Statisti d'Italia




Gennaro Pistolese



La cultura d'oggi e anche la storia ne parlano il meno possibile. Con riconoscimenti sempre largamente postumi. D'altra parte, lo stesso riferimento allo Stato è frequentemente aggirato. Se ne parla e si scrive per il "Welfare", per il ministro segretario di Stato, per il Consiglio di Stato, per il ragioniere generale dello Stato, per il segreto di Stato e così via. L'identità però è specificata dalla forma di Stato, con la sottolineatura dei suoi elementi costitutivi, il più delle volte suggerita dai tempi e pure dalla molto mutevole dialettica politica.
In questo ambito, nel quale - come si sa - due sono le forme di Stato esistenti (a parte quelle che mimetizzano arbitrio, antidemocrazia, dittatura) e cioè quella unitaria e quella federale, emergono gli uomini: molto di più di quanto per essi i vocabolari definiscano la capacità di governo di uno Stato. E questi non di rado ne sono solo aspiranti.
Nella prima parte di questo secolo, gli Uomini ai quali questa alta qualifica va attribuita sono stati, sia in Italia sia in tanta parte del mondo, tutt'altro che numerosi. E a me capita di poter dedicare a taluni di essi i miei tentativi di "medaglioncini", come mi piace definirli, avendoli conosciuti o semplicemente incontrati, ricavandone comunque spunti anche caratteriali, quali testimonianze ovviamente in margine.
Ricorrono così, in una cronologia riguardante la presidenza del Consiglio dei ministri, Giolitti, Salandra, Orlando, Nitti. C'è poi la lunga, ma meno lontana, parentesi del "ventennio", che in termini di storia e cronaca è molto più alle nostre spalle di quanto non lo siano i primi lustri di questo secolo.
Prima di questa parentesi c'è anche un aspirante a tutto, che è Gabriele D'Annunzio, e quindi c'è la Repubblica, con gli aspiranti in schiacciante soprannumero, con un Togliatti o un Nenni che vanamente vi hanno aspirato - il 1948 non è stato loro propizio -, con un Saragat e Gronchi che come Presidenti della Repubblica ne hanno certamente titolo, con un De Gasperi che lo è stato indubbiamente e da vero statista ha lasciato certo orme indelebili. Orme tanto più profonde, quanto più da lui ritenute solo dovute, come servizio. Della stessa tempra, De Nicola, Capo provvisorio dello Stato (1946-'48) ed Einaudi, anch'egli Presidente della Repubblica, ma con una netta prevalenza dottrinaria e operativa in campo economico e probabilmente con una spazialità indotta in certi campi, quali quelli politici e amministrativi.
E poi, innanzi a noi, c'è il panorama della seconda metà di questo secolo che ha avuto la sorte di essere costantemente "in fieri". I consuntivi, come i progetti, parlano chiaro a questo riguardo, con il sopravvento della dialettica sulla strategia, oggi in incompleta gestazione, e culture, ruoli, ecc. ancora di uso difficile e incerto.
Perciò siamo ancora sprovvisti di questa lunghezza d'onda, di cui del resto non è doviziosa larga parte del mondo occidentale, anche perché in esso, a parte talune figure esemplarmente emblematiche - e ognuno ha le sue -, si sono distinti sì taluni personaggi folgoranti, che hanno legato il loro nome a intuizioni anticipatrici o a singoli non ripetibili momenti, ma non sono riusciti ad elevarsi alle altitudini della grande politica. Anche su questo terreno spesso noi siamo più indietro degli altri. E qui, come è evidente, il discorso rischia di farsi lungo e lo evitiamo perché nel caso inutilmente ambizioso.

