Francesco Stampacchia




Nicola Carducci



Vae soli!
Restare se medesimi, coniugare col proprio passato, in coerenza d'ideali non effimeri, il presente, nel turbinio omologante di trasformismi e opportunismi, è il segno che contraddistingue gli ingegni elevati e gli animi grandi. Il leccese Francesco Stampacchia ne costituisce un esempio, ma poco conosciuto dalle più giovani generazioni del secondo dopoguerra.
Come scrittore, poi, avrebbe meritato giudizi più pertinenti e, comunque, una considerazione meno frettolosa, nei pur pletorici repertori e profili storici della letteratura salentina del Novecento (1). Ma si sa: è più comodo rimasticare opinioni correnti che verificarne, in proprio, la validità. E' la sorte toccata ingiustamente a Francesco Stampacchia. Il suo, a dir così, peccato d'origine, letterariamente parlando, risiederebbe nel suo ancoraggio estetico alla tradizione classica, nel mentre il "mondan romore" vociava di futurismo, di avanguardia espressionista o surrealista, di ermetismo e di altri ismi, talvolta tanto chiassosi quanto caduchi. Ma il sentimento della classicità in Stampacchia, come in Fabrizio Colamussi o in Cesare Teofilato, è una griglia critica non una "scuola", una Stimmung non un'etichetta. Sentimento della classicità come umanesimo civile e come tensione storica, non come scolastica mimesi di sbiaditi stampigli; sentimento che corrobora, sin dagli anni della prima giovinezza, il suo impegno politico; e nell'amministrazione cittadina, prima e dopo il ventennio fascista, siede tra i banchi dell'estrema sinistra. Clamoroso un suo discorso pronunciato nel 1908 in Consiglio comunale contro la ratifica di un compromesso, stipulato dal prosindaco Pellegrino con una ditta tedesca, sull'affare della illuminazione pubblica e della tranvia che congiungeva il capoluogo a San Cataldo (2).
Intanto, sul piano strettamente ideologico-politico, la modernità suonava, quanto meno, ambigua e, per citare un solo esempio, il concetto di nazione prevaricava in esasperante nazionalismo, e la secolare misura classica, nelle cose dell'arte, veniva ripudiata in nome del nuovo verbo del paroliberismo. Ecco, Francesco Stampacchia, come altri salentini della sua generazione, non dissociava la "modernità letteraria" dalla "modernità politica", e questa dalla iconoclastia marinettiana.
Per lui, il mito antico immunizzava dall'insinuante virus della volgarità di massa, e non per una visione elitaria della storia, bensì in difesa di valori a suo giudizio intangibili, dalla libertà alla giustizia, alla dignità della persona. Fungeva anche da schermo contro il conformismo, negli anni della acquiescenza alla retorica dell'imperialismo littorio. Di qui la simpatia ideale al simbolo classico della rivolta per antonomasia, Prometeo (3).
In un bel profilo dedicato al nostro scrittore, così puntualizza Michele Tondo: "Non si tratta di uno di quegli umanisti (eruditi) di cui è ricca la provincia italiana. Al contrario, quel che è singolare nello Stampacchia è proprio il continuo ricambio tra una cultura, fatta di solidi studi umanistici e di una larga e approfondita conoscenza della letteratura straniera, e la vita pratica; tra l'impegno civile e politico e la sua opera letteraria"; e ancora: "quel tanto di letteratura, che sempre si accompagna alla sua opera, è da intendersi, carduccianamente e parinianamente, come l'altra faccia di quell'impegno etico e civile che sempre ha ispirato la sua vita" (4). E lo storico Pier Fausto Palumbo scrive che, persino nel ventennio fascista, Francesco Stampacchia fu, dal suo forzato ritiro, "un animatore operoso, insuperabile maestro privato delle giovani leve, nel mentre corrispondeva con coloro che, come Benedetto Croce, erano assunti a segnacolo della resistenza morale del Paese" (5). Un esule in patria dunque, sul quale - come osserva Michele Abbate - le circostanze storiche e ambientali hanno finito per pesare assai più della sua indole discreta e riservata: "in un mondo di faziose chiusure e di gretti particolarismi, in una temperie quale è quella che prevale dovunque la cultura sia concepita al più come elegante orpello o come strumento di carriere accademiche, e non come fonte di progresso morale e di rinnovamento politico" (6).

Elementi di poetica
In ricorrenza del centenario dantesco (1921), celebrato a Lecce con l'affissione di una targa bronzea del Bortone sulla facciata del Palazzo Civico, Francesco Stampacchia pubblica sul settimanale La Provincia di Lecce un articolo che a noi rivela alcuni elementi di fondo della sua concezione dell'arte. Si denuncia il rischio della "frammentarietà" di una "storia estrinseca" dell'arte, cioè di una storia che ignori lo spessore culturale del prodotto artistico: "La storia estrinseca dell'opera d'arte - vi si legge - com'è per tanti riguardi mal sicura, così rischia molto di non cogliere il segno, quando s'attenta incauta a determinazioni troppo particolari e di poca evidenza; senza dire che è frammentaria di natura sua, e più quando l'artista sposi la cultura alla genialità e della diligenza faccia dignitoso abito professionale. Né, poi, l'arte conosce meccanicità di prodotti, ma, quali che ne siano le scaturigini, prossime o remote, dall'inorganico e vario che si travagliava, palese o celato, a fiore della coscienza dell'artista o nei suoi gorghi più profondi, compone quelle unità potenti di vita, che son le nuove creazioni, per chiarificazione lenta o in subitaneo impeto, onde le immagini balenano con luce gioconda alla fantasia che se ne accende" (7). "Intelligenza" e "fantasia", cioè, orazianamente, "ars" e "natura", quale condizione esclusiva della "unità di vita" dell'opera d'arte (8).
