a fianco di Ciano di Luca Pietromarchi. Nel Diario è citato solo quattro volte. Pietromarchi era ministro plenipotenziario e come tale affiancava Ciano nell'esercizio della funzione di ministro. E' Pietromarchi che apprende in casa Colonna l'insurrezione di Cartagena, la fuga della flotta rossa, la richiesta di Franco diretta ad ottenere la nostra cooperazione aeronavale per gli interventi necessari per l'occasione. Un'altra citazione riguarda la partecipazione di Pietromarchi ad una riunione con Mussolini e Ciano a Palazzo Venezia, per la definizione delle frontiere albanesi e montenegrine. La quarta citazione riguarda un lungo colloquio che Pietromarchi ha avuto con Pio XII, "che l'ha informato di assicurazioni ricevute circa il bombardamento di Roma, con una comprensione maggiore a Washington che a Londra. Il Papa non ha dato giudizi sulla situazione, ma ha mostrato di essere al corrente di quanto il ministro degli esteri fa. E così gli ha mandato il suo saluto e la sua benedizione".
Ma qui c'è da parlare più che di un diario, di un contesto che non faceva la politica, ma una politica: quella della giornata e di scelte indotte. Di qui la rilevanza di comportamenti non solo singoli, ma contraddittori. Un Anfuso da un lato, un Pietromarchi dall'altro. Un Ciano a sua volta bifronte, che anch'egli vuole correggere, vuole equilibrare, ha i suoi alibi, ha le sue preferenze talvolta neppure manifestate, ma non di rado dal sapore ingenuo. Si pensi alla sua fuga da Roma, al pre-Verona con Mussolini, al drammaticissimo finale.
Ma accanto a questo contesto, c'è il suo filtraggio all'esterno e l'interpretazione che da questo veniva data. All'esterno si pensava che in quello interno di Palazzo Chigi alla guerra non veniva dato credito. C'erano, prima della dichiarazione di guerra, i nostri rifornimenti all'estero che prendevano una direzione avversa a quella che dovevano prendere. Una nostra pur ridotta preparazione non poteva apparire perché era dubbio che fosse pure abbozzata. I tre anni che erano ufficialmente ritenuti di necessaria preparazione erano saltati. Perciò molti scontri non potevano essere concretamente positivi, ma lo erano per i fideisti, anche se spesso pure recalcitranti.
La diplomazia, anch'essa, ha rispecchiato questa realtà, con una netta maggioranza che ha riguardato quanti avevano visto giusto. Il che, com'è noto, è stato confermato dal comportamento dei nostri rappresentanti all'estero, con i vani tentativi di Salò di recuperarne qualcuno. L'offerta del ministero degli Esteri della Repubblica Sociale ad un nostro ambasciatore fu resa vana dalla risposta telefonica: "Qui non si sente niente". Era un nostro diplomatico napoletano mio amico, che così rispondeva, pensando al suo "Cà non ci sta nisciuno".
E poi anche da questa parte c'è stato il giuoco minuto della sopravvivenza. Un direttore generale che doveva essere eliminato, perché così voleva il suo ministro, ma che veniva salvato perché il ministro germanico Clodius aveva fatta conoscere la sua. Un'Albania che c'era e non c'era, quando le zone d'ombra divenivano dominanti. Per un libro scritto nel 1965 dal suo luogotenente c'era stata invece sempre solo al meglio (ufficiale). Ma in tutto questo, non dimentichiamolo, ci sono stati i germi positivi del nuovo e del meglio.
Il nostro Paese ha potuto godere, anch'esso, di una grande diplomazia, certamente migliore dei suoi ministri degli Esteri. Non solo abbiamo potuto contare sui grandi ambasciatori, in gran parte deceduti, e che a me è occorso di conoscere, divenendo di alcuni anche amico, ma qualcuno di essi sta manifestando ancor oggi la sua capacità di magistero politologo.

Una storia che non c'è
Ci sono gli archivi con i trattati, i processi verbali, i ricorrenti rapporti, le tante urgenti comunicazioni, le segnalazioni confidenziali, c'è addirittura la storia diplomatica e più in generale della nostra politica estera, non c'è invece il "chi è" dei nostri grandi diplomatici. Essi nella seconda metà di questo secolo si sono rivelati e imposti per l'eccezionalità del loro livello e ad un certo punto hanno sentito anche il bisogno di raccogliersi e di continuare a dare il loro contributo di vissuta, critica esperienza. E' stata questa una mobilitazione che oggi, dando il dovuto spessore al passato, dà pure nuove motivazioni a noi stessi. Si sta sviluppando infatti in tutta la nostra storiografia un approfondimento, anzi spesso una riscoperta, del passato proprio per ampliare i lieviti a valere per l'avvenire.
