Morire
a Marcinelle
Perché
un'evocazione della catastrofe mineraria di Marcinelle (Belgio) 41
anni dopo? Probabilmente per il desiderio di rendere ulteriore, rispettoso
omaggio ai 262 lavoratori periti, tra i quali 136 italiani, e di questi
15 provenienti dal Salento. Ancora oggi migliaia di minatori europei,
per ironia della sorte, "beneficiano" di Marcinelle. Sono
tutelati da norme tuttora in vigore, emanate all'indomani dell'8 agosto
1956. Riusciremo ad arricchire il paragrafo sull'emigrazione italiana
del secondo dopoguerra? E' appena appena accennato sui testi scolastici
di storia adottati fino ad oggi. Ci auguriamo che la scuola futura
- che, pur rivista, cercherà di non smarrire comunque le radici
del passato ! - sceglierà il metodo "deciclizzato".
In poche parole, si baserà sull'importanza dell'evento storico
e non più sull'impostazione cronologica. Magari concederà
ampio spazio alla storia locale (economica, civile e sociale) spesso
da molti taciuta per reticenza e omertà. Per vergogna. Con
una progressiva perdita di memoria. E pertanto da molti ignorata.
Quando l'on.le Angelini, ministro dei Trasporti, annunciò "leggi
severe contro gli indisciplinati della strada" (L'Europeo, 15/7/56),
fu costretto dal vorticoso aumento di unità automobilistiche
che, in dieci anni (1946-1956), erano passate da 458.377 a più
di quattro milioni. L'incremento, oltre che di autovetture, anche
di motocarri, motociclette, motocarrozzette e scooters, appariva una
sorta di osservatorio. Indicava una società ricca di fermenti,
una fase di incoraggiante vivacità economica, la giusta direzione
degli investimenti produttivi, un benefico incremento del reddito
da lavoro. Le aree investite dal "boom" economico erano
quelle industrializzate del Nord.
Nel Meridione, terreno di profonde contraddizioni e di latitanze governative,
la situazione socio-economica si presentava assolutamente grave. L'agricoltura,
attività principale, si dimostrava in condizioni di estrema
debolezza e di pesante arretratezza, sia sul piano delle strutture
fondiarie e della produttività, che dei condizionamenti climatici
e idrici. L'analfabetismo era un dato di ulteriore involuzione. Crescevano
a dismisura soltanto l'incidenza demografica e le schiere dei disoccupati.
Tra questi, pure quelli cosiddetti "nascosti" e "scoraggiati"!
Oltre ogni possibile definizione sociologica, per il mondo del lavoro,
non erano per nulla produttivi e nemmeno potevano esprimere qualsivoglia
capacità lavorativa. Smisero di cercare lavoro.
L'abbassamento dei livelli elementari dei consumi raggiunse i limiti
della fame. A ben poco servì l'istituzione della "Cassa
per il Mezzogiorno" (1950) - con una dotazione iniziale di 1.000
miliardi continuamente rifinanziati fino alla definitiva estinzione
dell'ente - né quella di appositi comitati ministeriali o di
consorzi pro-Sud.
Neppure lo "schema Vanoni" (1954) riuscì a miracolare
i disoccupati e gli affamati. Gli obiettivi da raggiungere, (assorbire
l'offerta di lavoro esistente, eliminare progressivamente il divario
Nord-Sud, pareggiare la bilancia dei pagamenti), rimasero nello "schema":
perché non conteneva indicazioni specifiche.
Come altri precedenti esponenti politici e uomini di governo, Vanoni
concordava che la lotta alla disoccupazione si vinceva mantenendo
inalterate le correnti di esodo migratorio verso le aree industriali
dell'Europa occidentale. Posta in questi termini, l'emigrazione rappresentava
il complemento indispensabile per l'assorbimento dei lavoratori sul
mercato interno e per alleggerire la pericolosa pressione demografica.
Nel ventennio 1951-71, il Mezzogiorno avrebbe perso oltre 4 milioni
di unità lavorative. Soltanto l'emigrazione possedeva inestimabili
virtù taumaturgiche.
Fin dall'esordio (verso la fine dell'800), il fenomeno migratorio,
se cercò di risolvere le sorti del "mondo dei vinti"
sia del Nord che del Sud d'Italia, diede vita a due blocchi contrapposti,
rappresentati dai fautori e dagli avversari dell'emigrazione. Tra
i primi vi erano, oltre agli esponenti politico-economici, a partire
da Cavour attraverso Crispi, coloro che avevano saputo speculare perfino
sui flussi migratori. Tra i secondi, invece, figuravano gli agrari,
contrari perché non avrebbero potuto disporre di forza-lavoro
bracciantile abbondante e a buon mercato.
Senza mai affrontare le vere cause dell'emigrazione e senza dotarsi
di specifiche norme legislative, il governo italiano risolse il fenomeno
più che altro con una politica poliziesca, repressiva, emanando
leggi di Pubblica Sicurezza di competenza del ministero dell'Interno.
Vi è da aggiungere che per gli stessi consoli italiani all'estero,
l'emigrato non era il cittadino da aiutare in un Paese straniero,
ma un "cafone" che con la sua miseria e ignoranza offendeva
la patria. I "viaggi della speranza" si intensificarono
all'alba degli anni 50 del '900, verso quei Paesi europei come Svezia,
Olanda, Regno Unito, Francia e Belgio che, produttori di materie prime,
non risentivano delle conseguenze della guerra, almeno sul piano economico.
Tra questi, il Belgio: ricco di miniere (e perciò grosso produttore
di carbon fossile), ma non di braccia. Per la crescente domanda del
combustibile fece appello alla povera Italia perché fornisse
la necessaria manodopera. Grazie all'accordo economico siglato il
23 giugno 1946, circa 50.000 italiani accorsero nel Belgio per essere
impiegati nelle miniere ed estrarvi faticosamente il carbone.
A quali condizioni? Con un salario relativamente modesto che consentiva
loro di sbarcare il lunario, ma non certo di fare risparmi. Con un
lavoro rischioso che li impegnava (per il 98 per cento) nelle gallerie
più profonde e meno sicure. Con un'insufficiente protezione
sindacale; un sistema di retribuzione, quello a cottimo, che aumentava
i rischi; un ambiente disseminato di pericoli mortali che le società
proprietarie non si curavano di prevenire. Per non parlare degli alloggi:
baracche in lamiera con un accenno di muratura!
Per l'opinione comune il Belgio era un Paese ricco, civile, democratico
e socialmente progredito. Ai minatori italiani si dimostrava con la
faccia più dura.
Dal 1950 al 1953 morirono nelle miniere belghe più di duecento
italiani ed altri ancora perirono o rimasero feriti in seguito, fino
alla catastrofe di Marcinelle che suggellò la sorte dell'accordo
economico citato.
Neppure la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio),
nata nel 1951 per mitigare gli egoismi nazionali e per creare l'unione
economica dell'erigenda Europa, trovò mai l'opportunità
di intervenire decisamente nella situazione belga.
Ciò che raccomandava continuamente ai dirigenti minerari europei
era di intensificare la produzione per proteggere il Mercato Europeo
dalle importazioni americane.
