I
ricordi della mia prima e lontana infanzia - con la loro valenza nel
tempo ricca di verità e pure non di rado di immaginazione - fanno
rimbalzare nelle mie orecchie una canzone faceta e tutt'altro che memorabile,
ma frequente in quei tempi: "è arrivato l'ambasciatore con
le piume sul cappello", ecc... Rappresentava certamente l'eco popolare
della rilevanza pure nel costume di una figura che avendo un posto di
rilievo nella società ne faceva derivare in gran numero aspiranti
fra i giovani e pure personaggi eminenti.
A me è capitato, da osservatore, anzi da testimone minore, di
potervi dire da questa angolazione di quattro generazioni: la prebellica,
la prefascista, la fascista, la repubblicana. E ciò non attraverso
i fatti, che sono in gran parte quanto mai rilevanti non solo per un
secolo, ma per un intero millennio, ma mediante i personaggi, che quasi
tutti ho direttamente conosciuto.
Premetto che l'evoluzione della figura dell'ambasciatore è stata
estremamente profonda nel corso del secolo, con un accavallarsi di motivi
che hanno per lo meno affievolito quello che una volta era definito
il fascino dell'ambasciata. Oggi esso sopravvive forse soltanto per
il fasto di taluni ricevimenti, perché si può secondo
me più propriamente parlare di "manager" dell'Ambasciata.
Ormai tutte le rappresentanze diplomatiche sono a livello di ambasciata,
anche se dietro di essa vi è l'articolazione della carriera.
Le comunicazioni dirette fra i governi diventano dal canto loro sempre
più dirette e frequenti. I telefoni congiungono capi di Stato,
presidenti del Consiglio, ministri degli Esteri. Voli rapidissimi prontamente
li fanno incontrare al posto giusto. Le frequentissime convenzioni e
sedi istituzionali rendono ricorrente il caso che sia il centro a dover
informare la periferia.
Gli stessi giovani stanno manifestando attitudini più risolutamente
diverse. Nel passato valeva il peso di certe tradizioni familiari, con
un primogenito rigorosamente impegnato negli studi, con un servizio
militare esercitato nella cavalleria, con la coscienza di doversi a
tutti i costi inserire nel top delle carriere. Eppure nei primi decenni
di questo secolo non esistevano i collegi diplomatici, promessi poi
dal fascismo ma da esso dimenticati; non c'erano le scuole specializzate
(anche se qualcuna di esse aveva qualcosa in più, come a Firenze
e Pisa). Era invece nata da poco alla Sapienza a Roma la facoltà
di Scienze politiche, con una sola aula e qualche decina di studenti,
fra cui un siriano, una iugoslava, un albanese.
Quelli che poi sarebbero diventati ambasciatori erano nelle facoltà
di Legge e si intravvedevano nei licei. Al liceo Massimo di Roma ne
ho ad esempio avuto come compagni di classe almeno tre, con la loro
manifesta pretesa di avviarsi a quella carriera, riuscendovi: un futuro
ambasciatore nell'Iran, un console generale a San Francisco, il figlio
di un nostro delegato nella Società delle Nazioni. Noi altri
sapevamo cosa avremmo cercato di fare. Ceti, dimensioni, culture, tradizioni
di quei tempi, consentivano anzi spesso determinavano queste attitudini
di percorso nel bene o nel male già più o meno precostituite
o per lo meno da tentare preliminarmente a tutti i costi.
Non indugerò naturalmente su quanto c'era ieri e c'è oggi
dietro la diplomazia: qualcuno estremamente autorevole ha detto agli
allievi di un'apposita Accademia "la diplomazia è un'arte
che si giova di virtù intrinseche e di doti naturali". Ma
forse questo è un giudizio legato ai tempi, pur recenti, che
esprime un'aspirazione o una capacità di primato con la verifica
che comporta.
Qualche nome
del primo dopoguerra
Ne posso ricordare, avendoli conosciuti, solo quattro, e non avendolo
conosciuto, ma sapendo qualcosa di lui anche di prima mano, solo un
altro. Sono Giolitti, Salandra, Orlando, Nitti, Scialoia. E poi il
Conte Sforza.