Sono postulati che vengono ribaditi nel secondo dopoguerra: l'arte come tecnica e come inventività; l'arte come ipotesi alternativa del reale, come utopia e, al tempo stesso, "vincolo fra gli uomini".
Se sotto l'aspetto ideologico Stampacchia si ritrova nel solco dell'antifascismo crociano, sul versante delle idee sull'arte si stacca nettamente dalla "Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale", mostrando, piuttosto, di risentire delle dottrine positivistiche.
L'engagement civile dell'artista ("naturale", dirà poi Vittorini) riemerge con forza in un altro testo teorico, in polemica con Vittorio Pagano: "Arte sì, ma rivolta all'industria; industria sì, ma sorrisa dall'arte": è il Discorso inaugurale di una mostra di lavori eseguiti dagli alunni della Scuola d'Arte "G. Pellegrino" (9). Siamo sulla sponda dell'umanesimo della scienza e della tecnica, con sorprendente anticipo sulle posizioni del Menabò di Elio Vittorini e Italo Calvino. Nel contempo, contro gli eccessi del neoscientismo, Stampacchia rivendica, come congenito all'uomo, il "bisogno della poesia", la quale, dunque, non muore, perché non si estinguono mai i mutevoli bisogni degli uomini: "L'arte si rinnova come si rinnova tutta la vita: neppure una primavera è in tutto simile a un'altra; ma tutto ciò che rinasce, rinasce nel suo ritmo, che è uno dei ritmi in cui si risolve quello inaccessibile che regge gli infiniti mondi" (10). Stampacchia, insomma, sta con l'ultimo De Sanctis non con Hegel, anche in relazione alla autonomia dell'attività artistica. A rifletter bene, il Bodini di questo arco di anni non è lontano dalle convinzioni di Stampacchia, il quale, fra l'altro, gramscianamente, non confina ai margini, in nome della aristocraticità dell'arte, la "creatività artigianale" (11).
Il principio estetico, poi, che non rifiuta elementi materialistici nel travaglio creativo dell'artista, è formulato nel Discorso del 1948: "Una riflessione attenta facilmente persuade che il fondamento della distinzione dell'arte in pura e applicata non regge, in quanto implica che l'arte che si designa come pura miri soltanto ad appagare il sentimento estetico senza servire mai ad un fine estraneo, senza appoggiarsi e travestire mai e trasfigurare e pervadere la soddisfazione di un altro bisogno, sia esso materiale o spirituale, sia quello di perpetuare il ricordo d'un fatto o d'una persona, sia quello di apparecchiare un luogo di riposo o di preghiera" (12).

La condizione crepuscolare
Bisogna tener presenti queste enunciazioni per cogliere i tratti tipici di una "contemporaneità", che si cela sotto la scorza del classicismo di Francesco Stampacchia. La sua istanza di poesia s'innesta, naturaliter, sul ceppo della "condizione crepuscolare" di un Diego Valeri o di un Marino Moretti ed, entro certi limiti, anche del primo Umberto Saba, di "Trieste e una donna", oltre che del postulato della "poesia onesta": più o meno tutti, figli dello stesso tempo storico e culturale (13).
Il poeta salentino rievoca la vecchia Lecce, con lo stesso trasporto e distacco non ironico del poeta triestino per la sua città:

"Rustiche lucerne di creta / schierate sui davanzali, / sulle sponde dei vecchi mignani, / sui muretti delle terrazze / nelle strade più romite / mentre lungi nelle piazze / fra le bande ferveva la festa, / con che gioia il lucignolo ardeva! / Le vecchie case, / gli antichi architravi / all'ombra della vostra luce / avevano un placido riso / come se rivivessero / il tempo loro più antico" (14).

E' una vena sottile e limpida che sgorga da una condizione di disinganno, tra memoria "crucciosa" e memoria "giuliva", che è la musa bifronte di cui si nutre lo spirito di un animo solitario. E la si riscopre, con insistente ambiguità, nella sezione "Fuochi d'artifizio" e nell'altra, "Tempi lontani". I testi della prima sezione sono ritmicamente scanditi in segmenti polimetri e quelli di "Tempi lontani" in prolungate lasse narrative, il cui diafano modulare precorre la poetica "subliminale" dei giovani Cassola e Cancogni. Qualche esempio: "Fra le leggende di quel vicoletto era anche quella di un peccatore ivi morto senza pentirsi e andato all'inferno, ma che, a edificazione dei vivi, appariva non troppo frequentemente presso la sua casa in forma di bianco fantasma, gridando con voce lugubre il tormento eterno della pece bollente, che è il supplizio più atroce che il popolo sappia immaginare. Di sera più di una volta, giovinetto, da persistenti gridi - Il fantasma! il fantasma - e dal frettoloso accorrere e accalcarsi di donne e ragazzi fui spinto ad aguzzare lo sguardo nel fitto buio di quel vicolo. Ma l'antico peccatore non mi si volle mai rivelare neppure mostrandomi un lembo del camice suo bianco" (15).
