Tra schiavitù e precariato




Kurt Oberhofer



Dove va il lavoro umano? Qual è il senso delle trasformazioni che lo sconvolgono? Come si lavorerà nel nuovo millennio? Due libri appena usciti danno risposte del tutto opposte a queste domande, nelle quali si riassume una questione nevralgica della fine del secolo: la crisi del lavoro. La fine del sistema fordista di produzione, le debolezze pronunciate dal Welfare State in tutti i Paesi, la globalizzazione dei mercati, il basso costo della forza-lavoro nei Paesi sottosviluppati, l'impiego delle nuove tecnologie elettroniche, la perdita di potere dei sindacati, hanno abbassato i livelli di occupazione e hanno aumentato i confini del precariato.
Il futuro del lavoro, nelle società industriali, è dentro un imbuto. Che cosa ne verrà fuori per i nostri figli? Un lavoro peggiore o migliore? Sicuramente peggiore, per Viviane Forrester (nel pamphlet L'orrore economico). Sicuramente migliore per Renato A. Rozzi, allievo di Musatti (in Costruire e distruggere).
Per quanto le tesi e le diagnosi degli studiosi di economia possano essere molto diverse, persino stridenti, secondo i punti di vista ideologici, dottrinari e politici, come si spiegano due valutazioni così opposte del futuro del lavoro? Secondo la Forrester, ci affacciamo sull'orlo del baratro che finirà con l'inghiottirci un po' tutti: Lavoro, economia, disoccupazione: la grande truffa del nostro tempo, recita il sottotitolo del suo libro. Rozzi riconosce tutti gli errori e gli sprechi che caratterizzano oggi il mondo del lavoro, ma la prospettiva finale - sostiene - è una rottura di confini troppo protetti verso forme di attività che tendono "ad una maggiore libertà e responsabilità".
La divergenza di giudizio si spiega innanzitutto con la diversa personalità dei due autori. Forrester non è una studiosa di economia né uno scienziato sociale, ma una scrittrice di romanzi e un critico letterario. Il suo pamphlet, diventato il "libretto rosso" dei disoccupati, fa parte del filone apocalittico della letteratura. E' la descrizione appassionata, carica di furori, densa di citazioni, di un mondo divorato dal moloch del mercato. Questo mondo è dominato dalla concentrazione di grandi poteri nelle mani di pochi, "i padroni" o "le potenze", identificati soprattutto con la Banca Mondiale, con l'Ocse, col Fondo Monetario Internazionale, col G7. Sotto di loro si distende una sorta di Deserto di Gobi dove gli uomini sono stati privati non solo del lavoro, ma anche dello sfruttamento. Non servono più.
Immaginifico e un po' retorico, il pamphlet è una requisitoria contro il neoliberismo accusato di riorganizzare il mondo del lavoro in funzione esclusiva del profitto. Ovviamente, Marx aveva detto le stesse cose, ma la novità denunciata dalla Forrester sarebbe una politica internazionale che punta all'espulsione massiccia di milioni di uomini da un'economia di mercato per la quale non sono più fonte di profitto. "E si sa - dice - che non lo ridiventeranno mai". Tutte le novità dell'epoca post-fordista, dalle innovazioni tecnologiche al controllo qualità, dalla flessibilità al part-time, alla cassa integrazione a zero ore, punterebbero a una larga fascia di non occupati, garanzia di bassi costi della forza-lavoro internazionale.
Diverso il saggio di Rozzi, a cominciare dal linguaggio pacato, analitico, un poco ironico e colloquiale: il linguaggio di uno studioso che ha provato a confrontare le sue conoscenze teoriche con i casi della vita reale, lavorando come psicologo e psicoterapeuta prima in un carcere per minorenni, poi in un'istituzione psichiatrica, e infine in una grande fabbrica. La chiave del suo approccio alla grande questione del lavoro è infatti psicologica. Cerca di mettere a fuoco il nostro rapporto col lavoro attraverso la consapevolezza che ne abbiamo e le motivazioni che lo giustificano: "Anche questa generazione adulta ha lavorato molto - scrive -. Ma non è più tanto sicura che sia stato del tutto un buon lavoro". La novità è la fine non del lavoro, ma delle nostre certezze sul lavoro.
Che cosa abbiamo dovuto scoprire? Che il lavoro può essere distruttivo. Pensiamo all'inquinamento. In apparenza e in origine, il lavoro è stato sostanzialmente costruzione. Oggi invece "il costruttore sperimenta anche dentro di sé il proprio opposto". Però questa coscienza dei limiti e delle contraddizioni del lavoro modifica le motivazioni per cui si lavora: il lavoro non può non essere più un bisogno: "Non si può continuare a chiedere un lavoro come se fossimo un vuoto da riempire". Attraverso un percorso tortuoso, si approda alla riscoperta della nobiltà del lavoro. La produttività ha svelato la distruttività di cui è minacciosamente carica. Da ciò nasce l'ipotesi di una "minore necessità" del lavoro. In questa prospettiva orari ridotti, flessibilità, part-time, ecc., potrebbero favorire forme di libertà.
Appassionatamente partigiano il libro della Forrester, disincantato quello di Rozzi, sono una significativa rappresentazione delle tesi, delle prognosi, delle polemiche, dei patemi di cui la questione del lavoro è intrisa. I dati e i fatti rimbalzano da un campo all'altro. La sola cosa certa è che se ne discuterà ancora a lungo.


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