La
cultura d'oggi e anche la storia ne parlano il meno possibile. Con riconoscimenti
sempre largamente postumi. D'altra parte, lo stesso riferimento allo
Stato è frequentemente aggirato. Se ne parla e si scrive per
il "Welfare", per il ministro segretario di Stato, per il
Consiglio di Stato, per il ragioniere generale dello Stato, per il segreto
di Stato e così via. L'identità però è specificata
dalla forma di Stato, con la sottolineatura dei suoi elementi costitutivi,
il più delle volte suggerita dai tempi e pure dalla molto mutevole
dialettica politica.
In questo ambito, nel quale - come si sa - due sono le forme di Stato
esistenti (a parte quelle che mimetizzano arbitrio, antidemocrazia,
dittatura) e cioè quella unitaria e quella federale, emergono
gli uomini: molto di più di quanto per essi i vocabolari definiscano
la capacità di governo di uno Stato. E questi non di rado ne
sono solo aspiranti.
Nella prima parte di questo secolo, gli Uomini ai quali questa alta
qualifica va attribuita sono stati, sia in Italia sia in tanta parte
del mondo, tutt'altro che numerosi. E a me capita di poter dedicare
a taluni di essi i miei tentativi di "medaglioncini", come
mi piace definirli, avendoli conosciuti o semplicemente incontrati,
ricavandone comunque spunti anche caratteriali, quali testimonianze
ovviamente in margine.
Ricorrono così, in una cronologia riguardante la presidenza del
Consiglio dei ministri, Giolitti, Salandra, Orlando, Nitti. C'è
poi la lunga, ma meno lontana, parentesi del "ventennio",
che in termini di storia e cronaca è molto più alle nostre
spalle di quanto non lo siano i primi lustri di questo secolo.
Prima di questa parentesi c'è anche un aspirante a tutto, che
è Gabriele D'Annunzio, e quindi c'è la Repubblica, con
gli aspiranti in schiacciante soprannumero, con un Togliatti o un Nenni
che vanamente vi hanno aspirato - il 1948 non è stato loro propizio
-, con un Saragat e Gronchi che come Presidenti della Repubblica ne
hanno certamente titolo, con un De Gasperi che lo è stato indubbiamente
e da vero statista ha lasciato certo orme indelebili. Orme tanto più
profonde, quanto più da lui ritenute solo dovute, come servizio.
Della stessa tempra, De Nicola, Capo provvisorio dello Stato (1946-'48)
ed Einaudi, anch'egli Presidente della Repubblica, ma con una netta
prevalenza dottrinaria e operativa in campo economico e probabilmente
con una spazialità indotta in certi campi, quali quelli politici
e amministrativi.
E poi, innanzi a noi, c'è il panorama della seconda metà
di questo secolo che ha avuto la sorte di essere costantemente "in
fieri". I consuntivi, come i progetti, parlano chiaro a questo
riguardo, con il sopravvento della dialettica sulla strategia, oggi
in incompleta gestazione, e culture, ruoli, ecc. ancora di uso difficile
e incerto.
Perciò siamo ancora sprovvisti di questa lunghezza d'onda, di
cui del resto non è doviziosa larga parte del mondo occidentale,
anche perché in esso, a parte talune figure esemplarmente emblematiche
- e ognuno ha le sue -, si sono distinti sì taluni personaggi
folgoranti, che hanno legato il loro nome a intuizioni anticipatrici
o a singoli non ripetibili momenti, ma non sono riusciti ad elevarsi
alle altitudini della grande politica. Anche su questo terreno spesso
noi siamo più indietro degli altri. E qui, come è evidente,
il discorso rischia di farsi lungo e lo evitiamo perché nel caso
inutilmente ambizioso.
Giovanni Giolitti
fra Salvemini e Ansaldo
Un capostipite è Giovanni Giolitti. E' in questa mia personale
galleria di "medaglioncini" perché da adolescente,
e quindi nel 1925-'26, lo vedevo spesso arrivare all'angolo di via
XX Settembre con il ministero dell'Agricoltura vestito con un tight
di un blu più avio, come si direbbe oggi (ieri colore carta
da pasta), che marina, con un grosso cappello grigio: il tutto che
aveva a che fare con la sua origine di Mondovì, con la sua
militanza di liberale di sinistra, con l'attitudine amministrativistica
che cercava un riscontro anche nell'abbigliamento. La sua "palandrana"
era perciò il suo distintivo, che la satira politica per conto
suo emblematizzava. Figuriamoci quanto questa figura dovesse incuriosire
un adolescente come me, richiamato anche dal ricorrente incontro,
vivacemente dialogato, fra uno statista e un giornalaio, che gli anni
avevano reso veterano e traballante all'angolo dell'edicola.
Giolitti che era seguito, anzi pedinato da un agente nella pomeridiana
passeggiata da via Cavour a Porta Pia, faceva regolarmente questa
sosta: un piacevole appuntamento per lui, l'occasione per l'altro
di illustrare un quadernetto che aveva stampato a sue spese, e che
da analfabeta aveva scritto, e che vendeva a 24 soldi. Il quadernetto
era intitolato: "Omne trinum est perfectum", ma qualcuno
a quei tempi raccontava che un autorevole ras fascista traducesse
la frase: "in ogni treno c'è un prefetto".