Né, certo, potevano mancare nel dolente repêchage figure e realtà di "uomini smessi", emarginati dalla borghesia cittadina in "angusti squallidi tuguri, senza luce, in sudice viuzze strette, dove vecchi e fanciulli, sani e malati se ne stanno al poco sole o all'ombra in compagnia di cani e di gatti e di qualche gallina razzolante fra il ciarpame e la sozzura" (16). Il delicato mannello di "Fuochi d'artifizio" suscitò entusiastici consensi in eccezionali lettori emunctae naris: da Manara Valgimigli a Cesare Foligno, da Raffaele Spongano a Raffaele De Lorenzis (17). Lo scarto espressivo tra "Tempi" e "Fuochi" è pressoché inesistente, e Valgimigli lo identifica con la ragione stessa della poesia, essenziale, parnassiana. Estrapoliamo a caso qualche significativa liaison: "Fra i cardi / selvatici e le spine, / senza sibili, senza / quasi moto di vertebre, / lieve / lungo e nero / e diritto / scompariva" (Il serpente); un testo a struttura versicolare che può richiamare ai lettori più scaltriti di oggi "L'animale" di Franco Fortini, della raccolta Paesaggio con serpente; in entrambi, più vistosamente in Fortini, si adombra l'incondito malum mundi, senza la rinuncia di accenti melici serenanti, più esibiti in Stampacchia. Il nostro poeta però fruga e scava tra le varie forme della vita animale, vegetale e inorganica, quasi col puntiglio del poeta degli Ossi di seppia, in cerca del segreto più riposto, nel viluppo dei fenomeni di natura: "Anche il silenzio, se vi ti raccogli e te ne ritrai; se vi ti oblii e vi ti ritrovi, può darti della vita il sentimento più tragico. La realtà dell'esistere è così consueta alla coscienza che essa non se ne avvede, e, se si potesse giocare di parole, non ne ha coscienza" (Il giardino) (18).

Taedium vitae e "Leggenda natalizia"
Il nostro poeta, con il naturale accumularsi delle esperienze, ha l'impressione, non di rado, di avvertire il "vuoto del mondo", dello svanire del tutto nel nulla: "Che fu della vela / che prima vidi / in un lembo di lontano azzurro / fra cielo e mare? / Della rondine che volò prima / innanzi agli occhi stupiti?" (Che fu?). Un vuoto che solo in parte dirime un evangelico sentimento di solidarietà verso gli esclusi, i diseredati, i derelitti, i poveri di spirito, le cui tranches de vie, apparentemente insignificanti, assumono per Stampacchia, di qua da ogni sedimentazione naturalistica, valenze categoriali di forte segno negativo, per smentire e smascherare illusorie prospettive di vera civiltà ("Le maestre", "La piccola donna", "Pietro il calzolaio", "Don Carmelo") (19). Non senza tremiti, peraltro, di religioso stupore, che, penetrando a fondo nel cuore del poeta, culmina nel "mito di Gesù" della "Leggenda natalizia", il cui latino biblico la rende "solenne come un salmo ed umile come una preghiera", a unanime giudizio dei lettori. Si vorrebbe riportarla qui interamente, anche per far risentire in tutta la sua intatta freschezza la lingua del Pontano più intimo e del Pascoli dei "Poemata Christiana", ma dobbiamo limitarci a qualche sequenza:

Procul abest Roma, procul munera; omnium humanarum rerum procul contagio / Christus est in spelunca, quem e dura silice, silice perfecimus. / Cruore manavit manus nostra; cor nostrum perstrinxit poenitentia longo labore; jeiunia macie affecerunt nos./ Diu laboravimus fidenter; noctu vigilavimus orantes; Christum exoravimus. / At Christus non habitat cor nostrum! / E signo lapideo Christum perfecimus. / Quod mercatoribus ostendebat, quod militibus iter, ostendebat viam Domini. / Adesset quaedam nobis vanitatum omnium imago; triumpharet Dominus de fallaciis omnibus. / Subripuimus signum viatoribus, in specum adduximus; Christum exegimus lapide. / At foveam texit gramen. / Quid cor meum non tegit gratia tua, Domine? / Flore novo renident redolentque saltus et silvae. / At magna solitudo inest agris. / Magna solitudo inest cordi meo [...]. O qui lates, quid usque moraris? [...] Puniceis fulgebant rosis tempora sacra. / Et puniceis rosis flagrabant gramina campi. / Fugiebant armatorum turmae depopulantium. / Christus aderat et ore sereno ostendebat iter (20).

Il poemetto è formato da venti lasse ritmiche, ora brevi ora lunghe, ciascuna fortemente pausata, come a lasciar trasparire, pur nella sofferenza di un'anima ferita, le linee lievi di una sospirosa fiaba e insieme la fibrillazione emotiva di un'allegoria: l'incessante peregrinare dell'uomo nel tempo, sitiens pacis, o anche l'antica inquietudine paolino-agostiniana, calata nella specifica situazione di desolata deiezione dai circuiti della storia. Pubblicato nel 1961, quasi canto del cigno, poco prima che lo cogliesse la morte, il poemetto era stato però concepito e composto "non poche decine di anni innanzi".

Un classicismo allegoricamente risentito
Ma lungo il percorso della vita intellettuale di Francesco Stampacchia, accanto al poeta della memoria esistenziale agisce, con progressiva espansione, il poeta del mito classico, che in essa interferisce a sublimarla in una dimensione altamente civile. Si potrebbe ripetere con Andrea Chénier: "Sur des pensers nouveaux faison des vers antiques", e ne fanno da tramite introduttivo due testi: "Conforto della poesia", di chiara suggestione carducciana ("Da un impeto di vita sorge la strofe di fiamma / e con candida ala s'alza verso l'azzurro, / ma il plumbeo peso dell'altra negra compagna la tira / giù verso il pianto delle terrene cose"), e "Desiderio", in cui nel richiamo fin troppo scoperto a figure della mitologia si coglie, sotteso, lo Streben verso un mondo di serena armonia, sempre svanente: "Tu sei miraggio nella chiara / serenità del cielo sul deserto / dell'infinita sabbia: va il cammello / assetato di sotto alla gran ferza / del sole per la via che non ha traccia" (21).

