Antonio
Verri, nato nel 1949 a Caprarica di Lecce, è morto nel maggio
del 1993, nottetempo, in una strada di campagna, catapultato su un ulivo
secolare da un'auto che, con folle corsa, si schiantò sulla sua
lentissima "Cinquecento".
Ho scelto di pubblicare ora la mia lettura di una delle sue opere più
compatte per ricordarlo a cinque anni dalla morte. Egli appartiene alla
stessa generazione di Salvatore Toma, di Stefano Coppola, di fra' Luigi
De Donno. Tutti tragicamente o immaturamente scomparsi.
Come nelle precedenti puntate sui poeti di Puglia, anche questa volta
l'analisi riguarda un solo testo, dal quale ho cercato e cerco di risalire
alla poetica e alla specificità della Parola di ciascun autore.
Dopo La Betissa
(1987) e I trofei della città di Guisnes (1988), Antonio Verri
vara Il naviglio innocente, Maglie, Erreci, 1990. Si compie così
una trilogia menippea: prose e versi che insieme fanno poesia. Ma
di quale poesia si tratti è detto in un esergale, metapoetico
corsivo che precede le cinque stazioni ("Navi, Mascheroni";
"Ballyhoo"; "Il disertore"; "Verso il declaro";
"La nave Castro") di una deriva per mari mitici, surreali,
onirici: "Essa è la nave che vaga innocua / oggetto, forma
poetica, / preda delle grandi masse d'acqua / mentre tenta di risalire
/ immensa / al grande suo silenzio, al gesto originario". E il
lettore non farà fatica a scoprire, dopo l'iniziale metafora
(nave-poesia), una costante tensione allegorica. Risalire al gesto
originario è giungere al silenzio fetale, innocente, amniotico
("masse d'acque"), all'atto preistorico del Da-sein procedendo
à rebours. Battello ebbro il poeta. Metafora rimbaudiana risemantizzata.
Ma non solo rimbaudiana è la nave: alcaica, oraziana, petrarchesca,
carducciana, dannunziana... Altro però il contesto: il "naviglio"
è incolpevole ("Essa è la nave che vaga, incolpevole")
della negatività del mondo, del suo non senso fucato di logica,
del suo linguaggio razionale, ma, in realtà, babelico, del
suo commercio di segni, della sua efficienza che stritola, uccide.
Sottrarsi a questo Logos significa farsi estraneo, uscire. Ed ecco
la nave: "esclusa [ ... ] ricava il suo senso dal mare a cui
si abbandona". Senza sartìe, senza timone "naviga
nel vuoto / nella dissolvenza dei generi". Ma "regale"
è lo scafo (la poesia) inattingibile per la tribù, pura
la vita di cui è eliotianamente archetipo l'acqua (il mare).
"Immensa forma esclusa": Verri risillaba il sentimento dell'esclusione
in questo manifesto della sua poetica, affidato, come la sua poesia,
a un linguaggio medianico che rivela e trascrive le pulsioni oscure
dell'Es, le visioni allucinate, la follia, le ossessioni, la Vorstellung
del mondo che solo il deragliamento dei sensi produce. Le ossessioni,
per Verri (come per Rilke), sono demoni: se non ci fossero, anche
i suoi angeli volerebbero via. La poesia è liberazione, catarsi.
Smarrirsi è piuttosto ritrovarsi.
Sonnambulismo e delirio gli stati che aprono alla gnosi iniziatica:
la realtà è altra, Ade (invisibile), ineffabile. Solo
Orfeo può attingerla. E' surrealtà, assoluto. In questo
automatismo psichico, il corpo "traballa solitario / sempre più
precario / muto". Genotesto e fenotesto si armonizzano in un
perfetto ordine di corrispondenze.
Afasia, estraneità, esclusione. Tanto più intrigante
la cifra poetica quanto più intuizionistico, metempirico il
processo di distrazione-sottrazione di sé all'oggettualità.
"Essa è la nave che senza risultato / accosta l'orecchio
al suo stesso scafo": auscultazione delle cavità precordiali
che rinserrano, come conchiglie, voci misteriose e millenari silenzi.
"Ascoltare il gran tripudio del pelo d'acqua" è dichiarazione
di poetica in sequenza fin troppo esplicita. Verri, di solito, è
orfico, oracolare. Gaudi, Rimbaud, Campana, Aragon, Breton, Joyce
i suoi maggiori. Ma la dipendenza non è di origine letteraria,
"culta", riflessa. E' spontanea, istintiva. Verri parte
da sé. Indossa lo scafandro di Orfeo, va in trance, poi risale
(riscende) all'Erebo del quotidiano. Doppia se stesso con un processo
di eteronimia, che talvolta realizza con inserti improvvisi ("Cesare
la scruta da lontano, immobile / rapito / i remi fasciati con la paglia
/ per simulare la risacca. / Dal lontano orizzonte gli arriva un suono
/ preciso, metallico / otto arpe che vibrano sul ponte"), interferenze
sul filo della comunicazione fra l'io e l'abissale profondità
del mare-madre. Accensioni di coscienza estemporanee: "Forma
inutile [la nave]. Vuota. Esclusa". Ribatte ancora come la risacca:
assenza, esclusione, inanità. Osso di seppia (il poeta) deietto,
defecato, espulso. Inesorabile il viaggio: "Separa, esclude".