Giolitti e il giornalaio erano alieni da questa malignità e
perciò duellavano (piacevolmente per me) perché ognuno
parlava per conto proprio e Giolitti in particolare pensava alle cose
sue. Mai nella sua vita allegre.
E' entrato e uscito nella e dalla vita politica quasi sempre in momenti
storici. Le vicende della Banca Romana - da cui prese corpo un volume
di Salvemini dal titolo Il Ministro della mala vita, cui molti anni
dopo seguì per motivata contrapposizione uno di Giovanni Ansaldo:
Il ministro della buona vita -, della guerra alla Turchia, della politica
di neutralità nella prima guerra mondiale motivata con "il
parecchio" che egli intravvedeva in contropartite che non ci
furono, della strategia adottata per evitare nel primo dopoguerra
lo sbocco nella successiva dittatura sono altrettanti momenti di una
vita cui la storia non poteva sottrarre il riconoscimento della tempra
di uno statista.
Ma forse, oggi, l'attualità maggiore dell'Uomo è in
una frase da lui pronunciata nel 1913. Eccola: "La legge si applica,
per gli amici si interpreta". La sua era una constatazione, ma
era soprattutto un ammonimento. Inizio e conclusione di un secolo
hanno a che fare con queste poche parole. Avvertimento e limiti. Perenne
insegnamento.
Ma qualcosa devo ancora aggiungerla, sempre per collegate conoscenze
personali. Una ha a che fare con Marcello Soleri, nato anch'egli cuneese,
ministro delle Finanze del governo Facta nell'ottobre del '22, di
un governo che doveva essere preparatorio di un governo Giolitti,
che la sopravvenuta "marcia su Roma" asportò dalla
storia, come avvenne ai cavalli di Frisia di Ponte Cavour, che preparavano
ad uno stato di assedio repentinamente revocato, con i manifesti che
erano stati già affissi. Soleri era noto durante il fascismo
soprattutto perché indossava un cappello a larghissime falde,
di un grigio smaccato. Con la liberazione, Soleri divenne ministro
del Tesoro ed io in tale sua veste lo conobbi al ministero, in via
XX Settembre. Parlammo unicamente della lira, ma lui aveva a che fare,
come del resto tutti, con le amlire, e con un'inflazione che cominciava
a correre con il "in fine velocior" che dagli anni 80 è
divenuto quello che conosciamo. Soleri morì un anno dopo. E
da allora la mano passò ad un altro cuneese, Luigi Einaudi,
prima ricordato.
Un altro nome che i miei ricordi e le sopravvenute conoscenze personali
legano a Giolitti è quello del giornalista Giovanni Ansaldo.
Come si sa, ha fatto scelte ideologiche e per lui, giornalista, anche
professionali estremamente contraddittorie, e in momenti che dovevano
mettere alla prova la validità di intuizioni, che invece non
c'è stata.
Il suo tecnicismo professionale è invece fuori discussione,
con le prove che emergono dalla sua capacità direttoriale,
con l'estrema validità delle fonti da cui il suo lavoro era
animato, con l'amalgama che riusciva a costruire con le sue amicizie,
con l'intercambiabilità che pur naturale veniva curata.
C'è nel suo volume dedicato appunto a Giolitti un elenco di
nomi di persone che lo hanno aiutato nella realizzazione di questa
biografia. Ci sono nomi di persone che io ho frequentato e nelle quali
sono riconoscibili tratti che sono gli stessi dei suoi. Questi non
avevano, è vero, il bastone di Ansaldo che a lui dava forza
e prestanza, come quello di Prezzolini. Ma Ansaldo era il prototipo
di un giornalismo che con la Lettera 22 e più spesso la sola
penna ha scandito la massima parte del secolo, e frequentemente ha
dato il crisma ad incontri vicendevolmente al massimo livello fra
firme di nostri colleghi e veri e propri statisti. E qui non c'è
alcun rimpianto di tempi andati, ma solo constatazione di una pausa
o di un nuovo che si prepara, tuttora in mano ad una fantasia o a
una creatività alla ricerca del loro porto d'approdo. La navigazione
per tutti è più veloce, ma non dimentichiamo che da
poco ha lasciato gli ormeggi.
In poco meno
di un lustro tre veri statisti
Nei primi vent'anni del secolo tre altri autentici statisti hanno
dato prova di sé nel Paese. A me è occorso per i primi
due averli come maestri alla Sapienza di Roma e per il terzo averlo
ospite della mia famiglia nel "palazzo" avito. E' nato a
Melfi, come me: lui nel 1860, io nel 1909. A me, come adolescente,
è occorso di stare sulle sue ginocchia, come anche oggi insegna
ai politici la loro promozione elettorale. Gli adolescenti non sono,
come si sa, elettori, ma probabilmente potranno esserlo, perché
i partiti sono molto prolifici di idee e sanno soprattutto come vanno
strumentalizzate. Comunque vi sono i loro parenti elettori da edulcorare
anche così. Antonio Salandra è senz'altro da considerarsi
statista, non foss'altro perché è stato Presidente del
Consiglio nel periodo 1914-16, ha denunciato la Triplice Alleanza
e ha dichiarato la guerra all'Austria. Era anche lui liberale, ma
genericamente di destra. Giolitti, come si è detto, era anche
lui liberale, ma di sinistra. E questa differenza l'aveva condotto
a suggerire alla sua linea politica la neutralità. D'altra
parte, si sa che il socialismo con l'eccezione di Mussolini era contrario
alla guerra. Ma queste, con quanto è avvenuto poi, sono superflue
sottigliezze.
