Personaggi meridionali nei film del dopoguerra




Giuseppe Gubitosi
Docente di Storia della Comunicazione di massa - Univ. di Perugia



Uno degli stereotipi più diffusi del meridionale è quello che lo riproduce come un uomo cupo, tendente a vedere il male ovunque e poco disposto a vedere nel futuro un miglioramento della sua condizione esistenziale. Soprattutto, secondo questo stereotipo, il meridionale è molto diffidente, specialmente nei confronti del mondo esterno alla sua terra d'origine. Si avanzano anche molte ipotesi per spiegare questo atteggiamento mentale: dalle catastrofi naturali (i terribili terremoti che hanno colpito il meridione d'Italia nei secoli, le alluvioni, le carestie, le epidemie) alle invasioni straniere; dall'antica miseria dei ceti popolari alla criminalità; dall'arretratezza culturale fino - nei casi più estremi - al clima.
Ma proprio le difficoltà storiche, economiche e sociali incontrate dal Mezzogiorno nel suo tormentato e lento cammino verso la modernità dovrebbero invece indurre a valorizzare l'atteggiamento mentale degli italiani del Sud. Il meridionale non è affatto chiuso nei confronti del mondo, anche se è attento e guardingo, come gli ha insegnato la sua dura esperienza storica. Questa fondamentale attenzione - per non dire apertura - nei confronti degli altri non poteva sfuggire al cinema, che è una delle forme di espressione più capaci di cogliere il fondo dell'anima collettiva. Per lo meno non poteva sfuggire al cinema italiano in un tempo in cui si proponeva principalmente di osservare il comportamento individuale e collettivo degli italiani, ovvero nell'ultimo dopoguerra. Ciò si può capire ripercorrendo con attenzione l'ampia galleria di personaggi meridionali che il cinema italiano ha costruito in quegli anni.
Il primo di questi personaggi che si incontra è, significativamente, un tenore italoamericano, il protagonista di 'O sole mio di Giacomo Gentilomo (1945). Il tenore giunge a Napoli per cercare i gruppi che clandestinamente tentano come possono di tenersi in contatto con gli Alleati che combattono contro i tedeschi. Un tenore, ovvero un amante della musica, del bel canto, lo strumento di comunicazione che i meridionali preferiscono, ma anche un patriota pronto a prendere le armi con i napoletani quando, alla fine di settembre del 1944, iniziano le "quattro giornate" di Napoli.
Ma è un meridionale che vive in America e si è talmente integrato in quella nazione da collaborare con le sue forze armate in guerra. Non meno interessanti sono i personaggi meridionali di Roberto Rossellini, dallo scugnizzo che entra in piena sintonia con un soldato negro d'America in Paisà (1947) a Nannina, "la matta", di Amore (1948), che guarda al cielo, rivolge il suo pensiero a Cristo per sollevare il suo sguardo dalla tragica condizione in cui vive sulla costiera amalfitana.
Non meno interessanti per la loro apertura al mondo esterno sono i personaggi di Eduardo De Filippo. Gennaro Jovine, il protagonista di Napoli milionaria (1950), attraverso la guerra scopre che esiste un mondo anche fuori di Napoli e fa tesoro di questa scoperta. E' questa disponibilità che induce gli americani a nutrire un'immediata simpatia per i napoletani e per le loro canzoni, che di quella disponibilità sono l'espressione. Nel film Napoletani a Milano di Eduardo De Filippo (1953), don Salvatore, il "sindaco" della borgata di Napoli il cui terreno è stato prescelto da un'azienda milanese per costruirvi una fabbrica, fa sapere ai milanesi che quei napoletani poveri sono molto diffidenti nei confronti del progresso, ma è attentissimo a mantenere i suoi concittadini dentro i margini della legalità, perciò conosce il "codice" (non altrimenti indicato nel film) a memoria. E gradualmente conduce i napoletani, sui quali pesano i pregiudizi nei loro confronti diffusi tra i milanesi, ad apprezzare il mondo moderno, fino al punto da decidere di restare a Milano, dove trovano lavoro. Filumena Marturano, la protagonista del film di Eduardo con lo stesso titolo (1951), è talmente moderna da riuscire, naturalmente con l'astuzia, a suscitare il sentimento paterno in un uomo che pareva chiuso nel suo egoismo da ricco.