Anche il lessico, pur nella sua polisemia, ruota intorno a un asse
di negatività. Se ne osservino i segni: silenzio, esclusa,
vuoto, dissolvenza, smorfia, esclusa, solitario, precario, muto, senza
risultato, inutile, vuota, esclusa, fine, insensata, muta, silenzio,
senza nessun senso, precario, morti, sommerse, inutile, stordite,
cupa, lontana, superflua, precaria, legno marcio, a caso... Serie
negativa che visualizza assenza e non-senso in una sarabanda semantica
fin troppo insistita, perciò ossessiva, ma insieme denotativa
della sua poetica. Anche il monologo è sintomo di assenza.
Il manifesto procede per sincopate sequenze, composte per intervalla
insaniae: "Non è ancora la fine [ ... ], la fine... Essa
vaga. Inesausta. Muta". Stupore e impotenza: "Come fare
a risalire / questo grande silenzio? / Naviga, smuove, rolla / ancora
attraversa senza nessun senso". La nave raccoglie lo sfrido dell'Essere:
"la continua voce degli amici morti / l'eco continua di grandi
querce sommerse".
Verri è ostaggio del suo envers noire, la sua poesia è
breviario e conoscenza di una realtà che è al di là
delle cose, ma è anche balbettio di sillabe ("due [ ...
] sempre più porose") alla deriva dell'inconscio. Solo
anatre e gabbiani, sparuti come l'anguilla montaliana, popolano i
territori marini del silenzio. La nave si fa labile, superflua, porosa
come le sillabe e l'orizzonte, "legno marcio" che danza
ebbro e imbarca a caso. Poesia del negativo, fondata su un linguaggio
trasversale, fiabesco, attraversato da bizzarre, estravaganti meteoriti
espressionistiche: "Il primogenito dei Berriot aveva scelto proprio
quel giorno per annunciare al mondo di aver scoperto il tracciato
nervoso dell'urlo di centomila spettatori entusiasti: quello stesso
giorno nasceva in lui [ ... ] quell'incontenibile profondo disprezzo
per quelle parti del corpo che considerava così odiose e superflue:
in quella occasione aveva tranciato, per esempio, in un sol colpo,
le orecchie dei suoi amici Bernard, Carl e Donald, noti medievisti"
(In Navi, Mascheroni, p. 18). La stessa sigla H.H. che identifica,
si fa per dire, il primo personaggio de Il naviglio, è data
da due mute. Il racconto è senza economia, procede per piani
intrecciati, sovrapposti, speculari alla magmatica casualità
dell'atto poetico: "Una sofisticatissima rete integrava, in un
amalgama incosciente, dati e suoni e immagini; l'opera continuamente
si nutriva [ ... ]. Dal caldissimo amalgama sarebbero spuntate delle
quantità di segni e oggetti che non avrebbero mai trovato sistemazione
definitiva. L'opera si rinnovava" (p. 25).
Superfetazione di immagini come in un arazzo barocco. Allo scopo Verri
confeziona una parola straniata ("Bolla, buglione, balloon"),
continuamente reinventata, desemantizzata e risemantizzata.
L'antico gioco burchiellesco si fa surrealismo, flusso di coscienza,
stato confusionale (" ... Rompe le acque la nave Castro")
che origina la scrittura. Automatismo psichico.
Un topos verriano è la città, microcosmo recluso dalle
mura. Non una città reale, ma un luogo della mente, joyciana
metafora del caos. Nel Naviglio, come ne I trofei, la città
è Guisnes e ricorda di Joyce l'odisseica Dublino. Joyciano
l'andronimo Stefan. Egli "sa di avere la memoria delle cose,
gli cresce accanto una congerie, un amalgama [ ... ]. Corre sui marciapiedi
di Guisnes e grida che è proprio un angolino del suo grande
cuore a custodire l'enorme universo; non sa che un dilatare silenzioso,
un brusio insistente è in tutta Guisnes, tra i grattacieli,
nelle prigioni, nelle chiese, nelle piazze, nel dormitori, nei cinema,
tra i libri, tra i rumori e le chiacchiere e la confusione di ogni
giorno" (p. 82).
Come non pensare a Joyce? Ma anche a Bosch e a Bruegel, a Dürer.
Al Naviglio Verri consegna la sua, finora più esplicita, visione
del mondo: giostra mostruosa in cui vorticano uomini-oggetti, spettri,
parolesegni senza cifra, fatagioni, smorfie, "curli", nonsenserie,
mostriciattoli. La vita? un ballo (Ballyhoo?) disarmonico, orgiastico,
bacchico. Non è lontano l'universo poetico di Verri da quello
di Fellini. Stessa vena ironico-sarcastica. Nell'uno straniamento
di parole, nell'altro di immagini. Stesso abbandono al più
libero gioco 'fantastico' in forza di una sensitività allucinata
e delirante. "Tutto il mondo è delirio" (Tirso de
Molina) e il delirio è la sola coscienza del mondo. L'opera
di Verri è, in definitiva, un gioco di astragali, o, se si
vuole, un'opera aperta. Spetta al fruitore completarla e chiuderla.
Se ci riesce.
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