Giovanni Giolitti fra Salvemini e Ansaldo
Un capostipite è Giovanni Giolitti. E' in questa mia personale galleria di "medaglioncini" perché da adolescente, e quindi nel 1925-'26, lo vedevo spesso arrivare all'angolo di via XX Settembre con il ministero dell'Agricoltura vestito con un tight di un blu più avio, come si direbbe oggi (ieri colore carta da pasta), che marina, con un grosso cappello grigio: il tutto che aveva a che fare con la sua origine di Mondovì, con la sua militanza di liberale di sinistra, con l'attitudine amministrativistica che cercava un riscontro anche nell'abbigliamento. La sua "palandrana" era perciò il suo distintivo, che la satira politica per conto suo emblematizzava. Figuriamoci quanto questa figura dovesse incuriosire un adolescente come me, richiamato anche dal ricorrente incontro, vivacemente dialogato, fra uno statista e un giornalaio, che gli anni avevano reso veterano e traballante all'angolo dell'edicola.
Giolitti che era seguito, anzi pedinato da un agente nella pomeridiana passeggiata da via Cavour a Porta Pia, faceva regolarmente questa sosta: un piacevole appuntamento per lui, l'occasione per l'altro di illustrare un quadernetto che aveva stampato a sue spese, e che da analfabeta aveva scritto, e che vendeva a 24 soldi. Il quadernetto era intitolato: "Omne trinum est perfectum", ma qualcuno a quei tempi raccontava che un autorevole ras fascista traducesse la frase: "in ogni treno c'è un prefetto".
Giolitti e il giornalaio erano alieni da questa malignità e perciò duellavano (piacevolmente per me) perché ognuno parlava per conto proprio e Giolitti in particolare pensava alle cose sue. Mai nella sua vita allegre.
E' entrato e uscito nella e dalla vita politica quasi sempre in momenti storici. Le vicende della Banca Romana - da cui prese corpo un volume di Salvemini dal titolo Il Ministro della mala vita, cui molti anni dopo seguì per motivata contrapposizione uno di Giovanni Ansaldo: Il ministro della buona vita -, della guerra alla Turchia, della politica di neutralità nella prima guerra mondiale motivata con "il parecchio" che egli intravvedeva in contropartite che non ci furono, della strategia adottata per evitare nel primo dopoguerra lo sbocco nella successiva dittatura sono altrettanti momenti di una vita cui la storia non poteva sottrarre il riconoscimento della tempra di uno statista.
Ma forse, oggi, l'attualità maggiore dell'Uomo è in una frase da lui pronunciata nel 1913. Eccola: "La legge si applica, per gli amici si interpreta". La sua era una constatazione, ma era soprattutto un ammonimento. Inizio e conclusione di un secolo hanno a che fare con queste poche parole. Avvertimento e limiti. Perenne insegnamento.
Ma qualcosa devo ancora aggiungerla, sempre per collegate conoscenze personali. Una ha a che fare con Marcello Soleri, nato anch'egli cuneese, ministro delle Finanze del governo Facta nell'ottobre del '22, di un governo che doveva essere preparatorio di un governo Giolitti, che la sopravvenuta "marcia su Roma" asportò dalla storia, come avvenne ai cavalli di Frisia di Ponte Cavour, che preparavano ad uno stato di assedio repentinamente revocato, con i manifesti che erano stati già affissi. Soleri era noto durante il fascismo soprattutto perché indossava un cappello a larghissime falde, di un grigio smaccato. Con la liberazione, Soleri divenne ministro del Tesoro ed io in tale sua veste lo conobbi al ministero, in via XX Settembre. Parlammo unicamente della lira, ma lui aveva a che fare, come del resto tutti, con le amlire, e con un'inflazione che cominciava a correre con il "in fine velocior" che dagli anni 80 è divenuto quello che conosciamo. Soleri morì un anno dopo. E da allora la mano passò ad un altro cuneese, Luigi Einaudi, prima ricordato.
Un altro nome che i miei ricordi e le sopravvenute conoscenze personali legano a Giolitti è quello del giornalista Giovanni Ansaldo. Come si sa, ha fatto scelte ideologiche e per lui, giornalista, anche professionali estremamente contraddittorie, e in momenti che dovevano mettere alla prova la validità di intuizioni, che invece non c'è stata.