Quanto a Gennarino e Vincenzino, i due amici di Natale al campo 119 di Francisci (1950), che pure appartengono a ceti socialmente distanti - sono, rispettivamente, un "cocchiere", ovvero un vetturino, e un aristocratico - svolgono un ruolo importante nel gruppo di prigionieri italiani in un campo alleato che festeggia il Natale mettendo insieme gusti, tradizioni e potenzialità creative provenienti da tutta l'Italia. Ma tutti i personaggi del film ritrovano la loro italianità nel Natale. L'unico che sembra geloso della cultura regionale è il siciliano, ma dopo tutto vuole solo che alla tradizione canora siciliana sia dato lo spazio che merita. E sono talmente uniti, tutti quanti, da suscitare la simpatia d'un burbero sergente americano che finisce per unirsi a sua volta a loro per mangiare i tortellini. Riescono, insomma, a comunicare tra loro e a comunicare con gli americani.
Altrettanto può dirsi di Checco (Peppino De Filippo), il napoletano protagonista di Luci del varietà di Fellini e Lattuada (1950). Checco si innamora, vorrebbe tornare giovane e per questo preferisce senza esitare la giovane aspirante soubrette Liliana alla fedele e devota Melina, ma il suo bisogno più vero e profondo è quello di comunicare. Essere "artista" - un macchiettista - è per lui un modo di far pervenire al pubblico i suoi sentimenti più profondi. Perciò all'inizio del film incanta la giovane Liliana con una canzonetta nella quale, ridendo e scherzando, esalta l'amore per i figli. Checco forse è un po' "mammone" - e questo lato del suo carattere riflette un aspetto importante della personalità di Fellini, uno dei suoi creatori - ma è anche legato alla famiglia, un antico e solido valore degli italiani, tanto che vorrebbe fare della sua compagnia di riviste appunto una famiglia, senza paghe e compensi individuali.
Persino "massaro Turi Passalacqua", il discusso capomafia di In nome della legge, di Pietro Germi (1949) - si è detto persino che il personaggio sia nato da un compromesso tra Germi e la mafia siciliana per poter girare il film - ha una dose di intelligenza e di sensibilità sufficiente da capire che sottomettersi alla legge e accettare l'autorità dello Stato è conveniente per tutti, anche per i mafiosi.
E' possibile parlare di "solarità" in questi casi? Certo, la parola è abusata e la si adopera con accezioni molto diverse. Ma è anche vero che essa significa un rapporto diretto con la natura, quello stesso rapporto di cui si parlava alla fine del Settecento per caratterizzare gli abitanti delle regioni mediterranee, inondate di raggi solari, nelle quali la gente vive all'aperto, alla luce del sole. Già in quegli anni, su questa base, si contrapponevano le genti mediterranee a quelle dell'Europa settentrionale, avvolte da nebbie per gran parte dell'anno, abituate a vedere per poco tempo un sole pallido e incapace di riscaldare, e perciò più cupe chiuse in se stesse. Se è così, allora col termine "solare" si fa riferimento a una vista chiara e luminosa, che consente agli uomini che vivono attorno al Mediterraneo di guardare lontano. Perciò il termine "solare" significa anche un forte bisogno di comunicazione. E allora si deve ammettere che questo aspetto è evidente in molti dei personaggi dei film ambientati nel Mezzogiorno nel secondo dopoguerra.