E qui, sia pure immodestamente, c'è pure una mia esperienza da inserire. Un'esperienza che è duplice, e cioè di concorso all'attivazione del Circolo di Studi Diplomatici, all'attuazione anche organizzativa del suo programma, alla concretizzazione di studi e soprattutto di dialoghi chiarificatori, nonché di conoscenza diretta, personale, spesso amichevole con gli Ambasciatori, con la A maiuscola, di quest'ultimo mezzo secolo.
Come è noto, precedenti di organismi di studi internazionali vi erano e vi erano stati. Uno l'aveva creato a Milano Pirelli, ma non aveva mobilitato anche i diplomatici. Due altri esistevano a Roma, ed erano l'Istituto per l'Oriente e l'Istituto per l'Europa Orientale.
Il primo aveva una matrice nettamente industriale, che si è quasi naturalmente ricostruita quando Luca Pietromarchi, che conoscevo per le frequenti sue conferenze nettamente anticomuniste, - frutto della sua esperienza di ambasciatore a Mosca, venne a parlarmi, e io allora dirigevo l'azione politica che il presidente della Confindustria aveva promossi sotto il nome di "Noto Programma", dell'intento suo, di Cristoforo Fracassi, di Piero Quaroni di riunire in un Circolo gli ambasciatori che avevano concluso la loro carriera, per continuare a prestare la loro opera di studio e di approfondimento del passato e soprattutto delle sue possibili proiezioni nel futuro. La Confindustria ne percepì l'importanza, offrì una sede nel Palazzo Altieri al Circolo, gli assicurò i quadri e i mezzi esecutivi, fra cui il segretario generale, prima Manlio Gabrielli, già addetto militare in Spagna al tempo della guerra e poi capo militare della Casa del Luogotenente del Re in Albania, e poi chi vi parla dal 1970 al 1977.
A far parte del Circolo oltre che ai già citati promotori (e per Quaroni mi piace ricordare che è stato il primo nostro ambasciatore a Mosca dopo l'armistizio e ciò per la semplice ragione che era in una sede, e cioè Kabul, che era la più vicina per raggiungere la capitale sovietica: a Kabul Ciano l'aveva mandato quasi punitivamente per isolarlo, mentre per Pietromarchi desidero ricordare che è stato ambasciatore sia in Turchia che a Mosca, oltre che autorevole scrittore di libri sulle minoranze, sulla Russia e sull'arte diplomatica, sono stati tutti i Capi Missione che man mano finivano la carriera.
E si tratta di un vero e proprio Albo d'oro, con nomi che rivivono nel tempo. Da Manlio Brosio, prima uomo politico liberale e repubblicano, e poi ambasciatore a Mosca, Londra, Parigi, Washington, e per sette anni segretario generale della Nato, ad Egidio Ortona, Capo della Delegazione Tecnica negli Stati Uniti nel primo dopoguerra (l'ho conosciuto in tale sua veste nel 1960 a New York, in uno degli incontri come giornalista economico invitato negli USA dal Dipartimento di Stato per una missione di tre mesi) e ambasciatore negli states intorno agli anni Settanta. La sua competenza economica era così vasta da farne anni dopo anche il presidente della Confederazione degli Armatori italiani.
E poi da Adolfo Alessandrini, con incarichi alla Nato, in Libano, in Grecia, in Canada, a Renato Bova Scoppa, che è stato in Marocco, in Venezuela, a Bucarest. Da Benedetto Capomazza, al cui attivismo si deve se il Circolo ha continuato a vivere per poco meno o più di un decennio dopo per me inopinato ritiro della Confindustria, già ambasciatore in Israele e in Svezia, a Roberto Caracciolo di San Vito (dietro taluni di questi nomi c'erano ancora alle spalle i nobiliari titoli familiari, però già da allora dalla portata sempre più declinante) con il passato in Indonesia, Lussemburgo, alla Commissione Disarmo a Ginevra.