Dei quattro ho avuto occasione di parlare su queste pagine, quali
statisti. Qui mi limiterò a ricordare i tratti salienti: la
conquista della Libia e "il parecchio" che ci sarebbe derivato
dalla neutralità nella prima guerra mondiale per Giovanni Giolitti;
la denuncia della Triplice Alleanza e la dichiarazione di guerra all'Austria
per Salandra; il periodo di presidenza dal 1917 fino alla conclusione
della prima guerra mondiale, la sua messa in minoranza subito dopo,
che non gli impedì tuttavia di partecipare alla Conferenza
della Pace dalla quale uscì la Società delle Nazioni,
ma nulla per l'Italia in materia di mandati, per Orlando; l'occhio
estremamente aperto sulla politica estera, che già nel '20
gli fece scrivere L'Europa senza pace e nell'esilio gli consentì
esegesi e pure cronache d'attualità internazionale ricche di
intuizioni, di moniti, preveggenza, per Nitti; per la squalifica di
ministro, rappresentante dell'Italia alla Conferenza di Versailles,
di delegato italiano alla Società delle Nazioni 1921-1932,
oltre che insigne e insuperato maestro di diritto romano, per Vittorio
Scialoia.
Del primo in altra occasione ho ricordato la mia estemporanea ricostruzione
della figura all'angolo di una singolare edicola di giornali; di Nitti
ho altre volte ricordato la conterraneità e i rapporti pure
familiari. Degli altri dirò che sono stati miei insegnanti
alla Sapienza a Roma, avendo in tutti potuto apprezzare l'elevatezza
irripetibile in campo scientifico e l'estrema semplicità con
noi: ricordavano di essere stati anch'essi un tempo giovani. E forse
questo era il reciproco insegnamento che ci scambiavamo, pure con
i nostri canti irriguardosi forse, disattenti in coro, come con molta
probabilità saranno stati anche i loro.
Ma di Nitti debbo anche ricordare, sempre in questo ambito diplomatico,
un attributo da lui dato a quello che si riteneva un mostro sacro
della diplomazia di allora e anche di dopo: "porta la sua testa
come il Santissimo", e si riferiva a Carlo Sforza, che nulla
aveva a che fare con gli Sforza del 400 e dopo. Ministro invece in
Cina, in Serbia, ambasciatore a Parigi nel 1922, si dimise con l'avvento
del fascismo, esiliò, rientrando in Italia nell'ottobre del
1943, dichiarandosi intransigentemente repubblicano e divenendo ministro
degli Esteri in diversi governi De Gasperi. Certamente ha avuto dei
pregi, ma probabilmente molto gli importava la barbetta, che cercava
di valorizzare inclinando leggermente il capo, come generico segno
di attenzione anche verso chi non c'era.
Montanelli ne ha fatto a suo tempo il soggetto di uno dei suoi "incontri".
Come ho già avuto occasione di scrivere, questi "Incontri"
non mancano di suscitare qualche mia riserva, dalla quale non mi dispensa
il fatto di essere suo coetaneo, uno dei decani largamente ignoto
ormai del giornalismo con qualche anno in più di lui (per me
1930). E la riserva riguarda il fatto che egli si è costruito
un suo museo delle cere, al quale la realtà fornisce solo qualche
spunto, con la ripetitività spesso monotona della chiave interpretativa.
Per Sforza leggo, dopo aver scritto della "sua attenzione anche
verso chi non c'era": "Di lui si può dire quello
che Sainte Beuve diceva di una famosa donna sua contemporanea, non
ricordo quale: che la sua gioia di sedurre era tale che trattava ognuno
che veniva per la prima volta in casa sua come se fosse il suo amante
e ogni amante come se fosse per la prima volta in casa sua".
L'iperbolismo di Montanelli - che è poi il suo modo di fare
giornalismo, da "principe" come si ama dire - si rivela
nella conclusione dell'incontro: "Sono venuto a visitare l'ultimo
grande vero diplomatico d'Europa".
Strano per me che debba convenire con Montanelli che ci siano stati
veri e grandi diplomatici, dovendo aggiungere però che per
me gli ultimi sono quelli che io ho conosciuto e di cui dirò
in appresso, sottolineando che per me sono stati i più veri,
più di quanto non possa, non debba dire di Sforza. Purtroppo
l'assenza di Diari degli uomini di cui veniamo parlando (qualche eccezione
riguarda Ciano, Jacomoni per l'Albania, Grandi solo per una fase,
Romano per quello che scrive oggi, ecc.) non ci aiuta nelle personali
ricostruzioni che traiamo dai ricordi.