La necessità di braccia era sentita particolarmente nella miniera
"Bois du Cazier", a Marcinelle, sobborgo di Charleroi, una
tra le più vecchie del Belgio. All'antica proprietà
del Bon Bois acquisita dal barone di Cazier all'inizio del 18°
secolo e da questi ribattezzata Bois du Cazier, fu accordata la prima
concessione di estrazione dal re Guglielmo I, nel 1822.
Dopo una necessaria interruzione per le emanazioni di grisou, nel
1899 si costituì un'apposita Società Anonima dell'Estrazione
del Bois du Cazier che acquistò vecchie e nuove concessioni
per una superficie complessiva di 875 ettari e ben nove strati esplorativi.
Nonostante alcune automatizzazioni, la miniera di Marcinelle veniva
classificata di terza categoria; era, cioè, tra le più
ricche di grisou e, quindi, tra le più pericolose. D'altronde,
i minatori precedentemente occupati, proprio per i continui rischi,
avevano preferito cambiare attività.
Fin dal 1953 la citata Società, avendo trovato un buon giacimento
di carbone, decise di costruire un nuovo pozzo, profondo 1.175 metri.
L'attività estrattiva purtroppo si arrestò con la sciagura
del '56, riprese nel '57 e parzialmente nel '63. Si concluse definitivamente
nel 1967.
Secondo una stima tecnica, le riserve da sfruttare avrebbero coperto
un periodo di almeno cento anni.
Come sia accaduta realmente la tragedia appartiene ancora oggi al
campo delle ipotesi. O delle mezze verità. L'epilogo tangibile
è nelle salme restituite dalle viscere della terra. Ciascuna
famiglia le ha accolte quale segno ineluttabile del destino dei minatori.
Con rassegnazione. Con compostezza. A distanza di tanti decenni, la
moglie di un minatore giunto a Marcinelle da pochissimi mesi gli ha
voluto offrire una bara e un sepolcro più dignitosi nel cimitero
di Racale.
Riesumandolo dalla originaria cassa di legno grezzo, lo ha rivisto
quasi intatto e con le gambe necessariamente un po' piegate. Come
lo deposero quel giorno. Per questa donna è deceduto in quel
momento. Soltanto dopo quarant'anni si è sentita una vedova.
Come ogni giorno, quel mercoledì 8 agosto i minatori del turno
di mattina arrivarono col proprio mezzo di trasporto o a piedi al
pozzo "Bois du Cazier". Prima di scendere, cambiarono gli
abiti civili con le tute blu; tuttora sono appesi al soffitto dello
spogliatoio in quella che, sinistramente, è stata definita
"la sala degli appesi". Alle ore 7,45 i 274 minatori si
disposero rapidamente al posto di lavoro assegnato per cominciare
l'attività estrattiva: chi abbatteva, chi svelleva, chi sterrava...talvolta
tossendo...mediamente 600 tonnellate di carbon fossile al giorno.
Improvvisamente il normale frastuono fu rotto da grida e da rumori
insoliti. Una voce, strozzata dal panico, avvisò che il fuoco
si stava propagando dal fondo. Le gallerie cominciarono ad essere
invase da fumo tanto denso da ostacolare qualsiasi movimento. Alcuni
operai erano in difficoltà per l'abbassamento repentino dell'aria;
altri erano in trappola.
Non sapevano - e non avrebbero saputo mai - che le fiamme avevano
investito il piano 975 in seguito al cattivo ingabbiamento. Questa
funzione consisteva nell'introdurre nella gabbia dell'ascensore i
vagoni carichi del carbone estratto. Gli ascensori delle miniere erano
dotati di due accessi opposti dove a mano a mano confluiva ciascun
vagone pieno, espulso automaticamente da quello vuoto. Questa manovra,
che si invertiva alla superficie, nasceva nel fondo della miniera,
nel pozzo di estrazione, ed esigeva la trasmissione di messaggi precisi,
destinati a regolare il trasferimento corretto dei vagoni. Senza il
messaggio, l'ascensore non veniva azionato dall'operaio preposto ai
motori.
L'operaio ingabbiatore, Antonio Iannetta, di Boiano (Roma), si trovava
da appena quattro anni in Belgio. Aveva difficoltà a parlare
e a capire la lingua francese. Come ogni giorno, alle ore 7 dell'8
agosto raggiunse il piano 975, ma già alle 7,50 si allontanò
dal suo posto per spostare un carrello che lo disturbava. Insieme
a lui, ma per altre ragioni, si assentarono altri colleghi. Quando
ritornò riprese la sua funzione, quella di spingere nell'ascensore
un vagone pieno di carbone che, inspiegabilmente, rimase ingabbiato
per metà, mentre quello vuoto non fu espulso che di 35 cm.
Iannetta cercò di tirare questo e di spingere quello pieno
per riattivare l'ascensore, quando la gabbia rimontò improvvisamente.
Nel movimento brusco, il vagone vuoto strappò una putrella
metallica che urtò la condotta d'olio tenuta sotto pressione.
Due cavi elettrici di oltre 500 volts furono tranciati di netto e
le scintille sprigionate infiammarono l'olio, (850 litri!) che, incendiandosi,
colpì immediatamente le impalcature di legno del pozzo. Da
questo pozzo proveniva inoltre l'aria spinta dai ventilatori e che,
aspirata attraverso il pozzo parallelo, percorreva tutte le gallerie
portandovi l'ossigeno e spazzando via il mortale ossido di carbonio.
Quell'ossigeno, vitale ai polmoni dei minatori, era stato l'anima
del fuoco propagatosi fulmineamente. La situazione era oltremodo drammatica.
Non fu facile risalire in superficie, come immediatamente ordinò
il direttore dei lavori, Calicis. Nei pozzi e nelle gallerie, fino
a 1.035 metri di profondità, oltre al fumo denso che già
asfissiava i minatori, si interruppe la corrente elettrica e, pertanto,
il campanello di richiamo suonò a vuoto. Alle 8,25 la centrale
di salvataggio fu messa in allerta: alcuni minatori adibiti a lavori
in superficie tentarono di scendere nei pozzi per portare i primi
soccorsi, pur dotati di mezzi insufficienti. Perfino gli estintori
erano scarsi. Dovettero desistere, nonostante la buona volontà.
Fuori, la gente cominciò ad accorrere alla vista del fumo che
si addensava, annerendo il cielo marcinellese. L'altalena delle notizie,
ora tragiche, ora aperte alla speranza, gettò nell'angoscia
l'intera comunità degli emigranti e, soprattutto, i familiari,
che cominciarono a sostare dietro i cancelli della miniera. Si aggiunsero
i militari con le barelle e le autoambulanze con gli infermieri: si
disposero agli ingressi del pozzo. Soltanto verso le 10,40, cioè
due ore e mezzo dopo l'inizio dell'incendio, si chiamarono i pompieri
della centrale di Marcinelle.