Salandra è stato mio maestro alla Sapienza. Non aveva nulla
di fiero nella sua persona. Una persona anonima, a cominciare dall'abbigliamento,
che era tanto spersonalizzato da apparire quello di un collegio. Il
punto di riferimento per noi studenti era più il fatto che
regolarmente si faceva accompagnare dalla figlia (la cui avvenenza
non era tale da suscitare in noi studenti postumi ricordi) che non
i libri che aveva scritto e che ci venivano somministrati nelle cosiddette
dispense. Le stampava con riproduzioni di una calligrafia a mano una
stamperia che si chiamava Sampaolesi, in una strada aderente alla
Sapienza e successivamente demolita per fare posto a un corso che
mi sembra si chiami Rinascimento, semplice accesso a Corso Vittorio.
Per Sampaolesi erano importanti prima che gli autori gli studenti:
compratori sicuri, anzi preventivamente computabili. Con questi facili
conteggi le dispense erano disponibili presso le due portinerie della
Sapienza: da Virgilio al portone principale, da Barluzzi al primo
piano. Quando ci chiamavano avvocati nei quattro anni del corso, ma
dottori all'uscita dal salone dove avevamo discusso (?) la nostra
tesi di laurea.
Vittorio Emanuele Orlando è stato a sua volta l'altro nostro
professore del tempo e già Presidente del Consiglio, nel periodo
1917-'19, il presidente della vittoria, dimissionario alla fine della
guerra, nondimeno Presidente della delegazione alla Confe-renza della
Pace nel 1919.
Negli anni successivi aveva continuato a fare il professore di Diritto
costituzionale. Aveva un comportamento autorevole, nel quale il suo
bastone di malacca con il manico d'avorio faceva la sua parte. Il
resto lo facevano un abito blu di buon taglio, una lobbia di un grigio
regolamentare, un paio di baffi bianchi tutt'altro che prepotenti.
Un siciliano di ottima esportazione.
Fra l'altro uomo politico veramente di vertice e docente semplicemente
cooptato per il livello dei suoi studi. L'insegnante vero di un tempo.
Ovviamente, con queste caratteristiche, insofferente antifascista,
non tale però da non consentirgli di rendersi disponibile durante
la guerra etiopica: "disponibile per qualsiasi compito di servizio".
Gli antifascisti, dopo, glielo hanno contestato. I fascisti se ne
servirono solo come motivo promozionale. Lo statista, comunque, c'era
stato, anche se i suoi detrattori hanno sempre propagandato che Orlando
a Versailles si era messo a piangere quando alla lettura del Trattato
di Pace non aveva sentito il nome dell'Italia. Di un'Italia che si
disse mutilata, con l'assegnazione di mandati che non ci fu, con un
Oltre Giuba che la Gran Bretagna cedette all'Italia anni dopo ed una
Somalia che così poté acquisire una maggiore dimensione,
sempre però con un porto solo virtuale. Orlando questa storia
non l'insegnava, ma ci insegnava anche uno Stato costituzionale che
anch'esso non c'era. I corsi di certi professori universitari erano
allora impostati sulle astrazioni di una scienza pura che esulava
da classificazioni di reali e applicati modi di essere.
Nel secondo dopoguerra - durante il quale mai più mi occorse
di incontrarlo - Orlando acquistò una combattività siciliana
certamente maggiore di quella che fino ad allora aveva manifestato.
C'era, ma incolto, l'indipendentismo siciliano, che invano però
ha cercato di scalfire l'unità nazionale, ma certamente prospettava
stati d'animo e attitudini comportanti una caratterizzata sensibilizzazione
siciliana. Cosicché ad una certa fierezza nel luglio del '47
si ispira l'avversione di Orlando al Trattato di Pace, con l'invito
ai costituenti a rinviarne la ratifica. Orlando ha solo 87 anni e
la sua carriera politica avrebbe avuto certamente ancora qualche anno
da spendere. Ciò non avvenne perché egli era avverso
a quella svolta atlantica, che è stata invece la premessa dell'occidentalizzazione
piena nella libertà scaturita dalle elezioni del 1948.
Siffatta deviazione di Orlando dalle ragioni ideali di tutta la sua
vita politica e di studioso gli rese solo - triste destino - l'elogio
che in occasione della sua morte, avvenuta l'1 dicembre 1951, ne fece
Palmiro Togliatti, che riconobbe nello statista "l'assertore
e difensore tenace, ostinato dell'indipendenza, della libertà,
dell'autonomia dello Stato italiano di fronte al "ruere in servitutem
degli uomini di oggi"".
L'avventurismo ideologico e strategico di Togliatti ha voluto lasciarci
anche questo squallido segno, che la dice lunga sulla successiva evoluzione
politica e sulle radici di una parte dello stesso odierno ancora auspicato
pieno bipolarismo perfetto. Ciò che sta a significare che i
corsi e ricorsi nelle nostre sinistre non si sono ancora esauriti
e la linearità delle condotte e delle scelte di fondo è
ancora lontana dall'alba. Altri invece possono rivendicarla e noi
abbiamo avuto, anzi scelto la ventura, di essere rigorosamente fermi
e coerenti con noi stessi sulla strada opposta a questa sinistra,
che non riesce a stare in pace con se stessa.