Un regime solo
con ambasciatori "in fieri"
Come si sa, la politica estera, durante il fascismo, l'ha fatta Mussolini,
con i percorsi che si conoscono: da Palazzo Chigi a Palazzo Venezia.
Ha avuto anch'egli bisogno di ambasciatori e di ministri plenipotenziari,
ma gran parte di questi ultimi si son fatti le ossa dopo di lui.
Metterei nel novero degli ambasciatori veri Attolico a Berlino, di
quelli capaci ma condizionati Grandi, di quelli nepotisti ma con la
voglia supportata di far bene la propria parte Ciano, con una spalla
critica, Anfuso e con un'altra spalla veramente diplomatica Pietromarchi.
Non sono mancati altri personaggi in fieri, ma con incarichi rilevanti,
come ad esempio Ghigi, Bova, Scoppa, ecc.).
Dato che la politica estera di Mussolini è stata quella che
si conosce, conta solo quanto di critico o di correttivo sono riusciti
a fare i nostri rappresentanti all'estero.
Uno di questi è stato sicuramente Attolico. Era nato nel 1880,
e come tale apparteneva ad un'epoca che pretendeva molto dalla propria
classe dirigente, anche perché sapeva costruirsela e selezionarla.
Molto di più e meglio di quanto è successivamente avvenuto.
Aveva sposato la sorella di un altro diplomatico, Luca Pietromarchi:
donna eccezionalmente bella e nobile nel significato realmente vissuto
che si può dare a questo termine, che diversamente non significa
nulla. Si diceva che lo stesso Hitler, evidentemente alla maniera
sua, ne fosse innamorato, quando Attolico nel 1935-40 fu ambasciatore
a Berlino. Attolico era nettamente contrario al Patto d'Acciaio. E
qui si inserisce un ricordo personale. Nell'immediata vigilia della
guerra, ero a Berlino con una missione artigiana di cui ero il portavoce,
e nel comunicare all'ambasciatore quanto avevamo appreso nei nostri
contatti artigiani, annunciammo che ci era stata indicata la nostra
entrata in guerra come imminentissima. Attolico con una curiosità
che tale non era si limitò a domandarci: "Vi hanno indicato
anche la data?".
La data era quella che conosciamo e l'ambasciatore che nientemeno
vi arrivava per sostituirlo era Dino Alfieri, non abile, ma costante
navigatore in un secolo: da nazionalista a fascista, forse con qualche
rigurgito monarchico quando l'Italia era divenuta Repubblica.
Sul finire della sua carriera politica, adusa alla frequenza dei cambi
della guardia che lo investivano e non certo per statura politica
quanto per la distinzione nel vestire e per la capacità suadente
del sorriso, ebbe anche a salire le scale della Confindustria, con
il nulla di fatto che lo concludeva e che lui subiva non foss'altro
perché era stata un'occasione per far capire che esisteva nientemeno
pure politicamente.
Non si può dire che abbia portato fortuna al regime, perché
le disavventure più banali lo rincorrevano. Anche quando avventure
amorose preparate per il Duce si traducevano in agguati.
Montanelli, nei suoi Incontri, riprendendo i racconti di Ardengo Soffici,
scrive: "una volta mi chiamò il ministro della... Come
si chiamava?". "Della cultura popolare", suggerisce
Vallecchi. "Sì, ma lui come si chiamava? Quello bello,
che organizzava tanto bene i cotillons". "Alfieri",
dice Spadolini. "Ecco, sì, Alfieri. Un buon uomo, tanto
gentile...". Cioè dai cotillons alla diplomazia, con ...
la gentilezza, virtù essenziale ma infrequente in tempo di
guerra...
Un altro valido ambasciatore, ma estremamente condizionato (dalla
sua qualifica di alto esponente del regime con le pretese o i diritti
relativi, nonché dalla dimensione delle sue ambizioni è
stato Dino Grandi. L'ho conosciuto solo quando da tempo era solo un
ex. Era stato ministro degli Esteri, ministro di Grazia e Giustizia
e contemporaneamente Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni
(altro che separazione dei poteri!), ma il cuore l'aveva lasciato
all'Ambasciata di Londra.