Cominciarono a versare acqua dopo un'altra lunga mezz'ora. Anche le
riserve idriche si dimostrarono insufficienti. Si dovette chiedere
l'intervento dei pompieri di Charleroi, mentre fu cortesemente, ma
fermamente rifiutato l'aiuto offerto dagli esperti minerari di Germania,
Francia e Inghilterra, dotati di apparecchiature modernissime. Perché
fu respinta la loro offerta? Orgoglio nazionale? Per fortuna a1 terzo
giorno dalla sciagura giunsero, senza essere invitati, esperti tedeschi
che pochi mesi prima avevano tratto dal fondo delle miniere di Gelsenkirchen
uomini sepolti vivi a oltre mille metri.
Invece laggiù, al "Bois du Cazier", giacevano decine
e decine di corpi, senza una ferita né una scottatura. Apparentemente
integri. Asfissiati dall'ossido di carbonio. Le operazioni di salvataggio:
penose, condotte troppo lentamente per la folla dei parenti delle
vittime che continuavano ad accalcarsi dietro ai cancelli della miniera,
in ostinata attesa, accompagnata da una massiccia dose di angoscia.
Intorno alle 20,00 di mercoledì giunse il re Baldovino. Nell'abito
di flanella grigia e cravatta nera appariva ancora più triste.
Profondamente commosso. Destinò una considerevole somma del
suo appannaggio personale a tutti i parenti delle vittime.
Alla presenza di molti ministri, delegati della CECA, tecnici, sindacalisti,
industriali, e pur continuando le operazioni di soccorso, il 13 agosto
si svolsero i funerali delle prime sei vittime: due italiani, due
belgi, un polacco e un greco. Dietro le salme, portate a spalla da
minatori in tuta di lavoro e ricoperte delle bandiere dei Paesi di
appartenenza, una folla immensa di gente comune e di rappresentanti
politici del Belgio e dell'Italia: i due Paesi in lutto. Tutti, benché
profondamente commossi, sapevano che prima o poi una tragedia più
grande delle altre li avrebbe riuniti.
Come si sia sviluppata veramente la tragedia nel pozzo "Bois
du Cazier" 1'8 agosto 1956, nessuno lo saprà mai. Men
che meno: Cosimo Ruperto, di Alezio; Carmelo Serrone, di Carpignano
Salentino; Salvatore Cuccinelli, di Gagliano del Capo; Cesario Perdicchia,
di Melissano; Pompeo Bruno, Roberto Corvaglia, Donato Santantonio,
Vito Venneri e Rocco Vita, di Racale; Salvatore Capoccia e Francesco
Palazzo, di Salice Salentino; Pasquale Stifani, di Taurisano; Santo
Martignano, Pasquale Merenda e Salvatore Ventura, di Tuglie.
Un monumento collocato nel dicembre 1996 a Casarano, tenacemente voluto
da un ex minatore, ricorda il loro sacrificio, accogliendo l'eterno
silenzio.
rossella barletta
Trasparenti
emozioni
E' nel nome di
una liquida continuità che Teresa Vella torna periodicamente
a proporre i suoi frutti alla sua terra. I frutti della sua opera
e della sua arte, alla terra che ha dato origini e spinta alla sua
vocazione artistica.
Teresa Vella è di Maglie, la sua terra è dunque qui,
nel Salento.
I frutti ora prevalenti e ultimi della sua attività creativa
sono le sue fusioni di polvere di vetro nelle infuocate fornaci di
Murano. Con queste opere Teresa Vella ha realizzato con successo negli
ultimi anni mostre e installazioni a Otranto, al Museo diocesano e
poi al Castello aragonese, e a Lecce, al Castello Carlo V e alla Galleria
d'arte "Telamone" la scorsa estate, partecipando infine
- con lusinghiere citazioni - alla Triennale d'Arte Sacra della Diocesi
leccese.
Liquida continuità, dicevamo, perché sempre dall'inerte
e iniziale "polvere di vetro" tratta a condizione di rovente
fluidità, nascono liquide creazioni che un soffio d'aria e
d'arte, tecniche antiche e mani esperte cristallizzano subito in forme
di esile leggerezza e funzionale eleganza.
Ecco i vasi o le bottiglie o i grandi piatti increspati da imprevedibili
ondulazioni, dai quali anche emerge l'originalità stilistica
maturata da Teresa Vella nel campo del design come ambito dal quale
nasce l'Oggetto da ammirare oltre che da usare.
Ma accanto fioriscono altrettante liquide formulazioni di emozioni
se si passa alle sculture, nascenti sempre dall'originaria polvere
di vetro. Qui si avverte una tensione passionale che il rigore artistico
vuole spesso ricondurre all'affermazione di un ideale o, qualche volta,
ad una espressione di lirismo se l'ispirazione muove da un altro genere
d'arte, come ad esempio dai versi di una poesia intimamente corrisposta.
E a proposito di arte sull'arte: notevoli risultati ha raggiunto l'estate
scorsa l'ultima esposizione leccese di Teresa Vella, che vedeva poste
in mostra, con le opere in vetro dell'artista salentina, anche le
fotografie che da alcune di esse aveva tratto Stefano Simoni, noto
fotografo d'arte milanese. Una proposta sinergica, si potrebbe dire,
in attuazione di un enunciato comune assunto dai due artisti: "Polvere
di vetro si fa Forma oltre i miei occhi, oltre le mie mani".
Il risultato: come un'emozione posta fra due specchi, quelli delle
due diverse tecniche d'arte, esaltata dai rispettivi punti di vista
dei due autori.
E a proposito ancora di affermazioni di ideali (giacché l'arte
anche a questo giova), va ricordata un'efficacissima opera di Teresa
Vella, donata recentemente alla Croce Rossa leccese. Il tema, quello
della solidarietà alla luce delle ondate di immigrazione ricorrenti
sulle coste salentine: tracce di sofferenza color carminio su un verticale
mare di vetro cui fa riscontro, sull'altra faccia della composizione,
la verde speranza di un prato che invoca generosità a favore
di chiunque si trovi in condizione di bisogno, ma diviene anche esorcismo
contro l'indifferenza di chi, ricco di un benessere magari relativo,
in questo si isola e si nasconde.
Ma se nelle opere in vetro Teresa Vella trova ora maturità
e fluidità espressiva - e lo provano in pochi anni la ricchezza
e la varietà delle sue proposte, - giova ricordare che la sua
nascita all'arte viene da ben altra materia e con percorso completo
e complesso.