Orlando è morto nel 1952, a 92 anni. Ha saputo qualcosa anche
della Repubblica, che credo non abbia voluto, ma ha servito. Strade
gli sono dedicate a Roma, e Palermo certamente, ma forse anche altrove.
Il passante è generalmente ignaro del nome, che gli diviene
familiare solo se vi abita. A poco valgono, quando ci sono, le vaghe
indicazioni: statista, costituzionalista, architetto. Destino della
toponomastica è quello di nascondere quanto sa, essendoci la
presunzione che siano i posteri a doversene occupare.
Ed eccomi a Francesco Saverio Nitti, nato a Melfi nel 1868, morto
a Roma nel 1953 a 85 anni. E' stato più volte ministro fino
a divenire Presidente del Consiglio nel durissimo periodo 1919-'20.
Era di umili origini, che hanno sempre avuto a che fare con la mia
famiglia, prima a Muro Lucano, dove era il suo primo collegio elettorale,
e poi a Melfi con lo stesso attributo di rappresentanza elettorale.
Tante sono le cose che di lui bisogna ricordare. Giornalista, docente,
uomo di governo, intesi e praticati al massimo livello, come le stesse
date, la stessa tematica, le stesse intuizioni che le hanno distinte
stanno a confermare. Ho scritto altre volte che lo stesso meridionalismo
è nato con Giustino Fortunato e con lui.
Gli scritti sulla questione meridionale portano la data 1888-1909;
1899-1900; 1902-1910, 1910. Sono saggi sulla storia del Mezzogiorno
sotto l'angolazione emigrazione-lavoro, sul bilancio dello Stato dal
1882 al 1899 al 1900: Nord e Sud di fronte, su Napoli e la questione
meridionale con il porto di Napoli fra il 1902 e il 1910; c'è
un'inchiesta sulle condizioni dei contadini del Mezzogiorno quali
erano nel 1910.
Sono inventari di idee, di situazioni, di ambienti, di culture, di
sistemi. Sono veri e propri monumenti bibliografici, che più
che fare storia passata fanno purtroppo attualità. E per averli
non sono stati necessari comitati, stanziamenti, organismi da inventare
e da fare pure inutilmente sopravvivere. Se ne ricavano itinerari,
intravisti da grandi meridionali, rispetto ai quali l'azione ha denunciato
e denuncia sempre ritardi, che però annuncia di voler correggere.
Forse il pessimismo che si coglie in Nitti e in molti meridionali
fra i migliori ha a che fare con l'intempestività o la frequente,
vana attesa dell'azione.
Ma pensate agli altri temi della problematica più che rilevata
intuita da Nitti. Di un'Europa senza pace è un libro del 1920.
Del socialismo cattolico, scientifico e utopistico, un altro volume
del 1894. Dei problemi monetari e del lavoro, della ricchezza dell'Italia
e del capitale straniero in Italia, della scienza delle finanze nell'abbozzo
critico che la ispira sono altrettanti volumi che congiungono gli
ultimi due decenni del secolo scorso e i primi tre del secolo che
sta per finire.
E poi l'immensa mole degli scritti e studi politici in Italia e nel
suo esilio estero, durato poco meno o di più di un ventennio.
Iniziato con il saccheggio da parte di squadre fasciste nella sua
casa di via Farnese (da adolescente ne raccolsi l'eco compiaciuta
di alcuni squadristi che vi avevano preso parte e che distribuivano
alcune bustine di zucchero raccolte in casa Nitti agli avventori di
Aragno per far condividere la gioia di tanta prodezza (ma mio padre,
io ero con lui, pensava al loro caffè).
Nitti ha cercato di fare e di far fare. Gli è occorso di bandire
le prime elezioni con il sistema proporzionale, di dover varare l'amnistia
dei disertori (lui era il deputato di un paese che ha la lapide fra
le più lunghe dei Caduti della prima guerra mondiale), ha promosso
l'Opera Nazionale Combattenti, ha animato e indirizzato la cultura
politica (Il Mondo e Il Paese, con Amendola e altri che per me sarebbe
immodestia ricordare, recano il suo segno), ha ripreso la sua vita
politica come gli anni avanzati gli consentivano. Con le delusioni
e le speranze, quali emergono dall'edizione nazionale delle opere
pubblicate nei XVIII volumi di Laterza. Si tratta di una raccolta
veramente imponente e quanto mai valida, nella parte dedicata alle
riflessioni e meditazioni, che esprimono un pensiero che dà
compiutamente la parola allo specchio della vita, non importa se passata,
presente o futura. Ogni lettura da questo punto di vista è
una sorpresa riguardo alla scelta degli spunti: una scelta che aiuta
gli altri a vivere.
Dunque, un meridionale così, senza dover risalire tanto nei
tempi andati. Perché la storia non è insegnata anche
così e di questo Novecento che deve entrare nelle scuole non
si parla con questi nomi, parte di una lista che è quanto mai
lunga? Le biblioteche parlano più delle targhe delle strade,
ma anch'esse sono ignorate dalle strategie. Non si avvantaggiano nemmeno
dell'attenzione e delle promesse riservate ai beni culturali. Eppure
esse documentano ritardi, soluzioni, valori, con i quali i conti non
si sono ancora chiusi. Essi non sono giunti a scadenza, ma impongono
scadenza. Anche Nitti sta lì a ricordare, monito e ammonimento.