Dal 1932, e cioè all'indomani stesso delle sue "dimissioni"
da ministro degli Esteri, al 1939 egli è stato accreditato,presso
la Corte di San Giacomo, indossando le polpe sotto la marsina di ambasciatore.
Ne fu allontanato nel 1939, perché notoriamente avverso alla
politica dell'Asse, ma sempre pretenzioso e bisognoso di un nuovo
incarico di rilievo. Tale attitudine non mancò di manifestarla
alla stessa monarchia, quando bisognava avviare le trattative con
gli alleati anglo-americani.
L'occasione per conoscerlo mi fu data da un convegno che il Circolo
di Studi Diplomatici, di cui - avendo concorso a fondarlo - sono stato
segretario generale dal 1970 al 1977, aveva indetto a Venezia, nella
Fondazione Cini dell'isola di San Giorgio. Fra i presenti c'era Grandi,
al quale fui presentato. Sentendo il mio cognome, largamente ignoto,
egli replicò compiaciuto: "Ah, Pistolese!". Ritenne
evidentemente che io ero stato un suo collega e quindi era naturale
che dovesse essere cordiale anche con me.
Il terzo ambasciatore del quale vengo parlando è quello da
me definito nepotista e con la volontà di far bene con l'apporto
di un supporto valido. Parlo di Galeazzo Ciano, che non ho mai conosciuto,
né ho mai avuto opportunità o convenienze per conoscere.
Lo intravvedevo dietro una vetrata della sua abitazione di Via Sechi
in Roma, attento a guardare nel primo pomeriggio quanto accadeva sulla
strada. Era un'abitudine che aveva copiato, tra le altre, da Mussolini.
Per me si trattava di giungere il più rapidamente possibile
da Via Archimede a Piazza Ungheria. Per lui si trattava invece di
pensieri e forse pure di sguardi a qualche bella donna passante, dato
che il suo destino presente in lui fino alla morte - con il suo amore
corrisposto per la spia tedesca che lo sorvegliava nelle carceri di
Verona - è stato sempre quello di essere soprattutto "gallo",
come sua moglie Edda lo chiamava nell'intimità.
Egli aveva esordito come critico e autore drammatico, ma non aveva
avuto fortuna. Entrò subito dopo in carriera e a quei tempi
quella più ambita era quella diplomatica, nella quale raggiunse
la qualifica di console generale a Shanghai; richiamato in patria,
divenne prima sottosegretario, poi ministro alla Cultura Popolare
e infine ministro degli Esteri dal 1936 al febbraio 1943. Nulla c'è
da aggiungere a quanto di lui si conosce; tuttavia libri e talvolta
anche filmati si susseguono, con l'intento di scoprire qualcosa di
nuovo, che sostanzialmente non c'è. Ora è anche il tempo
del teatro, con tanto di autore, Enzo Siciliano; di regista, Marco
Tullio Giordana; di sala teatrale, il Carignano di Torino. Si ricerca
la tragedia, la si descrive, si tende a fare spettacolo, la tecnica
della fiction che scruta e documenta la storia e fa cultura. Si ampliano
biblioteche, cineteche, spazi documentari dei computers, con una storia
che questa volta è tutta fatta e perciò sta solo a guardare.
Forse qualche cosa si può ancora meglio conoscere e riguarda
le persone che lo circondavano e lo secondavano. Non parliamo del
golf di Villa Santa, con le tante principesse romane che lo circondavano
e che non si erano accorte che Galeazzo era fra quelli che amavano
i calzini bianchi bassi (orrore per la mondanità ortodossa).
Non parliamo della sua preferenza modaiola per l'aperitivo al pomodoro.
Ma parliamo della sua necessità di essere stato anche lui squadrista.
E il titolo relativo gli fu offerto da un giornalista fiorentino,
con il quale ho avuto lunga consuetudine di lavoro giornalistico,
che ce lo rivelò come squadrista della "Disperata"
di Firenze. La campionatura per l'eloquenza e la gestualità
derivarono invece direttamente da Mussolini.