Ogni vero artista sa bene che prima di arrivare a inventare e a produrre
forme occorre bene imparare e sapere i segni: e fra i meno facili
da indagare ci sono quelli del legno. E questi sono i primi segni
che Teresa Vella tenta e studia; e in questo materiale afferma subito
il suo amore per le forme. "Ho conosciuto - dice Teresa Vella
- l'emozione della sgorbia prima che della matita e del colore, a
pochi anni". Allude al suo ritrovarsi figlia d'arte in Giuseppe
Vella, il nonno paterno, grande e tuttora indimenticato manipolatore
di materia, soprattutto legno, e grande e determinante modello di
interprete del bello. Dunque Teresa Vella impara ad individuare forme
nelle venature del legno e a ottenerle nella sua riottosa cedevolezza
prima ancora che a inventarle e a tracciarle su foglio o su tela,
sin da bambina. Ma l'espressione artistica va dominata e arricchita
di consapevolezze e di regole perché non resti grossolanamente
nativa. E allora la scuola d'arte a Poggiardo, con maestri ancora
salentini, e poi la laurea al DAMS bolognese con tesi sull'Industrial
Design di Rodolfo Bonetto (altro maestro non ininfluente sulla giovane
magliese) e quindi un inevitabile confronto col mondo produttivo alla
scuola, meglio la palestra, della Domus Academy. Ecco la sintesi storica
di un percorso di logica completezza. La passione iniziale del cavar
forme dalla sostanza dura del legno, la scuola d'arte con l'esercizio
disciplinante delle linee e dei tratti e insieme la sperimentazione
dei materiali e la ricerca e l'accostamento dei colori; infine l'invenzione
delle forme, nell'esattezza razionale dello studio del design industriale,
coniugando estetica e funzione.
E in questa direzione i primi passi professionali e artistici insieme,
allargando il campo alla grafica, con riferimento alla produzione
della grande impresa e della pubblicità. E che importa se sia
un'industria a chiedere l'opera o invece un illuminato committente?
se il produttore d'elettrodomestici più spesso che il mercante
d'arte? Il materiale non conta e il fine diviene secondario alla liberazione
delle esigenze creative.
Da qui l'ortogonale inseguirsi di linee nel plastico di uno stand
espositivo (e minuscoli e precisi simulacri di frigoriferi e lavatrici
assumono quasi luogo e ruolo di edifici e case in un'ideale città
degli elettrodomestici), ecco poi l'invenzione di un "logo"
commerciale, ecco ancora lo studio di forme per una cassaforte che
diviene prezioso oggetto d'arredamento oltre che contenitore rassicurante
d'oggetti preziosi.
Ma la spinta creativa, se la passione d'arte è vera, non può
esaurirsi nel progetto, sia pur appagante, di forme su commissione.
Ecco allora la ricerca di forme d'arte; e fra le tante possibili,
quelle più difficili da invenire e fissare, perché mutevoli
di attimo in attimo in relazione ai tempi e alle temperature: quelle
della polvere di vetro che si fa pasta viva nella vampa del crogiolo
e da liquida indeterminatezza acquista splendente materialità.
E quella polvere originaria, inerte e indistinta, si fa Forma compiuta
e voluta appena l'aria la rapprenda un poco fuor della bocca della
fornace.
Ne nascono opere nelle quali morbidi profili si alternano a geometriche
affermazioni, colori decisi si sposano ad ambrate intonazioni. Stilizzati
e fiammeggianti simulacri di Re e Regine, in rosso vivo di Murano,
si pongono a guardia di invenzioni trasparenti e policrome: inquietanti
vasi di Pandora e santificanti Graal, richiami smeraldini e biblici
alla Prima Tentazione, fermenti sensuali da un Vomere brulicante di
schegge d'oro che delicatamente bacia una zolla ancor verde, Scudi
d'Argento che paiono indurre la centralità della Ragione a
perdersi nella concavità del Desiderio.
E le suggestioni di queste composizioni in polvere di vetro che si
fa Forma oltre l'occhio che le ha intuite e la mano che le ha plasmate
torneranno ora in mostra, per iniziativa benefica e su invito del
Comune di Como, a giugno nello spazio d'arte della ex chiesa di San
Francesco della città del Lario. E dunque si può ben
dire che l'opera di Teresa Vella torna a proporsi nel segno di una
sua liquida continuità, sulle acque del ramo occidentale del
lago di Como che, per la proposta d'arte dell'artista salentina, per
quel mese almeno, volgerà anch'esso a mezzogiorno.
bruno talamonti
Il futuro che
è nei giovani
Perché
la società attuale va alla deriva e quale rimedio proporre?
Una domanda del genere è solo lo stimolo a porsi infinite altre
domande e a trarre conclusioni piuttosto negative e catastrofiche
(che sono poi le più facili). Constatare che la società
italiana va alla deriva non implica, da parte di chi osserva, alcuno
sforzo, né una seria analisi sociale; il difficile, invece,
è porsi nelle condizioni di ricercare le cause con un atteggiamento
costruttivo, di critica e di progetto.
Noi adolescenti siamo venuti al mondo in un periodo di profondi cambiamenti,
in un momento in cui i nostri genitori uscivano da tante "fresche",
luminose, anche se irriverenti, rivoluzioni: da poco più di
dieci anni era passato lo storico 1968 e solo nel 1979 era approvata
la legge sul nuovo Diritto di famiglia. Nasceva la "famiglia
coniugale". Ecco: sembrava che con la libertà delle donne,
tutti i problemi legati alla famiglia stessero per trovare soluzione.
Ancora non si era spento del tutto il dolore per i tanti lutti seminati
nel periodo del terrorismo e degli Anni di Piombo. Di questa parentesi
nera noi abbiamo solo sfumati ricordi, che si confondono e riappaiono
ogni qualvolta al telegiornale si riaprono gli interminabili processi
o in viaggio vediamo, alla stazione di Bologna, quel muro così
assurdo nel disegno. E poi l'orrore riaffiora. E' il disegno diabolico
di una bomba! E poi i morti per droga, le stragi del sabato sera,
i sassi dai cavalcavia, i continui furti a tutti i livelli e le storie
di tante tangenti. Quindi ci siamo: il mio discorso segue la premessa.
Il rischio era di fare una lunga lista di cose che non vanno, di delitti,
di stragi.
Nei volti dei nostri genitori leggiamo la delusione per i loro tanti
progetti caduti e per il crollo di tanti ideali, specie di quello
politico. I nostri genitori, dicevo, cioè la generazione che
ci precede, quelli che si erano creato il mito della "libertà",
i figli del dopoguerra, che hanno subìto un'educazione fascista
di riflesso o hanno sentito l'amarezza di chi nel profondo avversava
la dittatura e la guerra. Per tutta la loro infanzia hanno convissuto
con l'eco di parole quali: Patria, Famiglia, Vittoria, Guerra Fredda,
Nato, Patto di Varsavia, Comecon, Democrazia Cristiana, Comunismo,
Concordato...
Tutte queste e tanta retorica! Allora hanno voluto tentare una via
diversa: vivere di Libertà, concedendone forse un po' troppa
anche ai loro figli. Così, via via, sono caduti dei miti che,
però, forse potevano essere, se vissuti in una giusta misura,
anche Ideali, cioè valori. Primo fra tutti la Famiglia. Divorzi,
separazioni, abbandoni, aborti attaccano continuamente questo nucleo
primario della società, così che essa deve lottare continuamente
per impedire il suo stesso smembramento. Famiglie mononucleari, separati
in casa, ... come si può sperare che l'intera società
progredisca al meglio, se già le sue fondamenta sembrano crollare
?