Il suo tecnicismo professionale è invece fuori discussione, con le prove che emergono dalla sua capacità direttoriale, con l'estrema validità delle fonti da cui il suo lavoro era animato, con l'amalgama che riusciva a costruire con le sue amicizie, con l'intercambiabilità che pur naturale veniva curata.
C'è nel suo volume dedicato appunto a Giolitti un elenco di nomi di persone che lo hanno aiutato nella realizzazione di questa biografia. Ci sono nomi di persone che io ho frequentato e nelle quali sono riconoscibili tratti che sono gli stessi dei suoi. Questi non avevano, è vero, il bastone di Ansaldo che a lui dava forza e prestanza, come quello di Prezzolini. Ma Ansaldo era il prototipo di un giornalismo che con la Lettera 22 e più spesso la sola penna ha scandito la massima parte del secolo, e frequentemente ha dato il crisma ad incontri vicendevolmente al massimo livello fra firme di nostri colleghi e veri e propri statisti. E qui non c'è alcun rimpianto di tempi andati, ma solo constatazione di una pausa o di un nuovo che si prepara, tuttora in mano ad una fantasia o a una creatività alla ricerca del loro porto d'approdo. La navigazione per tutti è più veloce, ma non dimentichiamo che da poco ha lasciato gli ormeggi.

In poco meno di un lustro tre veri statisti
Nei primi vent'anni del secolo tre altri autentici statisti hanno dato prova di sé nel Paese. A me è occorso per i primi due averli come maestri alla Sapienza di Roma e per il terzo averlo ospite della mia famiglia nel "palazzo" avito. E' nato a Melfi, come me: lui nel 1860, io nel 1909. A me, come adolescente, è occorso di stare sulle sue ginocchia, come anche oggi insegna ai politici la loro promozione elettorale. Gli adolescenti non sono, come si sa, elettori, ma probabilmente potranno esserlo, perché i partiti sono molto prolifici di idee e sanno soprattutto come vanno strumentalizzate. Comunque vi sono i loro parenti elettori da edulcorare anche così. Antonio Salandra è senz'altro da considerarsi statista, non foss'altro perché è stato Presidente del Consiglio nel periodo 1914-16, ha denunciato la Triplice Alleanza e ha dichiarato la guerra all'Austria. Era anche lui liberale, ma genericamente di destra. Giolitti, come si è detto, era anche lui liberale, ma di sinistra. E questa differenza l'aveva condotto a suggerire alla sua linea politica la neutralità. D'altra parte, si sa che il socialismo con l'eccezione di Mussolini era contrario alla guerra. Ma queste, con quanto è avvenuto poi, sono superflue sottigliezze.
Salandra è stato mio maestro alla Sapienza. Non aveva nulla di fiero nella sua persona. Una persona anonima, a cominciare dall'abbigliamento, che era tanto spersonalizzato da apparire quello di un collegio. Il punto di riferimento per noi studenti era più il fatto che regolarmente si faceva accompagnare dalla figlia (la cui avvenenza non era tale da suscitare in noi studenti postumi ricordi) che non i libri che aveva scritto e che ci venivano somministrati nelle cosiddette dispense. Le stampava con riproduzioni di una calligrafia a mano una stamperia che si chiamava Sampaolesi, in una strada aderente alla Sapienza e successivamente demolita per fare posto a un corso che mi sembra si chiami Rinascimento, semplice accesso a Corso Vittorio.
Per Sampaolesi erano importanti prima che gli autori gli studenti: compratori sicuri, anzi preventivamente computabili. Con questi facili conteggi le dispense erano disponibili presso le due portinerie della Sapienza: da Virgilio al portone principale, da Barluzzi al primo piano. Quando ci chiamavano avvocati nei quattro anni del corso, ma dottori all'uscita dal salone dove avevamo discusso (?) la nostra tesi di laurea.
Vittorio Emanuele Orlando è stato a sua volta l'altro nostro professore del tempo e già Presidente del Consiglio, nel periodo 1917-'19, il presidente della vittoria, dimissionario alla fine della guerra, nondimeno Presidente della delegazione alla Confe-renza della Pace nel 1919.