L'allegoria è ora la figura retorica più rispondente, nel riuso degli elementi mitici (personaggi e situazioni) che possono consentirgli i prediletti classici: da Esiodo a Eschilo, da Virgilio a Ovidio, da Orazio ad Apuleio. Ne "Il ragno" come in "Flora" (poemetti del 1932) il tema goethiano dell'Ewig Weibliche, ripreso nelle sembianze di due fanciulle del popolo, vibra, con grazia alessandrina, del sogno dell'"aurea beltade ond'ebbero / ristoro unico ai mali / le nate a vaneggiar menti mortali" (Foscolo). Nel primo dei due poemetti, la scena è costituita da un lussuoso chiosco in una notte estiva, tra un giuoco d'ombre e di luci lunari; su una mensola, in alto, fa capolino un ragno, innamorato di una bella che dorme, giù, mollemente adagiata su uno strato di larghi guanciali ("Emerge il viso e il seno; da la proda / un braccio sporge, l'altro si distende / lunghesso il fianco"); all'insetto non resta che porre in essere le sue arti di industre tessitore, e avvolge dei suoi fili dorati il volto e il seno della fanciulla, chiudendoli, come farfalla, in un tenue bozzolo; ma non gli basta il contemplarla, a suo modo intende possederla e morde alla dormente il vago fiore delle labbra; è però in agguato la morte suggendone l'essenza ("Ma, poiché il labbro morse, / il fior marcisce e l'assetato cuore / anche di dolce essenza amaro beve").
Non è dunque quello di Stampacchia il viscido ragno di Kafka, simbolo dell'alienazione e della malattia; ci fa piuttosto risalire, in qualche modo, al "Culex" dell'Appendix virgiliana, per quel riscoperto grumo di umanità di cui non sembrano, alla sensibilità di un poeta come Stampacchia, sguarnite nemmeno le infime manifestazioni dell'esistere: "Di sogno e di mistero / sono assetato anch'io".
In "Flora" ci si aggira tra i ruderi di una città ricca di storia, con l'immaginazione il poeta si spinge indietro nel tempo, nell'atmosfera rarefatta delle favole antiche, e rivede nella figura della fanciulla del luogo, "che muove con passo lieve / verso di noi, come la danzatrice / dell'anfora", il sembiante della "odorosa dea" (del foscoliano "Velo delle grazie"?), e il rigido diaframma tra realtà e sogno si infrange (22). In "Psiche" (altro poemetto drammatico del '32), il gusto del mito si arrovella di tristezza, e tuttavia nel leggerlo - scrive Mario Sansone - "veramente si consola l'eterno dolore di noi uomini". La maliosa favola di Apuleio, per citare la fonte più remota e più probabile, si addensa di un pathos e insieme di un simbolismo tipicamente moderno. Le ragioni della giovinezza (Psiche) non reggono alle contraddittorie ragioni del male di vivere (Coro degli anziani), perché, con una sentenza biblica, cara al Leopardi, "qui auget scientiam auget et dolorem". La fanciulla reclama il suo amore della vita, ma gli anziani, con Calderon de la Barca, replicano che "la vida es sueño", che è "uragano che schianta", mostruosamente un misto di "orrore" e di "grazia". Nelle tre "azioni" del poemetto, l'ossimoro e il chiasmo s'inseguono e stridono nelle sequenze del dialogo, nella scansione simbolica dei tre tempi, che sono le tre stagioni della vita umana: l'aurora, il meriggio, il tardo crepuscolo che prelude alla notte del non essere. La giovinetta avvolta in una nube di bianchi veli, che procede cantando tra semicori di giovinette e di giovinetti, incarna il sogno stesso della vita che spunta al mattino e anela a realizzarsi in amore. La attende Eros in vana attesa, mentre il canto dei semicori si viene spegnendo in rimpianto, al crepuscolo, quando la realtà la risospinge verso la notte e il sogno: "Amo e dell'amor mio ombra è il dolore. / Gemo e del gemer mio la voce è canto" (23).
Non meno tragica, per antifrasi, è la "Canzone di Narciso" (del '33), il cui nucleo ruota intorno alla vana ricerca del proprio amore, quale destino inesorabile: "Resta un'ansia in fondo al cuore / l'ansia è amore, l'ansia è sogno. / Chiudi gli occhi, vedi il riso, / apri gli occhi, vedi l'ombra / del tuo sogno". Il richiamo al Narciso delle Metamorfosi di Ovidio è scontato, pur nella diversa connotazione di senso, quale è propria di un uomo del Novecento, come Stampacchia; lo è forse meno un altro, non improbabile, alla Tempesta di Shakespeare, la cui riflessione sulla natura dei sogni si condensa nelle parole di Prospero: "We are such stuff as dreams are made on: and our little life is rounded with a sleep" (Atto IV, sc. I). Né l'ebbrezza orgiastica del "Frammento ditirambico" (del '36: dal poemetto incompiuto "Vendemmiale") indulge ai capricci del baccanale più di quanto non preferisca insistere sulle motivazioni del dubbio nichilistico: "Son l'incoercibile brama dell'essere, / son del perenne vortice l'alito, / son della vita l'eterno bramito, / di là dal tempo l'oblio nell'estasi" (Coro di satiri); e ancora: "Ti dissenno. / Ti sprofondo / nell'eterno inconsapevole". Qui l'assunzione del mito dionisiaco sembra piuttosto ricondurci al giovane Nietzsche della "Geburt der Tragödie", che probabilmente non era sfuggita, per la sua efficacia sovvertitrice di logori schemi, al nostro umanista salentino; anche in considerazione del fatto che Stampacchia riprende, come si è accennato qui dietro, i miti antichi con animo moderno (24).