E la scuola? E' vero che la scuola sa di vecchio, di stantio, ma non
è certo studiando di meno che ci si forma di più, e
non è sicuramente con una classe docente il più delle
volte mediocre che si può sperare di porre le basi di una società
culturalmente solida. E sappiamo quanto importanti siano le nozioni
scolastiche apprese tra i banchi. Esempi quotidiani provenienti dalla
"Padania" ci dimostrano cosa accade quando incivili e rozze
personalità mancano di tali conoscenze. Ultimamente la parola
scuola sembra essere sinonimo di Riforma, ma non ci si rende conto
di quanto sia inutile ogni tentativo se non corroborato da un autentico
entusiasmo verso questa istituzione. Tutto ciò forse può
sembrare provocatorio, ma mi accorgo che, fra tutte le riforme annunciate,
quella che più ha avuto effetto è la più superficiale.
La scuola ha molti problemi, ma non le si può dare solo una
"bacchetta magica" per risolverli. Niente soldi, poche strutture
e sì: i corsi di Recupero che ci concedono, una facciata più
pulita, ma non risolvono le difficoltà alla radice.
Ecco, io, anche contro il mio interesse, mi accorgo che a tutti i
livelli la nostra società manca di credibilità. Tutti
vogliamo tutto nel modo più facile; nessuno, o quasi, accetta
il sacrificio. Abbiamo preso l'abitudine di imporre il nostro pensiero,
pur definendoci "democratici". E come sempre non si dialoga.
Ma a chi dare la colpa? Spesso mi accorgo che noi giovani siamo aggressivi
quando non vediamo chiaro in noi stessi e nei nostri pensieri e nelle
nostre richieste creando così solo modelli vuoti mascherati
di rivoluzione. Allora mi rendo conto che uno dei mali più
profondi e più antichi è il "presumere di avere
ragione", presumere che il "Nostro Piacere" sia l'obiettivo
primario da raggiungere. Riscopro, però, che se per una volta,
in un acceso dibattito per far valere i miei diritti, taccio o accetto
o seguo un consiglio o faccio metà strada per raggiungere l'altro,
il compagno, il genitore, l'insegnante, ... riscopro, dicevo, che
quella rinuncia ad una mia idea mi giova, mi fa "crescere".
E allora scopro l'importanza di ciò che è l'altro. Ed
eccoci nuovamente a sottolineare il significato della famiglia come
prima società dove si impara il rispetto verso il prossimo.
Il discorso si allarga, come temevo all'inizio, e richiede delle risoluzioni
e dei punti fermi.
La nostra società è ad un bivio, ad un punto in cui
ci si deve interrogare e ci si deve ritrovare. E' facile distruggere
i valori tradizionali, il difficile è trovarne dei nuovi altrettanto
validi. E la storia ce lo insegna con i suoi corsi e ricorsi. Così
fu la Rivoluzione francese, così è stato ai nostri giorni
con il crollo di molte ideologie.
Guardiamo al quotidiano. Abbiamo parlato tanto in favore del divorzio,
ma come è bello ritrovarsi a sera, o a tavola, in una famiglia
problematica, ma unita. Tutti insieme a discutere e a scontrarsi per
poi ritrovarsi, e con la gioia di ritrovarsi, dopo aver chiarito veementemente
il proprio punto di vista. E come è costruttivo osservare che,
a volte, una mamma o un papà, pur avendo ragione, non rispondono
ad un'offesa. Stanno in quel momento mettendo un pilastro in più
per reggere la costruzione più bella della loro vita, la scommessa
più grande, che è la loro famiglia. E dentro di me non
posso negare che, quando dei genitori mettono delle buone basi, ci
danno delle incrollabili sicurezze: sono lì, dentro di noi,
e ci danno forza. In questo primo nucleo sociale, noi figli poi abbiamo
il dovere di collaborare, di aiutare, di dare, non solo di ricevere
o pretendere tutto, e pretenderlo perché "siamo giovani
e non abbiamo chiesto noi di nascere".
Teniamo presente che essendo la famiglia la prima cellula sociale,
una società è più forte se pone le sue radici
su una solida educazione familiare. E lo Stato? Lo Stato siamo noi
e dobbiamo sollecitarlo a non venir meno ai suoi doveri. Chiediamo
allo Stato sicurezza, lavoro e leggi giuste, trasparenza, certezze.
Le istituzioni che funzionino, non importa se dovremo pagare più
tasse, importa che tutti le paghino. Non importa studiare di più,
ma che tutti studino con la convinzione che è il loro lavoro.
E che il lavoro ci sia per tutti. Questo è un dovere morale
che la nostra Costituzione ci presenta come un diritto dei popoli
civili già nel suo primo articolo. Famiglia - Legge - Stato.
I Romani avevano una fede incrollabile in questi tre valori; forse
la storia non cambia poi tanto. O forse sì. Perché oggi
ritengo che, tra tante incertezze, noi giovani abbiamo raggiunto una
grande certezza: dobbiamo costruire la Pace ogni giorno. Questo è
già un grande valore raggiunto. Agli altri penseremo di conseguenza,
ma dobbiamo farlo tracciando una via maestra che va, attraverso il
lavoro, alla Solidarietà e alla Generosità verso noi
stessi, la famiglia, il prossimo.
Gli adulti, siano essi genitori, insegnanti, politici, sia pure intransigenti,
abbiano il coraggio di dettare delle regole, ma che queste siano chiare
e mirino ad un obiettivo preciso, sicuro e sappiano spiegarcelo. Noi
adolescenti sentiremo di seguirlo se loro per primi lo seguiranno.
Se loro per primi ce lo porranno come necessità morale, valore.
Trasferendo e modernizzando un po' qualcosa di Cartesio, dando un'interpretazione
un po' personale che passa per qualche ricordo che ho di Socrate,
Platone o del Cristianesimo attraverso Dante ... valore è ciò
che in me sento innato, è l'idea del dover-essere, del Bello,
del Buono, dell'Onesto che è tale per me e per gli altri, lo
è stato e lo sarà. E se un genitore, un'istituzione,
mi pone un modello di "dover-essere", mi fissa regole uguali
per tutti e me ne dà giustificazione, io, pur dovendole accettare
a malincuore, le seguirò.
Proprio in questi giorni mi trovo a studiare le ideologie politiche
illuministiche ed entro in completa sintonia con il pensiero di Rousseau,
il quale parlando di Stato asserisce che "esso è buono
quando sono buoni i suoi cittadini, che accettano spontaneamente di
conformarsi alla volontà generale". Il successo che ne
deriverà: una famiglia forte e unita, una scuola che insegna,
uno Stato che assicura lavoro, giustizia, sanità; questi saranno
i valori che sono possibili da raggiungere. Ed io figlia, alunna,
cittadina, in questa società mi riconoscerò e per essa
sarò disposta a rinunciare a buona parte del mio egoismo.
francesca diletta bortone
Asilo nido
e infanzia abbandonata
Nel n. 2/1994
di questa Rassegna è stato pubblicato un articolo di Vincenzo
Menichella, illustre studioso di problemi dell'infanzia e già
direttore dell'Istituto Provinciale di Assistenza alla Infanzia di
Roma, dal titolo I bambini e la famiglia. Decalogo per l'infanzia.
L'ho letto e riletto, tanto l'ho trovato interessante e stimolante.