Negli anni successivi aveva continuato a fare il professore di Diritto costituzionale. Aveva un comportamento autorevole, nel quale il suo bastone di malacca con il manico d'avorio faceva la sua parte. Il resto lo facevano un abito blu di buon taglio, una lobbia di un grigio regolamentare, un paio di baffi bianchi tutt'altro che prepotenti. Un siciliano di ottima esportazione.
Fra l'altro uomo politico veramente di vertice e docente semplicemente cooptato per il livello dei suoi studi. L'insegnante vero di un tempo. Ovviamente, con queste caratteristiche, insofferente antifascista, non tale però da non consentirgli di rendersi disponibile durante la guerra etiopica: "disponibile per qualsiasi compito di servizio". Gli antifascisti, dopo, glielo hanno contestato. I fascisti se ne servirono solo come motivo promozionale. Lo statista, comunque, c'era stato, anche se i suoi detrattori hanno sempre propagandato che Orlando a Versailles si era messo a piangere quando alla lettura del Trattato di Pace non aveva sentito il nome dell'Italia. Di un'Italia che si disse mutilata, con l'assegnazione di mandati che non ci fu, con un Oltre Giuba che la Gran Bretagna cedette all'Italia anni dopo ed una Somalia che così poté acquisire una maggiore dimensione, sempre però con un porto solo virtuale. Orlando questa storia non l'insegnava, ma ci insegnava anche uno Stato costituzionale che anch'esso non c'era. I corsi di certi professori universitari erano allora impostati sulle astrazioni di una scienza pura che esulava da classificazioni di reali e applicati modi di essere.
Nel secondo dopoguerra - durante il quale mai più mi occorse di incontrarlo - Orlando acquistò una combattività siciliana certamente maggiore di quella che fino ad allora aveva manifestato. C'era, ma incolto, l'indipendentismo siciliano, che invano però ha cercato di scalfire l'unità nazionale, ma certamente prospettava stati d'animo e attitudini comportanti una caratterizzata sensibilizzazione siciliana. Cosicché ad una certa fierezza nel luglio del '47 si ispira l'avversione di Orlando al Trattato di Pace, con l'invito ai costituenti a rinviarne la ratifica. Orlando ha solo 87 anni e la sua carriera politica avrebbe avuto certamente ancora qualche anno da spendere. Ciò non avvenne perché egli era avverso a quella svolta atlantica, che è stata invece la premessa dell'occidentalizzazione piena nella libertà scaturita dalle elezioni del 1948.
Siffatta deviazione di Orlando dalle ragioni ideali di tutta la sua vita politica e di studioso gli rese solo - triste destino - l'elogio che in occasione della sua morte, avvenuta l'1 dicembre 1951, ne fece Palmiro Togliatti, che riconobbe nello statista "l'assertore e difensore tenace, ostinato dell'indipendenza, della libertà, dell'autonomia dello Stato italiano di fronte al "ruere in servitutem degli uomini di oggi"".
L'avventurismo ideologico e strategico di Togliatti ha voluto lasciarci anche questo squallido segno, che la dice lunga sulla successiva evoluzione politica e sulle radici di una parte dello stesso odierno ancora auspicato pieno bipolarismo perfetto. Ciò che sta a significare che i corsi e ricorsi nelle nostre sinistre non si sono ancora esauriti e la linearità delle condotte e delle scelte di fondo è ancora lontana dall'alba. Altri invece possono rivendicarla e noi abbiamo avuto, anzi scelto la ventura, di essere rigorosamente fermi e coerenti con noi stessi sulla strada opposta a questa sinistra, che non riesce a stare in pace con se stessa.