Uno per uno nel tempo li hanno chiamati testamenti. E' il caso invece
di definirli viatico per l'azione. Un viatico che dispone anche della
storia del problema meridionale, proprio perché non deve essere
più problema. Nitti fra gli altri diceva e voleva anche questo.
Enrico De Nicola,
insuperabile e inimitato
Un altro statista, che va inserito in questo mio album di medaglioncini,
è Enrico De Nicola, Capo provvisorio della Repubblica. Un avvocato,
signore della politica e dello stile con il quale doveva essere praticata.
Una politica non professionistica, non solo perché lui era
un avvocato fra i maggiori, non solo perché la praticava come
un servizio, ma soprattutto perché ne faceva derivare limiti
e obblighi rigorosamente fiduciari, nel rispetto e nella pratica di
un mandato. Né più né meno: un mandato politico
dato a un avvocato, nel caso dotto oltre che scrupoloso fino allo
spasimo.
Ne sono noti vari casi. C'è il controllo della spesa della
trattoria che gli forniva i pasti a Palazzo Giustiniani, quando era
Capo provvisorio della Repubblica. Pasti che rigorosamente pagava,
di tasca sua, senza manifestare passionalità gastronomiche.
C'è il rimborso dei francobolli che apponeva alle lettere che
i cittadini indirizzavano appunto al Capo provvisorio. Ma c'è
da aggiungere anche quanto, come corollario di tutto questo, è
occorso anche a me.
Durante l'occupazione tedesca di Roma, con amici (un alto funzionario
ministeriale, pure barone, che il giorno della liberazione mi apparve
repentinamente con una fascia tricolore al braccio quale partigiano
monarchico, un diplomatico divenuto clandestino, la figlia del Capo
di Stato Maggiore della Marina rimasto fedele alla monarchia), avevamo
creato un servizio automobilistico che trasportava nel Nord documenti
bancari destinati alle rispettive sedi centrali e accoglieva qualche
sporadico passeggero.
Uno di questi passeggeri - allorché con la liberazione di Roma
intervenne la linea gotica, con spostamento del nostro movimento automobilistico
verso il Sud - è stato Enrico De Nicola. Egli si era rivolto
a un'agenzia turistica ("Chiari e Sommariva"), con il suo
tradizionale carattere parsimonioso, e così con una Balilla
fece il viaggio che lo allontanava da Roma proprio nei giorni in cui
di lui si parlava come Capo provvisorio dello Stato.
Nell'accoglierlo su questa Balilla gli manifestai una certa sorpresa
sul suo allontanamento da Roma proprio in quei giorni. Ed egli mi
disse che era e voleva essere estraneo ad ogni suo possibile coinvolgimento.
Allora in politica alle cosiddette poltrone si giungeva in molti casi
senza tollerare sassolini nelle proprie scarpe e quindi senza la necessità
di togliersele dopo.
Su De Nicola in taluni momenti si ironizzava per il fatto che avesse
o gli si attribuissero dimissioni facili. Di lui invece si deve dire
che il Paese, senza bisogno di partiti di mezzo, ha spesso e tanto
avuto bisogno. Già Presidente della Camera nel periodo prefascista
e poi, come si è detto, Capo provvisorio della Repubblica,
dopo è stato infatti Presidente del Senato ('52-'53) e Presidente
della Corte Costituzionale ('56-'57).
Due anni dopo moriva a Torre del Greco, essendo nato a Napoli nel
1877. Un avvocato prestato alla politica, esercitata da autentico
statista. E lui non lo sapeva.
Come certamente non lo sapeva di se stesso anche Alcide De Gasperi,
al quale la stessa qualifica va riconosciuta, per l'intero suo excursus,
che lo ha visto sempre protagonista fino al 1953, e in particolare
nel 1946 (avvento della Repubblica), nel 1947 (firma del Trattato
di pace con gli alleati), nel 1948 (condotta della decisiva battaglia
elettorale, che ha segnato il destino democratico del nostro Paese).
Molti sono i dimentichi di tutto ciò, molti sono i cattivi
interpreti della sua affermazione che la DC era un partito di centro
che rivolgeva lo sguardo verso sinistra, qualcuno fa credere di rappresentarne
la continuità, con ripetitività di incarichi che non
è però quella che sempre conduce all'innalzamento della
propria statura politica. E così nella storia di questo secolo,
per quanto riguarda l'Italia, non mi pare che ci siano stati altri
statisti da registrare, però con qualche eccezione, di cui
prima ho detto.