Vi si svolge con competenza non comune una disamina della situazione
del bambino e della famiglia nella società attuale; si affrontano
con lucidità, partendo da precise statistiche, le problematiche
dell'infanzia-famiglia, dove il futuro appare più che mai incerto
e dove la lotta tra sostenitori della famiglia, della religione e
della tradizione, da una parte, e sostenitori di una libertà
sfrenata, di un egocentrismo spiccato e di uno svincolo da ogni dovere
morale, dall'altra, si sta svolgendo sotto i nostri occhi, in varie
parti del mondo, e soprattutto nei Paesi che più contano. Mi
sono soffermato su alcuni punti dell'articolo, che intendo sviluppare
brevemente qui di seguito.
L'asilo nido
L'asilo nido è un posto, un servizio, a disposizione della
popolazione, ove vengono portati i bambini da tre mesi (1) fino a
tre anni circa, per alcune ore del giorno, di solito dalle 8 alle
14. Esso deve essere, a mio avviso, un centro di pediatria preventiva
e di puericultura, e non un deposito di bambini, che sostituisca le
fatiche nell'allevamento in famiglia
Tanto più un asilo nido si avvicinerà al concetto di
centro vivo di pediatria preventiva e di puericultura, tanto più
avrà assolto ad un compito importante per la società,
poiché avrà dato alle famiglie un indirizzo da seguire,
nell'età sopra riferita, avrà contribuito a ridurre
al minimo gli incidenti domestici (prima causa di morte e d'invalidità
dei bambini nell'età dell'asilo nido, secondo Menichella),
avrà controllato e indirizzato le vaccinazioni (dell'obbligo
e facoltative), avrà rilevato i dati auxologici, informando
della loro importanza i genitori, avrà curato l'alimentazione
del bambino, sviluppando un dialogo con i genitori stessi e consigliandoli
adeguatamente. Tutto ciò a completamento di quanto il pediatra,
di base o privato che sia, abbia potuto già programmare per
ogni bambino del nido.
Pertanto, la situazione di un asilo nido deve partire dall'esigenza
della madre lavoratrice di sistemare il proprio piccolo, fino a 3
anni, in un certo posto, per alcune ore del giorno, ma deve portare
a una gestione corretta di esso, consistente nella costruzione particolare
dell'asilo nido, che deve tener conto delle esigenze dei bambini fra
3 mesi e 3 anni, con bagni adeguati, sale grandi e meno grandi per
il soggiorno, cucina, ingresso, ambulatorio, ecc., il tutto stabilito
con una certa proporzione tra caseggiato (area) e numero dei bambini
da accogliere: numero di bambini limitato, che non deve superare le
30-40 presenze giornaliere, perché un numero maggiore determina
confusione, chiasso, pianto di molti bambini, difficoltà materiali
nel personale di assistenza; rapporto costante tra bambini, personale
di assistenza e pediatra, perché i bambini si inseriscono gradatamente
in un determinato ambiente e il cambiamento di personale di assistenza
o anche del pediatra, che periodicamente li visita e li controlla,
determina un notevole disagio e insoddisfazione in un gran numero
dei bambini stessi (sarebbe addirittura auspicabile che la Scuola
Materna, che accoglie i bambini dopo i 3 anni, fosse adiacente all'asilo
nido, stabilendosi così un naturale passaggio da un'istituzione
all'altra); gestione del nido unicamente tecnica, cioè affidata
agli operatori del settore; la parte pedagogica (e in essa importantissimo
il gioco correttamente impostato e svolto) deve essere compresa in
quella più vasta, più complicata, più utile al
bambino, come sopra indicato.
La programmazione degli asili nido non deve essere eccessiva e deve
limitarsi a quelli effettivamente necessari alla popolazione, dato
il grande costo sia d'impianto che di gestione che un asilo nido richiede,
ma quelli in funzione devono essere gestiti correttamente.
La madre lavoratrice o il padre lavoratore dovranno essere ascoltati
e seguiti, ma prima si deve effettivamente seguire l'interesse del
bambino, che deve avere la precedenza sugli adulti, nelle gestioni
pubbliche che lo riguardano.
Nella provincia di Lecce, fino all'epoca dello scioglimento dell'ONMI,
avvenuto circa 20 anni fa, questo ente gestiva 12 asili nido nei Comuni
di Lecce, Gallipoli, Casarano, Monteroni, Sannicola, Copertino, Squinzano,
Melpignano, Maglie, Scorrano, Tricase, Galatina. L'asilo nido di Galatina
è stato l'ultimo ad essere messo in funzione, durante gli anni
della direzione provinciale ONMI svolta dal sottoscritto.
Gli asili nido dell'ONMI della provincia di Lecce hanno funzionato
egregiamente: il rapporto con le famiglie degli utenti era ottimo,
la considerazione in cui erano tenuti dalla popolazione notevolissima;
tanto che in due Comuni si verificò, da parte di famiglie abbienti,
una donazione di magnifici stabili all'ONMI, da utilizzare per asili
nido (a Copertino la famiglia Venturi donò un bel palazzo,
al centro del paese, ottimamente utilizzato per questo servizio e
a Sannicola la famiglia Starace donò una splendida villa con
pineta, anch'essa trasformata in asilo nido).
Ora gli asili nido nella provincia di Lecce, dopo l'entrata in vigore
della legge che affida ai Comuni il compito di impiantarli e gestirli,
sono molto più numerosi, ma da varie parti giungono notizie
di cattivi funzionamenti, a volte difficoltosi a volte con sovraffollamento,
o di chiusura di asili nido in diversi Comuni.
Ebbene, tutto ciò deriva da varie cause, ma la prima è
l'aver dato troppa spinta e troppa importanza alla richiesta della
donna madre, desiderosa di sistemare la sua prole in qualche modo
per poter acquistare una libertà di lavoro, ma anche di comportamento
e di usanze, e non aver invece dato l'importanza preminente al bambino,
i cui problemi vanno studiati e risolti con molta attenzione.
Il bambino non è un oggetto. Dai primi mesi di vita ai 3 anni,
egli è una persona, che non riferisce e non sostiene le proprie
esigenze, e quindi i propri diritti. E' guidato dagli altri, ma ha
ugualmente la sua personalità, le sue particolari attrattive,
i suoi particolari bisogni, la sua igiene, la sua alimentazione, la
sua esigenza di prevenzione delle malattie e degli incidenti, prioritariamente
rispetto alla madre e al padre.
L'asilo nido mal condotto può addirittura danneggiare il bambino
e alcuni danneggiamenti in questa età non sono di poco conto,
sia nell'ambito della salute fisica, sia, ancor di più, nell'ambito
della salute mentale e affettiva. Il carattere buono o cattivo, la
docilità o l'aggressività, la socievolezza o l'introversione,
la sincerità o la finzione, e tante altre espressioni della
personalità e dell'animo umano mettono le loro radici proprio
negli anni dell'asilo nido, e molte volte abbiamo la conferma diretta
di quanto sia importante l'operato nostro in quest'età osservando
il bambino, anche piccolo, che ci guarda con molta attenzione, ascolta
quello che gli diciamo, e certamente capisce il senso delle nostre
parole.