Siamo, nei secondi anni Trenta, ad una fase di spericolato sperimentalismo di Stampacchia, che non esita pertanto a cimentarsi con l'arduo genere letterario del dramma storico, nel "Savonarola", sempre con l'occhio e la mente rivolti alle vicende europee contemporanee. Altro che classicismo di evasione! Qui Stampacchia riprende, polemicamente ingigantito, il fantasma carducciano di Fra Girolamo, che "pugna e predica / sotto la stola" (dell'inno "A Satana"). Nell'Italia mussoliniana si vengono consumando le conseguenze nefaste della presunta Conciliazione tra Stato e Chiesa del 1929. Stralciamo qualche passaggio: "Non lo diceva / che dei poveri è il regno e che i signori / staranno nella pece? E dunque i Ciompi / in alto e giù i signori"; oppure: "Tetra ombra è il mondo e di sozzura è gorgo". Il frate entra in conflitto col suo tempo, nella sontuosa Firenze laurenziana, e sale intrepido sul rogo, le cui fiamme si mutano in incubi nei sogni del Magnifico. Sulle orme di Pasquale Villari, resiste qui l'immagine della salamandra curiale, sicché il Savonarola di Stampacchia, più che "il profeta cattolico" è, più estensivamente, "il profeta civile", "il riformatore dell'umano pensiero" (25).
Con "Le nozze di Berlingaccio" (scherzo poetico carnevalesco, del '38-'39), si coglie un aspetto insolito della musa di Stampacchia, assai più pungente di quanto non si voglia riconoscere in forza del pregiudizio anticlassicistico. Composto qualche tempo prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, l'autore intende colpire "con l'arma del ridicolo" il diffuso consenso alla "bestia trionfante"; ed anche in questo caso lo soccorre la cultura classica: della "Apocolocintòsis" di Seneca, ad esempio, pur depurata del troppo atroce sarcasmo dello scrittore latino. E' infatti uno "scherzo" in cui l'azione scenica resta volutamente ancorata ad un cronotopo indefinito, per conferire al tutto un'ilare leggerezza quasi conviviale ("Anni vattelapesca / nel paese di Ventresca / sotto il regno di Berlingaccio"); e vi si allegorizza la combutta oscena tra monarchia pseudo-liberal sabauda, ormai in agonia, e l'uomo di Predappio, che veste i panni di Fracasso; non senza il contorno di una maschera sbarazzina e servile, il Pulcinella di turno, che ciurla e ciurma. Il linguaggio è asciutto e scarno, ma per ciò stesso satiricamente più aggressivo, non indulgendo al vezzo salentino del metaforeggiare barocco (26).
Intanto le colonne corazzate di Hitler irrompevano per le pianure e le valli del vecchio continente, e l'animo del nostro esule in patria non regge più sul filo dello "scherzo carnevalesco" ed anzi, a dir così, si affretta a contribuire a scuotere, anche in provincia, "il sonno della ragione". Gli escono così, quasi di getto, gli ultimi suoi poemetti: "I figli di Prometeo", "Alpe" ed "Eufròne", tra il 1938 e il 1941. Non è più il Prometeo incatenato di Eschilo ma il Prometeo liberato di Shelley. Si confidava per lettera il confinato politico Cesare Teofilato, di Francavilla Fontana: "E' grande conforto in tempi di aridità spirituale sapere che dura ancora la nostra tradizione del canto", impresso della "forte bellezza" dell'arte classica; e il vecchio amico Raffaele De Lorenzis collocava il componimento ("I figli di Prometeo") sulla linea che va dai "Sepolcri" foscoliani alla "Ginestra" di Leopardi (27). Nel poemetto l'antagonismo tiranno-eroe della drammaturgia alfieriana risalta in piena luce, di tra le maglie del mito, e tra i personaggi non poteva mancare il "mezzano di turpe mercato", che è il messaggero degli dei; ma Prometeo rivendica, in più, la perpetuità delle ragioni della sua rivolta: "Questi miei figli alla fatica / nati, al dolore e alla gioia fugace / hanno già vinto il tuo potere, o Giove, / e al ciel più vasto il loro sogno vola".
L'Europa deflagra, e la morsa della barbarie stringe popoli e coscienze; si profila tuttavia, al tempo stesso, la forza del "pensiero, bagliore d'eterno mutare", in "Alpe", e il canto dell'amore, del "fraterno appello" in "Eufròne". L'immensità e la possanza del paesaggio alpino suggeriscono "sussurro e silenzio di voci incomprensibili", "amplessi di luce d'innumerabili anella"; paesaggio dunque spiritualizzato, che nulla concede alla concezione materialistica del "De rerum natura" lucreziano e molto invece al poeta filosofo della "infinitudine dei mondi" Giordano Bruno, un ribelle anche lui, con i suoi "eroici furori": "O ansia, non cupida brama / sii impeto puro di luce". In "Eufròne" la divinità eschilea è foriera di luce, e Stampacchia, quasi presago della "resistibile ascesa di Arturo Ui", ripercorre il cammino della storia, sin da quando "l'odio fraterno scoppiò feroce in impeto di belva"; quasi a volersi lasciare per sempre alle spalle i crimini di cui è disseminato quel cammino, al modo dell'Angelus Novus di Paul Klee, per aprirsi infine alla speranza di una apocalittica rigenerazione del mondo: "Ma sorgerà l'aurora dalla fosca / tenebra per un fulgido mattino / che in libero d'amor nodo congiunte / veda le genti e sul pacificato / mondo risplenda di più chiaro raggio".