Qui cercherò di aggiungere ancora qualcosa, con il personale
privilegio della mia assoluta renitenza partitica, con il solo viscerale
culto della democrazia e della scelta occidentale di campo, che ho
la fortuna di poter far risalire alla mia adolescenza. Il che mi impone
anche di ammettere che a Palmiro Togliatti non si può non riconoscere
l'attributo di un mancato statista. Naturalmente statista a modo suo:
di comunista. Nato a Genova nel 1893 e morto a Yalta nel 1964. Yalta,
come prima a Mosca nella segreteria del Comintern, come con la svolta
di Salerno e perciò con la partecipazione nei governi dal '44
al '47, con i calci di scarpe chiodate che da Piazza San Giovanni
in Roma nella campagna elettorale del 1948 prometteva a De Gasperi,
con la cosiddetta ricerca della via italiana al socialismo, con quelle
che taluni definiscono premesse dell'autonomia del PCI rispetto all'URSS,
ecc. Sono temi, problemi, progetti che ancora oggi sono sul tappeto,
e Togliatti stesso ha finito di parlarne nel 1964. Questi sono ancora
i residuati di un secolo per un partito le cui radici risalgono alla
fine degli anni 10. Ed anche questa cronaca continua, per ora nell'ansia
delusa di divenire storia.
A molti il Togliatti dall'abito blu piaceva, come speranza di un suo
abito mentale diverso. Piaceva la moglie Montagnana, già operaia,
e che anch'io ho visto alla Confindustria dove veniva a perorare i
diritti delle donne. Piaceva la sua insolita predilezione per l'etimologia,
che lo induceva a confronti e discussioni sul significato originario
e genuino d'una parola. Uno dei suoi interlocutori al riguardo era
un nostro collega, il giornalista Vittorio Gorresio, che mi è
occorso di aiutare nel suo avvio alla nostra professione. Allora questo
era un segno nobilmente integrativo di erudizione.
Si tratta di un volto che si è incrociato con il mio una sola
volta. Percorreva via Campo Marzio per andare a Montecitorio. Conversava
con invisibile animazione con una persona, ovviamente deferente. La
scorta era costituita da una sola persona, estremamente discreta e
distante per compiacente e inavvertibile misura protettiva. I tempi
consentivano allora siffatta approssimatività di protezione,
senza sirene, palette mobili di divieti stradali, auto blindate, ecc.
E la gente stessa era del tutto indifferente, evitando o ignorando
ogni notorietà. Rappresentava cioè un Paese che oggi
è definito normale, propostoci oggi (guarda caso) proprio da
quanti con le loro scelte di allora volevano renderlo anormale. I
tempi maturano ed evolvono, come si sa, ed è necessario. Ma
nelle pagelle di ognuno di noi e soprattutto di quanti si sono assunti
l'onere di guidarci vogliamo almeno mettere un voto, in aggiunta agli
altri, da assegnare alla coerenza, o meglio alla capacità del
proprio pensiero di tenere ben unite le parti fra loro?
Ora ci viene promessa una carta d'identità scolastica: dal
primo banco di scuola all'ultimo, quale potrà essere. Farà
sapere a noi e agli altri quello che siamo stati. Lo stesso CHI E'
ho proposto anch'io per la professione che esercito: quella giornalistica.
Ma a tutt'oggi non ho avuto fortuna. E questo sottolineo qui a conferma
della difficoltà insita in questa mia selezione, che riconduce
alla generale soggettività della stessa verità, sottoposta
sempre alla volubilità delle interpretazioni. La troviamo alla
radice della vita. Figuriamoci a quella della vita politica.
Un aspirante
a tutto: "chillu curiusu"
Ma ritorniamo ai nostri modesti medaglioncini classificabili sotto
la voce "statista".
E qui prima della fase repubblicana di questo secolo (con la lunga
parentesi del ventennio e con un Mussolini che secondo noi esula da
questa tematica perché il giudizio che riguarda lui e il suo
tempo ne enuclea in termini variamente apprezzabili solo quello riferentesi
ad un giornalista, forse rilevante, ma sbagliato) dobbiamo ricordare
anche quello che agli inizi abbiamo definito "aspirante a tutto",
e quindi anche al ruolo di statista, chiaramente mancato nella relativa
esplicazione, ma avventurosamente esplicato, com'era nella natura,
nella vocazione, forse nel destino dell'uomo. Parlo di D'Annunzio.
Nella sua biografia c'è il desiderio dell'immenso, che però
non lo illuminava, come per sé diceva Ungaretti. D'Annunzio
l'ha inseguito dovunque, anche nella scelta del cognome, di cui le
enciclopedie tacciono, perché partono per i loro profili dal
1883, anno in cui egli esce dal collegio Cicognini di Prato. Dopo
di allora le sue strade sono tante. Ma qui una data ci interessa ed
è quella del 1919: Mussolini fonda i Fasci a Piazza San Sepolcro
a Milano (in questo destino c'è pure la parola sepolcro), D'Annunzio
fa la Marcia di Ronchi, che porta all'occupazione di Fiume e alla
proclamazione della Reggenza del Carnaro e quindi alla Carta, che
come si sa nel fascismo succube di queste suggestioni ha trovato il
seguito bottaiano della Carta del Lavoro e della Carta della Scuola.
Ma le Carte, anche se si chiamano riforme, non finiscono mai. Sono
come gli esami di De Filippo.
Orbene, qui c'è un giudizio molto sintetico di Mussolini. Come
giornalista (che si dice riuscisse a vendere più copie del
giornale che dirigeva quando c'era un suo articolo e lui aggiungeva
che per richiamare l'attenzione del lettore avrebbe dovuto contenere
qualche refuso!), egli paragonava D'Annunzio a un dente dolente che
avesse solo bisogno di essere riempito d'oro.