Ma qui di due pilastri di Ciano si può utilmente parlare. Uno
l'ho visto una sola volta, a Budapest, e si tratta di Filippo Anfuso;
l'altro, Luca Pietromarchi, è stato un mio grande e indimenticabile
amico: mi riprometto di parlarne più ampiamente, in seguito,
allorché mi intratterrò sugli ambasciatori del Circolo
di Studi Diplomatici, in gran parte purtroppo dimenticati, perché
- come si sa - i morti camminano in fretta. Ma è noto che le
rimembranze non sono il nostro forte e sono di molto occasionale circostanza.
Filippo Anfuso era in carriera dal 1925, avendo coperto incarichi
diplomatici a Budapest, Berlino, in Cina - dove probabilmente avrà
conosciuto Ciano - Atene. E' nel 1937 che egli è nominato Capo
di Gabinetto di Ciano. Questi ne parla nel suo Diario con una frequenza
riscontrabile in tale misura solo per pochi altri personaggi. Si tratta,
infatti, di richiami tendenti più che altro a fargli fare buona
figura a Ciano. Qualche citazione riguarda un Anfuso che va a rapporto
da Mussolini nell'assenza da Roma del ministro. Qualche altra riferisce
che Anfuso è il più germanofilo dei suoi collaboratori.
E questa è certamente una constatazione, che mentre anticipa
i futuri comportamenti di Anfuso (sarà l'ambasciatore a Berlino
della Repubblica Sociale, per divenirne sottosegretario agli Esteri
nel gennaio del 1945), sottolinea lo spazio assicurato alle oscillazioni
e agli umori della politica estera di Mussolini e di chi collaborava
con lui. Altre citazioni riguardano le confidenze che attraverso Anfuso
arrivano alle sue orecchie (per esempio la conoscenza da parte dei
tedeschi dei nostri cifrari).
Ed eccoci ad una citazione conclusiva. Reca la data del 13 novembre
1941. "Anfuso parte. Va ministro a Budapest. Lo desiderava molto
ed ora è stato accontentato. Me ne dispiace, più ancora
che per la sua collaborazione, per la sua compagnia". Ma la sua
collaborazione è stata sempre privilegiata per Ciano, tante
son ancora le citazioni e le segnalazioni di Anfuso da Budapest.
Ciano, come si sa, continua a fare il diplomatico anche nei pochissimi
mesi che si concluderanno il 25 luglio: in febbraio, infatti, diventa
ambasciatore presso la Santa Sede e lui ritiene che un ampio spazio
gli si dischiudeva. Aveva dimenticato che un suo predecessore era
stato Cesare Maria de Vecchi, che era stato, nientemeno, pure ministro
dell'Educazione Nazionale.
Più solida e soprattutto più valida mi pare la presenza
a fianco di Ciano di Luca Pietromarchi. Nel Diario è citato
solo quattro volte. Pietromarchi era ministro plenipotenziario e come
tale affiancava Ciano nell'esercizio della funzione di ministro. E'
Pietromarchi che apprende in casa Colonna l'insurrezione di Cartagena,
la fuga della flotta rossa, la richiesta di Franco diretta ad ottenere
la nostra cooperazione aeronavale per gli interventi necessari per
l'occasione. Un'altra citazione riguarda la partecipazione di Pietromarchi
ad una riunione con Mussolini e Ciano a Palazzo Venezia, per la definizione
delle frontiere albanesi e montenegrine. La quarta citazione riguarda
un lungo colloquio che Pietromarchi ha avuto con Pio XII, "che
l'ha informato di assicurazioni ricevute circa il bombardamento di
Roma, con una comprensione maggiore a Washington che a Londra. Il
Papa non ha dato giudizi sulla situazione, ma ha mostrato di essere
al corrente di quanto il ministro degli esteri fa. E così gli
ha mandato il suo saluto e la sua benedizione".
Ma qui c'è da parlare più che di un diario, di un contesto
che non faceva la politica, ma una politica: quella della giornata
e di scelte indotte. Di qui la rilevanza di comportamenti non solo
singoli, ma contraddittori. Un Anfuso da un lato, un Pietromarchi
dall'altro. Un Ciano a sua volta bifronte, che anch'egli vuole correggere,
vuole equilibrare, ha i suoi alibi, ha le sue preferenze talvolta
neppure manifestate, ma non di rado dal sapore ingenuo. Si pensi alla
sua fuga da Roma, al pre-Verona con Mussolini, al drammaticissimo
finale.