Da Giulio Del Balzo di Presenzano (Australia, Spagna, Venezuela, Santa Sede), poi presidente di un Centro di Riconciliazione Internazionale sponsorizzato dal Banco di Roma, e poi cessato per le diverse vocazioni di questa banca) a Giovanni Fornari, ambasciatore a Parigi e Capo dell'amministrazione fiduciaria in Somalia. Da Pellegrino Ghigi, prima Capo di Gabinetto durante il regime e poi in Grecia e in Spagna a Carlo Alberto Stranei, ambasciatore pure a Mosca. Ed ancora Magistrati e Guidott. Il primo aveva sposato una sorella di Ciano ed è stato primo consigliere di Attolico a Berlino. Fra i due non ci deve essere stata completa unità di vedute, con segnalazioni a Palazzo Chigi che non dovevano avere la stessa intonazione e con un Ciano che doveva capirci poco, tanto più che in aggiunta a questo non lo aiutavano né i repentini cambiamenti d'umore di Mussolini, né gli annunci all'alba o addirittura di notte delle azioni di Hitler. Il secondo, toscano, era stato ambasciatore anche a Londra. Di lui altra volta ho scritto che sapeva essere onnipresente, pur volendo spesso apparire assente. Era stato prima anche ambasciatore presso l'Onu e forse qui ne avrà viste molte di più che al Foreign Office. Uomo di grande cultura, dalla pur vivace animazione che molto però si avvaleva dei lunghi silenzi. Se c'era una cosa che non gli andava a genio era proprio il cosiddetto linguaggio diplomatico, la cosiddetta diplomazia formalistica e spesso volutamente, necessariamente ipocrita. Chi lo conosceva meglio di me diceva che sapeva così bene ispirare gli altri da apparirne ammiratore quando essi parlavano. A me non è capitato di godere di questi privilegi. Invece ho avuto quello di conoscere come nella settimana amministrasse il suo whisky. Ma allora erano i tempi in cui circolavano lussuosi volumi dal titolo Il mio amico whisky e sui bicchieri c'erano pure i misuratori: ladies, gentlemen, little pig con un maialino, little big con un maialone, sea dog. Allora forse i diplomatici dovevano conoscere anche queste cose, ma ne facevano quasi un segreto o un sottinteso.
Forse qualche tocco lo dovrei dedicare anche al loro abbigliamento. Tranne che per Grandi non ricordo alcuna loro foto con la feluca. Grandi però si voleva far conoscere per la sua per lui proficua fastosità. Nulla di speciale era da rilevare nelle loro abitudini di abbigliamento. Avevano girato il mondo, ma avevano sempre a che fare con il loro sarto di fiducia, famoso o ignoto che fosse. Qualche ambasciatore non disdegnava la casa ultra modesta, l'acquisto fatto personalmente del cartoccetto di pane. Quanti passi compiuti dalla storia.

Arte, fascino e tante altre cose
Il mio amico Pietromarchi ne ha fatto un libro, sul finire della sua vita. Ne conservo una copia, con cura (e per me questa è riservata purtroppo solo a qualche diecina di libri, che per me diventano documenti), con una dedica per me quanto mai gratificante: "Al carissimo amico, con la maggiore stima ed affettuosa amicizia". Il sommario dice tutto, continua soprattutto a dirlo. E cioè: la diplomazia come arte, la formazione del diplomatico, la sincerità del diplomatico, i rapporti tra l'ambasciatore e il governo presso cui è accreditato, la fiducia del proprio governo, la diplomazia segreta e quella pubblica, la capacità di previsione, la trattativa, la vita di società, come si organizza un'ambasciata, ecc... Commenta l'editore che, senza averne l'aria, l'autore insegna non solo a chi si avvia alla carriera, ma anche a chi non sa nulla o sa soltanto quello che trapela dalle indiscrezioni su quella che appare come la più misteriosa professione di tutti i tempi.
Misteriosa pure? Non mi pare l'aggettivo migliore, anche se l'epoca in cui oggi viviamo ci offre la lunga serie degli 007 e all'ultima ora dei post 007. E che dire di me? Per e nello scorrere di quasi un secolo anche per questa materia mi è stato dato di poter dire io c'ero: da solo modesto osservatore, con un occhio critico perché la mia carriera non era quella, pur invidiata, ma l'altra di giornalista. Un giornalista, anche questa volta, senza documenti sott'occhio, perché ritengo che nelle storie valgano i ricordi, che purtroppo data la mia età posso condividere con pochi.
E c'è una confessione da fare: ricordi di questo genere, condivisibili con mia moglie, che non c'è più, non solo sono scomparsi dalla mia mente, ma hanno annullato nella mia mente i fatti stessi. Non è vero che i ricordi sono soltanto buoni o cattivi. Sono anche questi. I ricordi che vivono con noi soprattutto non isolano dal mondo, come taluni ritengono. Riflettono invece la vocazione della propria vita, che è comune a tanti altri. E così diventano realtà valida anche nell'oggi. Purtroppo la storia o li ignora o se ne avvale e avvede con molto ritardo. Succede per i diplomatici, come - un altro esempio a portata di mano - per i giornalisti. La storia, questo tipo di storia, è come quei servizi pubblici, che non arrivano mai o arrivano tardi. I vecchi possono pur fare queste constatazioni, che possono anche essere esortazioni.


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