L'odontoiatria, dunque, come ricetta politica, e Mussolini l'ha instancabilmente
praticata nei confronti di un D'Annunzio sorvegliato speciale del
fascismo. Però al Vittoriale: con un prefetto alle sue dipendenze,
ma che aveva il solo incarico di sorvegliarlo e di controllare i suoi
movimenti, che però non c'erano. Perché D'Annunzio,
anche in età avanzata ed alla sua fine stessa, inventava a
se stesso di essere alla ricerca di un altro suo io e non lo trovava,
perché nestava immaginando sempre un altro. Un immaginifico,
pertanto, che si è mangiato la coda, come un gatto.
Nitti, dal canto suo, si è lungamente occupato di lui. Nell'agosto
del '22 si dice che con D'Annunzio e Mussolini abbia abbozzato e poi
rinunciato a un tentativo di soluzione della crisi della politica
italiana. Non se ne fece nulla, come si sa, perché dopo fra
Mussolini e D'Annunzio ci fu una certa corsa a chi arrivava prima.
E Mussolini vi è riuscito, non con una razionale strategia,
ma soprattutto con l'ausilio delle circostanze.
A Nitti è rimasta la soddisfazione di dedicare a D'Annunzio
la parte terza del suo VI volume dedicato agli scritti politici. Da
pagina 305 a pagina 387. Fate il conto, su di un volume che non è
solo di storia, ma anche di ricognizione e dialettica spirituale e
pure filosofica. Ma il punto di maggiore forza e forse per Nitti più
gratificante è quello in cui Nitti riferendo della vita e delle
avventure di D'Annunzio a Napoli - egli ne era stato compagno e amico
- scrive che il poeta fu definito "chillu curiusu" da un
capo camorra che aveva ricevuto la sfida a duello dal poeta, che era
stato malmenato perché alla compagna del camorrista aveva rivolto
i suoi sguardi professionalmente, ma questa volta inutilmente, languidi
e invitanti.
D'Annunzio dal canto suo, per ragioni politiche - con Fiume di mezzo
- ripagò Nitti con la qualifica di Cagoia. La storia, a quei
tempi, si faceva anche così.
D'Annunzio, comunque, ha a che fare con me, che non l'ho conosciuto,
con sei persone che invece ho conosciuto e perciò ne parlo.
C'è la bisnonna di mia moglie, amica della moglie di D'Annunzio.
Questa era una gallese, aveva a che fare con un marito, già
suo precettore, con il quale era fuggita di casa con un già
stanco matrimonio riparatore alle porte. D'Annunzio rincorse altri
amori, ma non la dimenticò. Perché ne aveva avuto due
figli: Mario e Gabriellino, ed anche quando mandava un prefetto retribuito
però dallo Stato a dirle che non aveva soldi per pagarle gli
alimenti, la gallese si contentava di vivere a Roma, allestendo e
vendendo ricami e paralumi. Nella Roma degli anni 10 e 20 si riusciva
a praticare la dignità, che talvolta era pure nobiltà,
anche così. Ma mia moglie, andando a Montecatini, ricordava
da bambina un D'Annunzio che a Montecatini si aggirava con un giglio
in mano cercando spesso invano attenzione.
Un D'Annunzio che ho conosciuto è il figlio Mario, al ministero
delle Colonie nel 1927: io da matricola alla Sapienza di Roma avevo
costituito il primo Gruppo universitario coloniale d'Italia (Mussolini
ci aveva mandato una sua fotografia con dedica in cui "giganteggiava"
su di una colonna di Leptis Magna. E la dedica allora poteva figurare
anche come indirizzata ad un gruppo che non fosse necessariamente
fascista).
Questo Mario D'Annunzio era un D'Annunzio in miniatura. Con lo stesso
volto, con una spalla leggermente inclinata. Curava solo la rassegna
stampa del ministero. Mostrava di capire che non poteva aspirare a
qualcosa di più. Non tollerava però, ma lo diceva solo
a me, che una rivista poi divenuta ufficiale del ministero - si chiamava
L'Oltremare - pubblicasse la sua rassegna stampa con la firma "I
toloba". Chi erano costoro? Un mistero per lui e per me. Questo
Mario D'Annunzio, mentre suo fratello, Gabriellino, era in America,
fu poi trasferito alle organizzazioni del credito e così divenne
quello che oggi è un deputato.
C'è in questa vicenda un altro Gabriele, che però era
tabaccaio di Melfi e nella sua tabaccheria mostrava una fotografia
con dedica del poeta. Egli era il suocero di un'amata figlia naturale
di D'Annunzio, che aveva sposato un capitano di vascello mio compaesano.
Melfi e con questo paese i bambini di allora, come me, la ricordano
come una signora che sapeva essere signora, immersa educatamente fra
la gente. Quale differenza con il padre, di cui era stata l'infermiera
dopo l'incidente di Venezia, che fra l'altro gli costò la perdita
di un occhio, con la surrogata sostituzione di un galante monocolo.