Ma accanto a questo contesto, c'è il suo filtraggio all'esterno
e l'interpretazione che da questo veniva data. All'esterno si pensava
che in quello interno di Palazzo Chigi alla guerra non veniva dato
credito. C'erano, prima della dichiarazione di guerra, i nostri rifornimenti
all'estero che prendevano una direzione avversa a quella che dovevano
prendere. Una nostra pur ridotta preparazione non poteva apparire
perché era dubbio che fosse pure abbozzata. I tre anni che
erano ufficialmente ritenuti di necessaria preparazione erano saltati.
Perciò molti scontri non potevano essere concretamente positivi,
ma lo erano per i fideisti, anche se spesso pure recalcitranti.
La diplomazia, anch'essa, ha rispecchiato questa realtà, con
una netta maggioranza che ha riguardato quanti avevano visto giusto.
Il che, com'è noto, è stato confermato dal comportamento
dei nostri rappresentanti all'estero, con i vani tentativi di Salò
di recuperarne qualcuno. L'offerta del ministero degli Esteri della
Repubblica Sociale ad un nostro ambasciatore fu resa vana dalla risposta
telefonica: "Qui non si sente niente". Era un nostro diplomatico
napoletano mio amico, che così rispondeva, pensando al suo
"Cà non ci sta nisciuno".
E poi anche da questa parte c'è stato il giuoco minuto della
sopravvivenza. Un direttore generale che doveva essere eliminato,
perché così voleva il suo ministro, ma che veniva salvato
perché il ministro germanico Clodius aveva fatta conoscere
la sua. Un'Albania che c'era e non c'era, quando le zone d'ombra divenivano
dominanti. Per un libro scritto nel 1965 dal suo luogotenente c'era
stata invece sempre solo al meglio (ufficiale). Ma in tutto questo,
non dimentichiamolo, ci sono stati i germi positivi del nuovo e del
meglio.
Il nostro Paese ha potuto godere, anch'esso, di una grande diplomazia,
certamente migliore dei suoi ministri degli Esteri. Non solo abbiamo
potuto contare sui grandi ambasciatori, in gran parte deceduti, e
che a me è occorso di conoscere, divenendo di alcuni anche
amico, ma qualcuno di essi sta manifestando ancor oggi la sua capacità
di magistero politologo.
Una storia
che non c'è
Ci sono gli archivi con i trattati, i processi verbali, i ricorrenti
rapporti, le tante urgenti comunicazioni, le segnalazioni confidenziali,
c'è addirittura la storia diplomatica e più in generale
della nostra politica estera, non c'è invece il "chi è"
dei nostri grandi diplomatici. Essi nella seconda metà di questo
secolo si sono rivelati e imposti per l'eccezionalità del loro
livello e ad un certo punto hanno sentito anche il bisogno di raccogliersi
e di continuare a dare il loro contributo di vissuta, critica esperienza.
E' stata questa una mobilitazione che oggi, dando il dovuto spessore
al passato, dà pure nuove motivazioni a noi stessi. Si sta
sviluppando infatti in tutta la nostra storiografia un approfondimento,
anzi spesso una riscoperta, del passato proprio per ampliare i lieviti
a valere per l'avvenire.
E qui, sia pure immodestamente, c'è pure una mia esperienza
da inserire. Un'esperienza che è duplice, e cioè di
concorso all'attivazione del Circolo di Studi Diplomatici, all'attuazione
anche organizzativa del suo programma, alla concretizzazione di studi
e soprattutto di dialoghi chiarificatori, nonché di conoscenza
diretta, personale, spesso amichevole con gli Ambasciatori, con la
A maiuscola, di quest'ultimo mezzo secolo.
Come è noto, precedenti di organismi di studi internazionali
vi erano e vi erano stati. Uno l'aveva creato a Milano Pirelli, ma
non aveva mobilitato anche i diplomatici. Due altri esistevano a Roma,
ed erano l'Istituto per l'Oriente e l'Istituto per l'Europa Orientale.