Dipende quindi molto da noi lo sviluppo ottimale dei bimbi accolti
negli asili nido. Bisogna però anche dire che la famiglia,
in genere, non deve abdicare per l'asilo nido. La madre, se può,
deve tenerselo in casa e allevarlo nella cura e nell'affetto della
famiglia e col supporto sanitario del pediatra curante. Ove questo
può effettuarsi, io penso che sia da preferire all'affidamento
di un piccolo in un asilo nido. Anche se la famiglia in alcune ore
del giorno si riduce a una zia o a un nonno o nonna, ben vengano questi
personaggi, nelle cure del bimbo, si affianchino ai genitori, nelle
ore in cui mancano, e sicuramente il bimbo capirà e gradirà
questa situazione e crescerà in quell'equilibrio psico-fisico-affettivo
che gli sarà certamente provvidenziale.
L'infanzia
abbandonata
Su questo settore, da sempre, si sono soffermati l'attenzione e l'interesse
delle persone che amministrano la cosa pubblica, o che vi operano
per professione, e della Chiesa, possiamo dire di tutti.
Nel passato, nel mentre la popolazione era notevolmente ridotta rispetto
ai tempi attuali, il numero dei bambini abbandonati era stragrande
e la mortalità infantile, ma anche quella successiva al primo
anno di vita, elevatissima. Pertanto, dopo l'interessamento, per secoli,
di istituzioni religiose, civiche, e anche private verso i bambini
abbandonati, per lo più nelle campagne o sulle pubbliche vie
o vicino le chiese, di solito di notte, o anche nella ruota o torno,
si ebbero molti pubblici dibattiti nei quali si facevano presenti
le condizioni tragiche di questi minori, che venivano allevati molto
malamente, in case malsane, affidati a gente prezzolata e di pochi
scrupoli, alimentati con latte di balia, o più frequentemente
con latte vaccino prelevato e conservato in maniera non igienica,
per cui la maggior parte di loro veniva a morte.
Si decise perciò l'abolizione della ruota e si stabilì,
un po' in tutti i Comuni, la consegna diretta del minore abbandonato
a un apposito "Ufficio di consegna degli esposti". Nella
provincia di Lecce funzionarono molte ruote, in vari Comuni.
A Lecce la ruota venne abolita nel 1898, su sollecitazione dell'illuminato
consigliere provinciale Sebastiano Apostolico Orsini Ducas e per la
deliberazione della giunta comunale, presieduta dal sindaco, avv.
Giuseppe Pellegrino.
La prima casa di accoglienza per bambini abbandonati (i cosiddetti
"gettatelli") fu a Lecce un'abitazione, donata dai coniugi
Di Nohi-Prato, nell'anno 1500, situata all'inizio dell'attuale via
Balbo (una casa a corte). Lo storico locale Iacopo Antonio Ferrari,
vissuto nella seconda metà del Cinquecento, ci dice anche che
lo scopo dei due benemeriti coniugi era quello di sottrarre a quasi
sicura morte bambini neonati abbandonati di notte per le strade e
per le campagne, soccombenti per freddo o per fame o perché
assaliti da cani randagi o da altre bestie. L'utilizzo reale del "brefoptocotrofio"
(così venne intitolata la casa donata dai coniugi Di Nohi)
si verificò verso la metà del '500: essa venne gestita,
dopo lunghissime polemiche, congiuntamente dall'autorità ecclesiastica
e dal Comune e vi funzionava la "ruota" (2).
Rimase tuttavia la cattiva abitudine di depositare, ogni tanto, i
bambini esposti nelle strade o sui gradini di una chiesa (ad esempio,
sui gradini della chiesa delle Scalze), del quale fatto è rimasta
memoria fino ai giorni nostri.
Questo "brefoptocotrofio" avrebbe dovuto salvare molte vite
umane, ma in realtà ne salvò molto poche, perché
la mortalità era spaventosa.
Dopo varie vicissitudini, si passò, come sopra detto, all'abolizione
della ruota sita in via A. Galateo, dirimpetto alla fiancata laterale
dell'Ospedale dello Spirito Santo: la casa dell'ultima ruota si trasformò
in "Ufficio di consegna degli esposti" e fu intitolata ad
Adelaide Cairoli.
Successivamente, i neonati esposti, nati nell'ospedale nuovo "V.
Fazzi", venivano trattenuti in un apposito reparto di questo
ospedale, in condizioni molto disagiate, spesso con due neonati per
culla, con la speranza di un'eventuale adozione, e con mortalità
sempre elevatissima.
Negli anni successivi l'assistenza ai bambini abbandonati venne affidata,
per legge, alle amministrazioni provinciali: a Lecce detta Amministrazione
vi ottemperò mediante l'istituzione del Brefotrofio provinciale,
che venne installato prima nell'ospedale civile "V. Fazzi"
e poi nella "Casa dell'ONMI" di Lecce; questo perché
nel frattempo era sorta l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia,
che, con apposite leggi, tutelava appunto la maternità e l'infanzia
e quindi anche, e soprattutto, l'infanzia abbandonata.
A Lecce il brefotrofio ebbe come direttore, in quel periodo, Eugenio
Romita, successivamente Bruno Panara e, per ultimo, il sottoscritto.
L'ONMI di Lecce ebbe come primo direttore provinciale Luigi Specchia,
quindi Virgilio Giannì e, negli ultimi anni del suo funzionamento,
fino al suo scioglimento, avvenuto nel 1974, il sottoscritto.
Le leggi italiane promulgate a tutela dell'infanzia abbandonata stabilirono
che vi dovesse essere in ogni provincia un Istituto Provinciale di
Assistenza all'Infanzia a sostituire il vecchio brefotrofio, con la
grande modifica di aprire l'istituzione all'esterno, consentire una
maggiore partecipazione dei bambini accolti alla vita che si svolge
tutto intorno e migliorare così la qualità della vita
stessa e le prospettive per il prossimo futuro dei bambini accolti.
A Lecce l'IPAI (Ist. Prov. Ass. Infanzia) cominciò a funzionare
nel 1960, in via Miglietta, ove tuttora funziona. Ne fu ideatore e
primo direttore Eugenio Romita, decano della pediatria leccese, figura
simpatica, gentile, leale, che molti di noi ricordano con vivo sentimento
di amicizia. Successivamente, la direzione passò a Bruno Panara,
oriundo di Chieti, e quindi al sottoscritto, fino al 1988.
L'IPAI di Lecce, negli oltre trent'anni della sua vita, ha avuto uno
sviluppo notevole; oltre ad accogliere i bambini abbandonati che,
fino a pochi anni fa, erano molto numerosi, istituì, nel 1962,
un Centro Immaturi, il primo nella provincia di Lecce, che funzionò
per circa 10 anni; istituì un asilo nido modello, che ha funzionato
fino a pochissimi anni fa; istituì inoltre delle Scuole per
la formazione del personale paramedico infantile (vigilatrici d'infanzia
e puericultrici) e per assistenti sanitari (scuole che sono ancora
in funzione). Pertanto, l'IPAI di Lecce si era inserito nel contesto
sociale e culturale leccese, oltreché in quello sanitario,
apportando notevole utilità alla comunità locale. I
servizi sopra menzionati sono venuti, a mano a mano, meno e l'IPAI
è ora molto ridotto nella sua attività.