Orlando è morto nel 1952, a 92 anni. Ha saputo qualcosa anche della Repubblica, che credo non abbia voluto, ma ha servito. Strade gli sono dedicate a Roma, e Palermo certamente, ma forse anche altrove. Il passante è generalmente ignaro del nome, che gli diviene familiare solo se vi abita. A poco valgono, quando ci sono, le vaghe indicazioni: statista, costituzionalista, architetto. Destino della toponomastica è quello di nascondere quanto sa, essendoci la presunzione che siano i posteri a doversene occupare.
Ed eccomi a Francesco Saverio Nitti, nato a Melfi nel 1868, morto a Roma nel 1953 a 85 anni. E' stato più volte ministro fino a divenire Presidente del Consiglio nel durissimo periodo 1919-'20. Era di umili origini, che hanno sempre avuto a che fare con la mia famiglia, prima a Muro Lucano, dove era il suo primo collegio elettorale, e poi a Melfi con lo stesso attributo di rappresentanza elettorale.
Tante sono le cose che di lui bisogna ricordare. Giornalista, docente, uomo di governo, intesi e praticati al massimo livello, come le stesse date, la stessa tematica, le stesse intuizioni che le hanno distinte stanno a confermare. Ho scritto altre volte che lo stesso meridionalismo è nato con Giustino Fortunato e con lui.
Gli scritti sulla questione meridionale portano la data 1888-1909; 1899-1900; 1902-1910, 1910. Sono saggi sulla storia del Mezzogiorno sotto l'angolazione emigrazione-lavoro, sul bilancio dello Stato dal 1882 al 1899 al 1900: Nord e Sud di fronte, su Napoli e la questione meridionale con il porto di Napoli fra il 1902 e il 1910; c'è un'inchiesta sulle condizioni dei contadini del Mezzogiorno quali erano nel 1910.
Sono inventari di idee, di situazioni, di ambienti, di culture, di sistemi. Sono veri e propri monumenti bibliografici, che più che fare storia passata fanno purtroppo attualità. E per averli non sono stati necessari comitati, stanziamenti, organismi da inventare e da fare pure inutilmente sopravvivere. Se ne ricavano itinerari, intravisti da grandi meridionali, rispetto ai quali l'azione ha denunciato e denuncia sempre ritardi, che però annuncia di voler correggere.
Forse il pessimismo che si coglie in Nitti e in molti meridionali fra i migliori ha a che fare con l'intempestività o la frequente, vana attesa dell'azione.
Ma pensate agli altri temi della problematica più che rilevata intuita da Nitti. Di un'Europa senza pace è un libro del 1920. Del socialismo cattolico, scientifico e utopistico, un altro volume del 1894. Dei problemi monetari e del lavoro, della ricchezza dell'Italia e del capitale straniero in Italia, della scienza delle finanze nell'abbozzo critico che la ispira sono altrettanti volumi che congiungono gli ultimi due decenni del secolo scorso e i primi tre del secolo che sta per finire.
E poi l'immensa mole degli scritti e studi politici in Italia e nel suo esilio estero, durato poco meno o di più di un ventennio. Iniziato con il saccheggio da parte di squadre fasciste nella sua casa di via Farnese (da adolescente ne raccolsi l'eco compiaciuta di alcuni squadristi che vi avevano preso parte e che distribuivano alcune bustine di zucchero raccolte in casa Nitti agli avventori di Aragno per far condividere la gioia di tanta prodezza (ma mio padre, io ero con lui, pensava al loro caffè).
Nitti ha cercato di fare e di far fare. Gli è occorso di bandire le prime elezioni con il sistema proporzionale, di dover varare l'amnistia dei disertori (lui era il deputato di un paese che ha la lapide fra le più lunghe dei Caduti della prima guerra mondiale), ha promosso l'Opera Nazionale Combattenti, ha animato e indirizzato la cultura politica (Il Mondo e Il Paese, con Amendola e altri che per me sarebbe immodestia ricordare, recano il suo segno), ha ripreso la sua vita politica come gli anni avanzati gli consentivano. Con le delusioni e le speranze, quali emergono dall'edizione nazionale delle opere pubblicate nei XVIII volumi di Laterza. Si tratta di una raccolta veramente imponente e quanto mai valida, nella parte dedicata alle riflessioni e meditazioni, che esprimono un pensiero che dà compiutamente la parola allo specchio della vita, non importa se passata, presente o futura. Ogni lettura da questo punto di vista è una sorpresa riguardo alla scelta degli spunti: una scelta che aiuta gli altri a vivere.