Il primo aveva una matrice nettamente industriale, che si è
quasi naturalmente ricostruita quando Luca Pietromarchi, che conoscevo
per le frequenti sue conferenze nettamente anticomuniste, - frutto
della sua esperienza di ambasciatore a Mosca, venne a parlarmi, e
io allora dirigevo l'azione politica che il presidente della Confindustria
aveva promossi sotto il nome di "Noto Programma", dell'intento
suo, di Cristoforo Fracassi, di Piero Quaroni di riunire in un Circolo
gli ambasciatori che avevano concluso la loro carriera, per continuare
a prestare la loro opera di studio e di approfondimento del passato
e soprattutto delle sue possibili proiezioni nel futuro. La Confindustria
ne percepì l'importanza, offrì una sede nel Palazzo
Altieri al Circolo, gli assicurò i quadri e i mezzi esecutivi,
fra cui il segretario generale, prima Manlio Gabrielli, già
addetto militare in Spagna al tempo della guerra e poi capo militare
della Casa del Luogotenente del Re in Albania, e poi chi vi parla
dal 1970 al 1977.
A far parte del Circolo oltre che ai già citati promotori (e
per Quaroni mi piace ricordare che è stato il primo nostro
ambasciatore a Mosca dopo l'armistizio e ciò per la semplice
ragione che era in una sede, e cioè Kabul, che era la più
vicina per raggiungere la capitale sovietica: a Kabul Ciano l'aveva
mandato quasi punitivamente per isolarlo, mentre per Pietromarchi
desidero ricordare che è stato ambasciatore sia in Turchia
che a Mosca, oltre che autorevole scrittore di libri sulle minoranze,
sulla Russia e sull'arte diplomatica, sono stati tutti i Capi Missione
che man mano finivano la carriera.
E si tratta di un vero e proprio Albo d'oro, con nomi che rivivono
nel tempo. Da Manlio Brosio, prima uomo politico liberale e repubblicano,
e poi ambasciatore a Mosca, Londra, Parigi, Washington, e per sette
anni segretario generale della Nato, ad Egidio Ortona, Capo della
Delegazione Tecnica negli Stati Uniti nel primo dopoguerra (l'ho conosciuto
in tale sua veste nel 1960 a New York, in uno degli incontri come
giornalista economico invitato negli USA dal Dipartimento di Stato
per una missione di tre mesi) e ambasciatore negli states intorno
agli anni Settanta. La sua competenza economica era così vasta
da farne anni dopo anche il presidente della Confederazione degli
Armatori italiani.
E poi da Adolfo Alessandrini, con incarichi alla Nato, in Libano,
in Grecia, in Canada, a Renato Bova Scoppa, che è stato in
Marocco, in Venezuela, a Bucarest. Da Benedetto Capomazza, al cui
attivismo si deve se il Circolo ha continuato a vivere per poco meno
o più di un decennio dopo per me inopinato ritiro della Confindustria,
già ambasciatore in Israele e in Svezia, a Roberto Caracciolo
di San Vito (dietro taluni di questi nomi c'erano ancora alle spalle
i nobiliari titoli familiari, però già da allora dalla
portata sempre più declinante) con il passato in Indonesia,
Lussemburgo, alla Commissione Disarmo a Ginevra.
Da Giulio Del Balzo di Presenzano (Australia, Spagna, Venezuela, Santa
Sede), poi presidente di un Centro di Riconciliazione Internazionale
sponsorizzato dal Banco di Roma, e poi cessato per le diverse vocazioni
di questa banca) a Giovanni Fornari, ambasciatore a Parigi e Capo
dell'amministrazione fiduciaria in Somalia. Da Pellegrino Ghigi, prima
Capo di Gabinetto durante il regime e poi in Grecia e in Spagna a
Carlo Alberto Stranei, ambasciatore pure a Mosca. Ed ancora Magistrati
e Guidott. Il primo aveva sposato una sorella di Ciano ed è
stato primo consigliere di Attolico a Berlino. Fra i due non ci deve
essere stata completa unità di vedute, con segnalazioni a Palazzo
Chigi che non dovevano avere la stessa intonazione e con un Ciano
che doveva capirci poco, tanto più che in aggiunta a questo
non lo aiutavano né i repentini cambiamenti d'umore di Mussolini,
né gli annunci all'alba o addirittura di notte delle azioni
di Hitler. Il secondo, toscano, era stato ambasciatore anche a Londra.