Ma c'è un altro figlio naturale da ricordare e che io ho conosciuto,
perché circolava a Roma negli ambienti giornalistici, di cui
anch'io ero parte. Era un macro D'Annunzio, con il maggior peso unicamente
quantitativo che lo rendeva tale. Si fregiava di una medaglia, che
a quei tempi sugli abiti borghesi erano rare. Faceva molto affidamento
sulle scarpe di invisitata ampiezza, anzi vastità, tale da
fare invidia a quelle dei poliziotti inglesi. L'importanza del cognome
era sottintesa. Ma si sapeva che non era spendibile. E ciò
avveniva mentre D'Annunzio tentava di dare legalità alla circolazione
della sua immaginaria moneta: mancato statista, come si vede, ma oggi
con un Vittoriale che sopravvive.
Ope legis,
ma realmente solo qualcuno
Ci sono, infine, gli statisti che si potrebbero definire ope legis.
Quelli, cioè, che vengono elevati alla massima carica dello
Stato: i Presidenti della Repubblica.
Ma anche in questo caso le nomine dicono una cosa, la storia un'altra.
Le mie conoscenze personali nella vita di questa Repubblica si limitano,
per mia fortuna di obiettivo cronista, ad una sola persona, e cioè
a Giuseppe Saragat. Per gli altri ci sarà certamente da ricordare
Giovanni Gronchi, con una vita politica che risale al 1919 essendo
stato uno dei fondatori del partito popolare, con la sua nomina a
ministro nel primo ministero De Gasperi (come opinionista economico
di un quotidiano romano nel 1946 mi occorse titolare un articolo di
commento a un suo discorso "Gronchi nostalgico del corporativismo),
con l'assunzione della Presidenza della Repubblica (1955-1962), ed
Einaudi, pur nel quadro da me richiamato all'inizio di queste notazioni.
Saragat invece occupa più spazio nei miei ricordi, sia perché
ho avuto a che fare con lui, sia perché nella storia della
Repubblica ha detto e ha soprattutto fatto alcune cose importanti.
E a rilevarle è uno, come me, che è stato sempre da
una parte opposta alla sua. Egli infatti, oltre ad essere da socialista
esule durante il fascismo, ha guidato la scissione dell'ala destra
del PSI costituendo il Partito socialista dei lavoratori italiani,
poi PSDI. Varie volte al Governo: fra l'altro nel '49 ministro della
Marina Mercantile, dove lo conobbi perché accompagnavo Costa,
allora oltre che Presidente della Confindustria anche Presidente della
Confederazione degli Armatori, e io ne ero p.r. - come si dice oggi
- durante le trattative sindacali della gente di mare, precisamente
portuali, che erano culminate in uno sciopero ad oltranza. Saragat
era affiancato nel suo intervento di mediazione e di definizione della
vertenza da Giorgio La Pira, anche lui con una storia di spicco alle
spalle: giurista, membro della Costituente, siciliano ma divenuto
nel 1951 e successivamente sindaco di Firenze ad alta e pure disarmata
vocazione solidaristica.
Un'accoppiata che non mi sembrò adatta a inquadrarsi in una
vertenza sindacale che era divenuta virulenta. Saragat cercava di
spiegare a noi giornalisti quello che egli stesso capiva poco. La
Pira parlava nella sublimazione di un pensiero predisposto alla illimitata,
intransigente, praticata fratellanza. A quei tempi Fanfani venerava
come reliquia un cappello di La Pira, usato taumaturgicamente. A discutere,
a concludere erano invece Costa, Lauro, il capitan Giulietti (questi
per interposte persone, ma presente con la sua passata tradizione
che lo aveva visto come pilastro a Fiume di D'Annunzio).
Tutti i giornalisti del tempo, pure di spicco, sanno queste cose,
con uno sciopero che finì, con la partenza delle navi due ore
prima della sua conclusione, solo perché un solerte ufficio
stampa aveva diffuso prematuramente un comunicato. Il capitan Giulietti
- quanta appropriazione da parte di altro tipo di letteratura è
intervenuta nel tempo rispetto a una denominazione del genere - era
a letto e svegliato di soprassalto venne al ministero, allora a Piazza
della Minerva, a protestare. Erano rimasti i soli uscieri. Perché
gli altri, dopo notti insonni, eravamo andati tutti a dormire. Le
navi già da qualche ora erano in navigazione.
Una seconda volta che ho avuto a che fare con Saragat, fu in occasione
di un mio commento su Il Sole-24 Ore, che allora dirigevo, ad un passo
di una sua intervista (1963) in cui accennando alla nazionalizzazione
dell'energia elettrica egli ne paventava i timori inflazionistici.
Di questa intervista a Il Corriere della Sera egli aveva smentito
un punto. A me dopo una ventina di giorni ne smentì la parte
da me richiamata. E lo fece con un telegramma che si richiamava al
noto obbligo di legge, e al quale replicai rilevando le sue smentite
tardive ma telegrafiche e a rate e mi affidavo unicamente alle reali
conseguenze di questa nazionalizzazione, sulla quale ormai sappiamo
tutto in termini di "prezzo politico" inutilmente pagato,
di successive e generalizzate sconfessioni, di "contrordine compagni",
con la nota storia in corso.
Saragat è stato poi il patrono del Centenario de Il Sole, nelle
manifestazioni che l'hanno accompagnato, veramente imponenti - modestia
a parte - nella storia del giornalismo italiano.
I miei ricordi e tentativi di questo insolito, ma vissuto, complesso
di medaglioncini finiscono qui. Ognuno nel tentare questa selezione
potrà indubbiamente aggiungere la propria.
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