"In cui rampogna l'antica età la nova"
"Nunc est bibendum, nunc pede libero / pulsanda tellus", sembra gioire finalmente il vecchio poeta, che però non desiste dal ricominciare la sua attività pubblica; ritrova il fervore civile della sua prima giovinezza. "Essere se stessi: questa è la cosa più bella del mondo", aveva detto Montaigne, un altro umanista critico, in tempi, come i suoi, non meno segnati dalle contorsioni trasformistiche delle gens de lettres; e il sognatore di un socialismo dal volto umano non esitò a ricusare l'incarico di epuratore dei numerosi voltagabbana del Ventennio. Francesco Gabrieli, nel ripubblicare il discorso, pronunciato da Stampacchia il 10 gennaio 1944, ad inaugurazione dell'Associazione giovanile "25 luglio", lo ricordava così: "Un uomo, un cittadino e uno studioso cui piacque negli anni della tirannide la victa causa della libertà (la Eleutéria di "Eufròne") e che seppe mantenersi ad essa fedele" (28).
L'endiadi del titolo, "Libertà e giustizia", si riallaccia al momento eroico della resistenza clandestina dei Fratelli Rosselli, e ne inverte il rapporto, non tanto per sottolineare la preminenza della "libertà" sulla "giustizia", quanto per ribadire, della prima, la costitutiva identificazione con la seconda: "La libertà non è assenza di limiti, ma richiede anzi limiti precisi, fondati sulla equità e necessari alla pacifica convivenza di tutti [...]. Tardivi e fallaci interpreti del Machiavelli credettero di potere da lui apprendere arte di tiranneggiare, e non meditarono le parole che sull'amore dei popoli per la libertà scrisse il Segretario fiorentino [...]. La libertà è cosa diversa anzi opposta al concetto che spesso se ne ha: concetto che la farebbe tutrice degli egoismi, laddove il suo trionfo è implicitamente ognora il trionfo dell'equità": concetto che meglio riassumeva nella sentenza di evidente sapore laicamente evangelico: "Riconosci negli altri te stesso". Quindi, con una apparente tautologia di ascendenza marxiana, l'oratore proseguiva: "La libertà è conquista dell'uomo umano [...]. La libertà è vittoria sugli egoismi, che sono il sentimento esagerato e la difesa esagerata dei propri interessi contro eguali, e però legittimi, interessi degli altri [...]. Se noi indicassimo coi nomi di individualismo e socialismo le opposte opinioni e tendenze che con varie gradazioni e sfumature si contrastano nella sfera economica, e col nome di nazionalismo e internazionalismo quelle che contendono nella sfera politica internazionale, non indicheremmo forse inesattamente gli aspetti essenziali del duplice conflitto" (29).
La sorprendente pregnanza di questi concetti giustifica la lunghezza della citazione, e - come conclude Tommaso Fiore - quel discorso proclama un principio, quello di "libertà e giustizia", quali traguardi inscindibili, che "sembrerà rivoluzionario, eversivo ad ogni moderatume, dal tempo dei Trenta tiranni ad oggi" (30).


CENNI BIOGRAFICI
Nato a Lecce nell'aprile del 1878, assorbe giovanissimo gli ideali liberai risorgimentali della vetusta tradizione familiare. Studente al liceo classico "Palmieri", ha fra gli altri, quale docente di storia, un Maestro insigne, Augusto Lizier, studioso del socialismo e autore di un accorsatissimo manuale di storia in tre volumi. Nel 1948, così ricorda il suo alunno: "Uno dei miei migliori che io abbia mai avuto; di quelli che fan sorgere agli insegnanti lo scrupolo di essere stati inferiori al loro compito" (Lettera del 21 gennaio, conservata nell'Archivio di Famiglia). Il suo lavoro d'italiano alla licenza liceale fu premiato con una medaglia di bronzo da una Commissione nazionale presieduta da Giosuè Carducci, "come uno dei migliori componimenti d'esame, svolti in quell'anno (1897) nei vari licei d'Italia". Conseguita la laurea in giurisprudenza, esercitata saltuariamente l'attività forense, attratto più dagli studi letterari. Con Egidio Reale ed altri amici, fonda a Lecce, ai primi del secolo, l'Associazione "Fascio pensiero e azione", d'ispirazione mazziniana. Per il suo antifascismo fu sorvegliato a vista, rischiando il confino, che fu evitato soltanto per non provocare malcontento nella cittadinanza. Alla caduta del fascismo, coprì nel capoluogo vari incarichi pubblici. Morì nel novembre del 1961.
I suoi scritti sono stati raccolti in due volumi, presso Cappelli (Bologna), rispettivamente nel 1965, Sul filo della memoria, a cura di L. M. Personé, e nel 1974, Prose civili e altri scritti, a cura dei familiari (Clorinda, Giulia, Liliana). La bella introduzione di Personé è poi stata ripubblicata nella raccolta "Scrittori italiani, moderni e contemporanei", Firenze, 1968, pp. 165-170.
Un cenno, almeno, merita il prezioso carteggio custodito nel citato Archivio: vi si incontrano nomi di risonanza nazionale, luminari autentici della cultura del secolo: giuristi, letterati, storici; appena qualche nome: Francesco Brandileone, Francesco Cicala, Alfredo Galletti, Attilio Momigliano, Cesare Foligno, Manara Valgimigli, Guido Mazzoni, Raffaele Spongano, Ezio Chiorboli, Luigi Russo, Mario Sansone, Diego Valeri, Marino Moretti, Niccolò Rodolico ... ; ma "non posso ritrar di tutti a pieno, / però che sì mi caccia il lungo terna".