Di lui altra volta ho scritto che sapeva essere onnipresente, pur
volendo spesso apparire assente. Era stato prima anche ambasciatore
presso l'Onu e forse qui ne avrà viste molte di più
che al Foreign Office. Uomo di grande cultura, dalla pur vivace animazione
che molto però si avvaleva dei lunghi silenzi. Se c'era una
cosa che non gli andava a genio era proprio il cosiddetto linguaggio
diplomatico, la cosiddetta diplomazia formalistica e spesso volutamente,
necessariamente ipocrita. Chi lo conosceva meglio di me diceva che
sapeva così bene ispirare gli altri da apparirne ammiratore
quando essi parlavano. A me non è capitato di godere di questi
privilegi. Invece ho avuto quello di conoscere come nella settimana
amministrasse il suo whisky. Ma allora erano i tempi in cui circolavano
lussuosi volumi dal titolo Il mio amico whisky e sui bicchieri c'erano
pure i misuratori: ladies, gentlemen, little pig con un maialino,
little big con un maialone, sea dog. Allora forse i diplomatici dovevano
conoscere anche queste cose, ma ne facevano quasi un segreto o un
sottinteso.
Forse qualche tocco lo dovrei dedicare anche al loro abbigliamento.
Tranne che per Grandi non ricordo alcuna loro foto con la feluca.
Grandi però si voleva far conoscere per la sua per lui proficua
fastosità. Nulla di speciale era da rilevare nelle loro abitudini
di abbigliamento. Avevano girato il mondo, ma avevano sempre a che
fare con il loro sarto di fiducia, famoso o ignoto che fosse. Qualche
ambasciatore non disdegnava la casa ultra modesta, l'acquisto fatto
personalmente del cartoccetto di pane. Quanti passi compiuti dalla
storia.
Arte, fascino
e tante altre cose
Il mio amico Pietromarchi ne ha fatto un libro, sul finire della sua
vita. Ne conservo una copia, con cura (e per me questa è riservata
purtroppo solo a qualche diecina di libri, che per me diventano documenti),
con una dedica per me quanto mai gratificante: "Al carissimo
amico, con la maggiore stima ed affettuosa amicizia". Il sommario
dice tutto, continua soprattutto a dirlo. E cioè: la diplomazia
come arte, la formazione del diplomatico, la sincerità del
diplomatico, i rapporti tra l'ambasciatore e il governo presso cui
è accreditato, la fiducia del proprio governo, la diplomazia
segreta e quella pubblica, la capacità di previsione, la trattativa,
la vita di società, come si organizza un'ambasciata, ecc...
Commenta l'editore che, senza averne l'aria, l'autore insegna non
solo a chi si avvia alla carriera, ma anche a chi non sa nulla o sa
soltanto quello che trapela dalle indiscrezioni su quella che appare
come la più misteriosa professione di tutti i tempi.
Misteriosa pure? Non mi pare l'aggettivo migliore, anche se l'epoca
in cui oggi viviamo ci offre la lunga serie degli 007 e all'ultima
ora dei post 007. E che dire di me? Per e nello scorrere di quasi
un secolo anche per questa materia mi è stato dato di poter
dire io c'ero: da solo modesto osservatore, con un occhio critico
perché la mia carriera non era quella, pur invidiata, ma l'altra
di giornalista. Un giornalista, anche questa volta, senza documenti
sott'occhio, perché ritengo che nelle storie valgano i ricordi,
che purtroppo data la mia età posso condividere con pochi.
E c'è una confessione da fare: ricordi di questo genere, condivisibili
con mia moglie, che non c'è più, non solo sono scomparsi
dalla mia mente, ma hanno annullato nella mia mente i fatti stessi.
Non è vero che i ricordi sono soltanto buoni o cattivi. Sono
anche questi. I ricordi che vivono con noi soprattutto non isolano
dal mondo, come taluni ritengono. Riflettono invece la vocazione della
propria vita, che è comune a tanti altri. E così diventano
realtà valida anche nell'oggi. Purtroppo la storia o li ignora
o se ne avvale e avvede con molto ritardo. Succede per i diplomatici,
come - un altro esempio a portata di mano - per i giornalisti. La
storia, questo tipo di storia, è come quei servizi pubblici,
che non arrivano mai o arrivano tardi. I vecchi possono pur fare queste
constatazioni, che possono anche essere esortazioni.
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