Ora, i bambini abbandonati sono diminuiti di numero, e non solo a
Lecce, ma in tutta Italia; le condizioni, che determinavano l'abbandono
dei minori fino a 35-20 anni fa sono venute, in buona parte, meno
(l'indigenza, l'emigrazione, l'arretratezza culturale), mentre persistono
in maniera modesta altre cause di abbandono (anormalità della
madre o di entrambi i genitori, alienazione della madre o di entrambi
i genitori, casi particolari di violenze sessuali, con gravidanze
non volute e non accettate) e, negli ultimi anni, se ne è aggiunta
qualche altra (le tossicodipendenze e, a volte, malattie correlate,
quali AIDS, epatite B e C e l'immigrazione). Pertanto, allo stato,
in provincia di Lecce vi sono pochi minori abbandonati nei primi anni
di vita, diciamo fino ai 4-5 anni, e molti di meno anche oltre tale
età.
Fino a qualche tempo fa i minori più piccoli, fino all'età
indicata, trovavano accoglienza e assistenza adeguata nell'IPAI, mentre
quelli più grandi, cioè dall'età scolare in poi,
trovavano accoglienza e assistenza negli Istituti educativo-assistenziali,
parecchio numerosi in provincia di Lecce (34 istituti con circa 1.000
minori accolti nel 1982, secondo la relazione del Servizio sociale
dell'amministrazione provinciale di Lecce). La legge sull'adozione
speciale, entrata in vigore una trentina di anni fa, ha operato gradatamente
lo svuotamento degli IPAI e parzialmente degli istituti educativo-assistenziali,
con grande giovamento dei minori abbandonati, che sono stati considerati,
per effetto di questa legge, al centro del fenomeno sociale "adozione"
e privilegiati, rispetto ai coniugi adottanti, nell'intervento pubblico
su questo importante atto. A questo punto, nonostante l'intervento
dell'ONMI, negli ultimi anni della sua attività di ispezione
e controllo su tutte le strutture che accolgono minori abbandonati,
intervento avvenuto insieme con i magistrati del Tribunale per i Minorenni,
con le assistenti sociali e con i rappresentanti della Regione, intervento
che aveva migliorato notevolmente le strutture degli Istituti educativo-assistenziali
e la qualità della vita dei bambini accolti, è stata
promulgata vari anni fa una legge che privilegia l'affidamento familiare
di minori in stato di abbandono, rispetto alla collocazione negli
IPAI o negli istituti educativo-assistenziali. E' vero che questo
privilegio è condizionato al fatto che la famiglia affidataria
mantenga e curi i rapporti dei minori con la famiglia d'origine, però,
in pratica, è ben difficile che ciò si ottenga. Sappiamo,
per averle sopra indicate, quali sono le cause dell'abbandono di un
minore.
Non è facile per la famiglia affidataria ottenere un mantenimento
di buoni rapporti con la famiglia d'origine, in modo che il bambino
o i bambini affidati possano spesso, molto spesso, rivedere i genitori
veri, abbracciarli, parlare con loro, sapere che torneranno molto
presto e tante e tante cose che il minore ha bisogno di sentire attraverso
le parole, i gesti e le manifestazioni affettive dei genitori, e non
crollare nella disperazione e nella tristezza quando i genitori vanno
via dalla casa della famiglia affidataria. Quest'ultima viene considerata
dai minori in maniera molto varia e la reazione a questo stato di
cose può portare i minori ad attaccarsi affettivamente alla
famiglia affidataria, specie se i genitori veri sono molto carenti;
e quando, in seguito, per dichiarato stato di adottabilità
stabilito dal Tribunale per i Minorenni verrà fatto l'abbinamento
di uno di questi minori ad una coppia adottante, il minore con molta
probabilità avrà una reazione psico-affettiva notevole,
di sbandamento, di incertezza della realtà, di incertezza della
propria famiglia, di deviazione dai comportamenti normali, di introversione
e di profonda intima depressione.
L'IPAI invece e gli istituti educativo-assistenziali, se ben condotti,
ma specialmente l'IPAI, che accoglie bambini fino a 4-6 anni di vita,
può e deve allevare e assistere nel migliore dei modi i minori
in stato di abbandono e inserire in ogni minore accolto l'idea che
egli si trova con amici e con persone che gli vogliono bene, che lo
trattano bene, che gli sono vicine, ma che non sono il papà
e la mamma, i quali, prima o poi, verranno, e saranno i suoi genitori.
Questa idea è importante che venga sviluppata in ogni minore
accolto in un istituto, perché così egli rimane in attesa
costante di avere la propria famiglia, e particolarmente il papà
e la mamma. Siano essi quelli veri, quando il magistrato minorile
decide per un rientro nella famiglia d'origine, siano quelli adottivi,
il minore li accoglierà a braccia aperte, sia piccolo che grandetto,
vorrà uscire subito con loro, andare a spasso, vedere e avere
qualche giocattolo e non tornare più nell'IPAI o nell'istituto.
Questo è il nodo fondamentale da sciogliere, da cui può
dipendere tutta l'impostazione dell'assistenza all'infanzia abbandonata
nell'epoca attuale. I minori abbandonati sono diminuiti molto di numero:
ben venga questo fenomeno sociale, che ci fa salire parecchio sui
gradini della scala della vera civiltà; ma quei pochi che ancora
ci sono, dobbiamo certamente accoglierli e assisterli bene, in maniera
qualificata, da raggiungere almeno il livello degli anni scorsi. Le
amministrazioni pubbliche, che hanno il dovere di assistere e curare
i minori abbandonati, tengano presente questa necessità e seguano
l'andamento di questo triste fenomeno sociale, che è l'abbandono
dei minori, per intervenire, di conseguenza, nel migliore dei modi.
Non si può programmare e attuare una riduzione di spesa, da
parte degli enti pubblici competenti, sull'assistenza ai bambini abbandonati.
Questi devono rappresentare il primo settore d'intervento pubblico,
più importante di quello degli handicappati, più importante
di quello dei tossicodipendenti, più importante di quello degli
anziani. E, naturalmente, più importante di tutti gli altri.
lorenzo carlino
NOTE
1) La legge italiana dà facoltà alla madre di assistere
il proprio figlio fino al compimento del 3° mese, percependo per
intero la retribuzione lavorativa.
2) Peregrino Scardino, scrittore leccese dei primi anni del '600,
ci fa sapere che un certo numero di orfane era accolto al primo piano
dell'Ospedale dello Spirito Santo e che vi era un impegno da parte
della società leccese per assicurare la dote ad alcune orfane,
che venivano scelte mediante sorteggio.
E' da notare che nella Regola dell'Ordine Monastico di Santo Spirito
(oriundo della Francia) è previsto che i frati di tale Ordine
debbano occuparsi, oltre che degli infermi, anche dell'infanzia abbandonata.