NOTE
1) Ci limitiamo a qualche indicazione: E. Bambi, Stampa e società nel Salento fascista, Manduria, 1981; G. Custodero, Puglia letteraria nel Novecento, Ravenna, 1982; M. Dell'Aquila, Parnaso in Puglia, Bari, 1983; D. Valli, Cento anni di vita letteraria nel Salento 1860-1960, Lecce, 1985; F. Martina, Il fascino di Medusa, Fasano, 1987; M. Marti, La vita culturale, in Aa. Vv., Storia di Lecce. Dall'Unità al secondo dopoguerra, Bari, 1992. Tra i primi interventi di ambito locale meritano di essere citati: E. Panareo, Il Salento nell'epopea risorgimentale, in "Il Campo", a. VII, n.s. settembre 1961, pp. 154-159; R. D'Andrea, Ricordando Francesco Stampacchia, in "La Zagaglia", n. 12, dicembre 1961, pp. 99-105.
2) Il discorso è riportato nel "Bollettino dei Partiti Popolari", 30 agosto 1908. Su Francesco Stampacchia politico, troppo fugaci cenni in M.M. Rizzo, L'élite politica: dal Municipio al Parlamento, nella cit. Storia di Lecce. Nella raccolta Socialisti nel Mezzogiorno: Vito Mario Stampacchia e le lotte politico-sociali in Puglia nell'età giolittiana, a cura di C. G. Donno, Lecce, 1982, la figura di Francesco appare settariamente sfocata; sulla Associazione "Fascio pensiero e azione", fondata, come si accenna nei cenni biografici, da Francesco Stampacchia ed Egidio Reale, ivi, pp. 97-118, ma anzitutto P. Ingusci, L'azione repubblicana di Egidio Reale nell'ambiente politico leccese agli inizi del secolo, in "Quaderni del Ponte", n. 9, 1961, pp. 1-28.
3) Sulla polivalenza ideologica del classicismo, rimando alle pagine magistrali di A. La Penna, La tradizione classica nella cultura italiana, in Documenti, II, della einaudiana Storia d'Italia, pp. 1321-1372, e del medesimo, Le vie dell'anticlassicismo, in "Quaderni di storia", 3, 1976, pp. 1-13, e inoltre al volume densissimo di L. Canfora, Ideologie del classicismo (capp. "Cultura classica e fascismo in Italia" e "Cultura classica e nazismo"), Torino, 1980.
4) M. Tondo, Francesco Stampacchia, Lecce, 1966, p. 5 e in "Convivium", a. XXXVI, n. 1-2, gennaio-aprile, 1968, pp. 192-196. Nel Salento il classicismo filtra anche, se non anzitutto, per il tramite del poeta delle "Odi barbare", su cui cfr. almeno, tra i più recenti, D. Valli, Introduzione a Poeti e prosatori salentini fra Otto e Novecento, Lecce, 1980.
5) P.F. Palumbo, Ricordo di Francesco Stampacchia, in "Studi salentini", a. VI, fasc. XII, dicembre 1962, pp. 386-390, poi rifluito in Patrioti, storici, eruditi salentini, Lecce, 1980, pp. 219-229.
6) M. Abbate, Poeta di libertà, in "La Gazzetta del Mezzogiorno", 21 gennaio 1966.
7) Francesco Stampacchia, La targa a Dante di Bortone, in "La Provincia di Lecce", XXVII, n. 38, ottobre 1921, p. 1, ora compreso nel vol. Prose civili ed altri scritti, pp. 149-153; il passo cit. è a pag. 152. D'ora innanzi ci rifaremo a questa raccolta.
8) Nota oraziana (1925), ivi, pp. 157-166; ma già nell'articolo I poemetti cristiani di G. Pascoli nella traduzione di R. De Lorenzis (1916), ivi, pp. 141-146.
9) Discorso inaugurale di una mostra ..., ivi, pp. 81-88. Lo scontro col giovanissimo Vittorio Pagano, che in "Libera Voce" del 28 febbraio 1947 aveva provocatoriamente intitolato un suo infuocato intervento "L'arte perisce nella Scuola d'Arte" (p. 2), si trascina per qualche tempo e investe anche "Il Tribuno salentino" del 12 marzo 1947. Il Discorso fu pronunciato il 10 ottobre 1948.
10) Discorso, p. 88.
11) Nel Discorso inaugurale dei corsi di disegno e plastica della Scuola "E. Maccagnani", letto ad apertura dell'anno scolastico 1947-48, l'accento batte sulla sintonia tra "lavoro umano", come tecnica che "educa ai mezzi espressivi" (dalla parola alla nota, dal colore alla linea e al volume), e l'arte come "rivelazione d'un mondo di sentimenti e di fantasmi", ivi, p. 69. Ruggero Grieco, in una lettera da Roma-Assemblea Costituente, 30 gennaio 1948, giudica questo discorso di Stampacchia "degno delle migliori tradizioni umanistiche della nostra terra meridionale" (Archivio Francesco Stampacchia).
12) Discorso inaugurale di una mostra ..., cit., p. 82 s.
13) Cfr. N. Tedesco, La condizione crepuscolare, Firenze, 1970; interessanti in proposito le lettere di Valeri e Moretti (Archivio F. Stampacchia).
14) Frammenti, in Prose, cit., p. 309; ma anche Immagini del passato, ivi, pp. 310-314.
15) Il fantasma, nel vol. Sul filo della memoria: prose e versi, p. 32. D'ora innanzi ci rifaremo anche a questa raccolta.