Si pensi al film Enrico Caruso di Giacomo Gentilomo (1951). Il grande tenore, alla cui vicenda biografica è ispirato il film, appare mosso, in tutte le sue azioni, da un insopprimibile bisogno di cantare che lo induce a superare ogni ostacolo, come la miseria e le disgrazie familiari, persino la disciplina che tentano di imporre al giovane Caruso i maestri di canto. Ma questo bisogno di cantare è strettamente legato alla vita all'aria aperta condotta, fin dall'infanzia, da Enrico Caruso a Napoli e quindi a quel forte impulso a comunicare con tutti che solo il canto può soddisfare perché incatena gli altri alla bellissima voce del tenore. Con il canto, Caruso, nel film, riesce persino a comunicare da una chiesa con la madre morente in casa sua. Ma si pensi anche a un personaggio secondario come il maresciallo interpretato da Saro Urzì ne I falsari di Franco Rossi (1950). Il maresciallo è un siciliano cordiale e simpatico, capace di scherzare e di comunicare con tutti, dai cittadini posti sotto il suo controllo ai suoi subordinati. Certo lui fa di questa qualità un valido strumento di lavoro, che gli consente di raccogliere informazioni. Ma è anche una sua qualità, derivante dall'essere un meridionale tanto che appena può se ne va in vespa con un agente a visitare Napoli.
Ma è interessante anche Proibito rubare di Luigi Comencini (1948), un regista che dà tutta l'importanza che meritano al gusto e agli orientamenti del pubblico. Si tratta d'un film sulla ricerca di un rapporto, da parte di un prete, con un gruppo di scugnizzi napoletani incarogniti dalla miseria. E' un rapporto difficile, ma la ricerca è così tenace che infine il prete riesce a stabilirlo e a sottrarre i ragazzi alla criminalità. E ci riesce acquistando almeno parte del carattere dei meridionali, egli che viene da Milano ed è abituato ad un diverso senso della legalità. Si avvicina tanto, don Pietro, ai suoi ragazzi che finisce per condividere con essi anche il carcere. Ma da quel carcere comincia la risalita degli scugnizzi verso la morale cattolica.
Ma ci sono due personaggi meridionali, proposti da Germi in uno dei film più critici verso il Mezzogiorno d'Italia prodotti dal cinema italiano nel dopoguerra, che acquistano quasi un valore paradigmatico. Si tratta di Carmine e Zitamaria, personaggi di Il brigante di Tacca del lupo (1954). A questi due meridionali si deve la sconfitta d'un pericoloso brigante proprio in virtù della loro decisa volontà di non lasciarsi sopraffare dalle norme di comportamento vigenti tra la loro gente. Sono coniugi e infrangono una norma fondamentale, quella per la quale il marito deve ripudiare una moglie violentata, perché si amano e vogliono vivere insieme. L'aiuto che offrono a Giordani, il capitano piemontese incaricato di sconfiggere il brigante Raffa-Raffa, acquista così un valore emblematico: solo l'unificazione con il Nord può consentire ai meridionali di evolversi e di rinnovare il loro soffocante sistema morale.
Non è diverso il carattere dei contadini del Cassinate che ne Il sole di Montecassino, di Giuseppe M. Scotese (1945), vengono scelti da San Benedetto per costruire la sua ricca e prolifica comunità da contrapporre alla furia distruttrice dei barbari. Quei contadini di Montecassino sono più ricettivi dei frati di Subiaco rispetto alla morale cattolica professata da Benedetto, che predica la pace, l'amore, la collaborazione e depreca l'uso della violenza nei rapporti tra popolani e aristocratici. Sono così "solari", quei contadini meridionali, che possono far propria la parola di Benedetto e lo fanno al punto tale da sbalordire il barbaro Zolla, che conosce solo la legge del più forte, dicendogli che seguono Benedetto per amore e per fede, non certo perché egli è il loro padrone. E in tal modo aiutano Benedetto a conquistare persino Zolla, il barbaro venuto dal Nord, a una morale superiore, perché più aperta. Si può parlare di "solarità", infine, anche per Michele Pezza, detto fra' Diavolo, il protagonista di Donne e briganti di Mario Soldati (1950). Simpatico, sorridente, sempre cordiale e allegro, il bandito Michele Pezza riesce a conquistare sia la simpatia dei rivoluzionari francesi, sia quella del re Ferdinando. Ma è anche assennato e profondamente onesto, osservante della legge e della morale. Più che un bandito è un combattente per la patria, in difesa della identità dei napoletani e dei meridionali contro i giacobini francesi, decisi a spazzar via ogni traccia della loro religiosità tradizionale. Di ispirazione antifrancese è anche Vespro siciliano di Giorgio Pàstina (1949). E' un film sulla ribellione dei siciliani contro l'arroganza dei francesi che non rispettano neppure le loro donne. Ma la fiera difesa della propria identità da parte dei siciliani è strettamente legata, in questo film, al paesaggio siciliano del quale il mare è una componente fondamentale. Al centro della vicenda è infatti una coppia di giovani: lei è figlia d'un fornaio e lui è un pescatore. Questi connotati fanno dei due personaggi un importante momento di raccordo tra una vicenda storica e l'ambiente siciliano. Soprattutto li rende "solari". Il film non vede, tuttavia, i siciliani chiusi in se stessi, ma portatori d'una cultura alta e capace di dire molto al mondo intero. Ai popolani infatti, tramite l'eroe del film, Giovanni da Procida, è collegato il grande poeta siciliano Alaimo, che fa della sua poesia un poderoso mezzo di comunicazione universale.