16) Ibidem, p. 38. Queste figure umane colpirono con particolare intensità Tommaso Fiore, che dalla sezione "Tempi lontani" trae, e commenta, ampi brani nel suo opuscolo Francesco Stampacchia, uomo dell'Ottocento, Bari, 1965. Assai suggestiva la prosa "Il giardino" (ivi, pp. 72-79), un monologo di ampio respiro melico e meditativo, il cui impressionismo lascia trasparire il risentimento dell'uomo per la "vita offesa", e il conseguente anelito ad una confidenziale comunione con la natura. Suggestioni pascoliane, ma che derivano da una matrice culturale comune: la poesia georgico-esiodea e virgiliana.
17) Rispettivamente, lettere da Padova (30 settembre 1961), da Napoli (20 settembre 1961), da Bologna (27 ottobre 1961), da Avellino (17 ottobre 1933), (Archivio F. Stampacchia).
18) Il giardino, cit., pp. 77 s. I due testi "Il serpente" e "Vecchia lucerna", nella sezione "Fuochi d'artifizio", rispettivamente, pp. 91 e 101, del vol. cit. Sul filo della memoria.
19) Nella sezione Tempi lontani (racconti), ivi, pp. 33 ss., 42 s., 45 s., 48 s.
20) Leggenda natalizia, ivi, pp. 229-241. Scrive L. M. Personé (in "La Gazzetta del Mezzogiorno", 26 agosto 1961): "Deve essere nata da un particolare stato d'animo di afflizione e di speranza: in uno di quei momenti bui, nei quali non si ha neanche il conforto delle lagrime o di sentire un cuore che palpita, ma al suo posto pare che si trovi una pietra" (p. 3). Trascriviamo ora la traduzione, quale risulta a fronte: "Roma è lungi, lungi gli onori, lungi il contagio di ogni umana cosa. Cristo è nella spelonca, che di dura selce foggiammo con la selce. Grondò sangue la nostra mano; il pentimento strinse il nostro cuore nel lungo lavoro; i digiuni ci dimagrirono. Lavorammo a lungo fidenti, vegliammo la notte in preghiera; implorammo Cristo. Ma Cristo non abita il nostro cuore. Formammo Cristo d'una pietra miliare. Ciò che segnava il cammino ai mercanti, ai soldati, indicasse la via del Signore. Ci fosse presente un'immagine di tutte le vanità, trionfasse il Signore, di tutte le cose vane. Togliemmo il segno ai viandanti, lo portammo nella spelonca; dalla pietra facemmo Cristo. Ma l'erba colmò la fossa. Perché la tua grazia non colma il mio cuore, o Signore? Di fiori nuovi splendono e olezzano i boschi e le selve. Ma grande solitudine è nei campi. Grande solitudine è nel mio cuore... O tu che sei nascosto, perché ancora indugi?... Le sacre tempie fulgevano di rose vermiglie. E di rose vermiglie fiammeggiavano l'erbe dei campi. Le torme dei saccheggiatori armati fuggivano. Cristo era vicino e con viso sereno mi mostrava il cammino".
21) Conforto della poesia e Desiderio, ivi, pp. 122 e 135 ss.
22) Il Ragno e Flora, ivi, pp. 139-144 e 161-165.
23) Psiche, ivi, pp. 147-160. Il poemetto drammatico è anche corredato di essenziali didascalie, che ne agevolano la comprensione esegetica, sia in ordine alla filigrana allegorica sia in rapporto allo spessore culturale, di derivazione letteraria, classica e moderna. Lucidamente pertinenti le pagine a riguardo di E.M. Fusco, Poesia e pensiero, Bologna, 1966, pp. 364-367.
24) La canzone di Narciso e Frammento ditirambico, ivi, rispettivamente pp. 167-172 e 173-180. Non va, intanto, sottovalutato il sicuro dominio degli strumenti metrici, nella produzione in versi del nostro autore, che ne adegua ritmi, assonanze, e rime, anche interne, oltre ai frequenti enjambements, alle esigenze di una Spannung ora classicamente controllata ed ora romanticamente eruttiva.
25) Savonarola, in Prose civili, cit., pp. 325-388.
26) Le nozze di Berlingaccio, ivi, pp. 391-421. Per il periodo della incubazione, v. la notazione a p. 7 della Premessa al vol. Prose civili. Giova precisare che qui Pulcinella è meno la maschera della filosofia del "tirare a campare", a suo modo tragica, e assai più l'altra, buffonesca e ridanciana.
27) I figli di Prometeo, Alpe, Eufròne, in Sul filo della memoria, pp. 183-197, 199-204, 207-225. Per Teofilato cfr. lettera del 24 settembre 1940, e per De Lorenzis, lettera dell'1 gennaio 1942. Sulla figura e l'opera di Teofilato fa luce la monografia di G. Trisolino, Libertino e libertario. La poesia di Cesare Teofilato, Ravenna, 1991.
28) Libertà e giustizia, in Prose civili, pp. 15-27; il passo di Francesco Gabrieli, l'insigne arabista, si legge nel Prologo, in "Rassegna pugliese", a. I, n. 1, gennaio 1966, p. 3.
29) Ivi, pp. 16 ss. Su talune fuorvianti interpretazioni del pensiero del Segretario fiorentino in epoca fascista, cfr. C.F. Goffis, Niccolò Machiavelli, in Aa. Vv., I classici nella storia della critica, vol. I, Firenze, 1954, specialmente le pagine dedicate a Francesco Ercole, cui va imputata la clamorosa deformazione in senso assolutistico statolatrico, sotto l'influenza delle idee gentiliane e treitschkiane.
30) T. Fiore, Francesco Stampacchia, cit., p. 12.


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