Ma il film più interessante sul Mezzo-giorno, tra quelli realizzati nel dopoguerra, è Processo alla città di Luigi Zampa (1952). E' un film forte sulla camorra e sulle sue durissime leggi, imperniate sulla rigida repressione della infedeltà, del "tradimento" (così è intitolata una canzone composta dal capo della camorra). Ma il personaggio di Antonio Spicacci, interpretato da Amedeo Nazzari, è di grande interesse per chi segue il dibattito che oggi è in atto sul ruolo della magistratura e sul suo rapporto con la politica e il mondo degli affari. Spicacci è fermamente deciso a combattere la corruzione e a contrastare il potere di quell'antistato che è la camorra, come emerge chiaramente da un colloquio tra lui e il capo della camorra, il signor Navona. E' determinato anche a mettere in chiara luce la connessione tra camorra, piccola delinquenza, affari e politica. Lo dimostra quel magistrale balletto di tavoli d'un ristorante che Spicacci orchestra nel corso della sua indagine e che si conclude in una grande tavolata nella quale i piccoli truffatori e i gioiellieri, le prostitute e i membri della congregazione di carità, i camorristi e i gestori di ristoranti tipici locali stanno seduti l'uno accanto all'altro sotto lo sguardo vigile dei più alti esponenti della camorra, che tiene in pugno tutta la città. Ma Spicacci ama la sua città, si sente profondamente legato ad essa e svolge il suo lavoro con lo stesso amore che nutre verso i suoi bambini e sua moglie. Perciò esita molto e tergiversa, in preda a una profonda angoscia, prima di firmare i circa quaranta mandati di cattura contro altrettanti "commercianti, professionisti e personalità cittadine", tutti implicati in quel processo di camorra, perché in un modo o nell'altro ad essa affiliati. Spicacci sa bene cosa significa firmare quei mandati, sa quale danno ciò può arrecare alla sua amata Napoli. Si decide a firmare i mandati di cattura solo dopo aver capito che la sua esitazione ha provocato la morte del giovane Luigino, che voleva lasciare, non senza angosciosi dubbi, la sua città per rifarsi una vita in America insieme alla moglie e al figlio che sta per nascere. E prende la decisione di firmare con enorme dolore, solo perché sa ormai di non avere altra scelta.
Fu un film di grande successo, quello di Zampa. Lo videro con piacere i pubblici di tutte le città d'Italia. Eppure parlava d'una vicenda tipicamente napoletana. Ma il film faceva giungere il suo messaggio a tutti gli italiani. Da Napoli, dal Mezzogiorno, a tutta l'Italia, cogliendo nella condizione dei napoletani un aspetto della condizione di tutti gli italiani. Per di più - ed è questo l'aspetto più importante del film - tratta i suoi temi con delicatezza. Spicacci ha infatti una visione d'insieme molto ampia e non si trova in lui alcuna traccia di "protagonismo".

(3 - continua)


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