Dunque, un meridionale così, senza dover risalire tanto nei tempi andati. Perché la storia non è insegnata anche così e di questo Novecento che deve entrare nelle scuole non si parla con questi nomi, parte di una lista che è quanto mai lunga? Le biblioteche parlano più delle targhe delle strade, ma anch'esse sono ignorate dalle strategie. Non si avvantaggiano nemmeno dell'attenzione e delle promesse riservate ai beni culturali. Eppure esse documentano ritardi, soluzioni, valori, con i quali i conti non si sono ancora chiusi. Essi non sono giunti a scadenza, ma impongono scadenza. Anche Nitti sta lì a ricordare, monito e ammonimento. Uno per uno nel tempo li hanno chiamati testamenti. E' il caso invece di definirli viatico per l'azione. Un viatico che dispone anche della storia del problema meridionale, proprio perché non deve essere più problema. Nitti fra gli altri diceva e voleva anche questo.

Enrico De Nicola, insuperabile e inimitato
Un altro statista, che va inserito in questo mio album di medaglioncini, è Enrico De Nicola, Capo provvisorio della Repubblica. Un avvocato, signore della politica e dello stile con il quale doveva essere praticata. Una politica non professionistica, non solo perché lui era un avvocato fra i maggiori, non solo perché la praticava come un servizio, ma soprattutto perché ne faceva derivare limiti e obblighi rigorosamente fiduciari, nel rispetto e nella pratica di un mandato. Né più né meno: un mandato politico dato a un avvocato, nel caso dotto oltre che scrupoloso fino allo spasimo.
Ne sono noti vari casi. C'è il controllo della spesa della trattoria che gli forniva i pasti a Palazzo Giustiniani, quando era Capo provvisorio della Repubblica. Pasti che rigorosamente pagava, di tasca sua, senza manifestare passionalità gastronomiche. C'è il rimborso dei francobolli che apponeva alle lettere che i cittadini indirizzavano appunto al Capo provvisorio. Ma c'è da aggiungere anche quanto, come corollario di tutto questo, è occorso anche a me.
Durante l'occupazione tedesca di Roma, con amici (un alto funzionario ministeriale, pure barone, che il giorno della liberazione mi apparve repentinamente con una fascia tricolore al braccio quale partigiano monarchico, un diplomatico divenuto clandestino, la figlia del Capo di Stato Maggiore della Marina rimasto fedele alla monarchia), avevamo creato un servizio automobilistico che trasportava nel Nord documenti bancari destinati alle rispettive sedi centrali e accoglieva qualche sporadico passeggero.
Uno di questi passeggeri - allorché con la liberazione di Roma intervenne la linea gotica, con spostamento del nostro movimento automobilistico verso il Sud - è stato Enrico De Nicola. Egli si era rivolto a un'agenzia turistica ("Chiari e Sommariva"), con il suo tradizionale carattere parsimonioso, e così con una Balilla fece il viaggio che lo allontanava da Roma proprio nei giorni in cui di lui si parlava come Capo provvisorio dello Stato.
Nell'accoglierlo su questa Balilla gli manifestai una certa sorpresa sul suo allontanamento da Roma proprio in quei giorni. Ed egli mi disse che era e voleva essere estraneo ad ogni suo possibile coinvolgimento. Allora in politica alle cosiddette poltrone si giungeva in molti casi senza tollerare sassolini nelle proprie scarpe e quindi senza la necessità di togliersele dopo.
Su De Nicola in taluni momenti si ironizzava per il fatto che avesse o gli si attribuissero dimissioni facili. Di lui invece si deve dire che il Paese, senza bisogno di partiti di mezzo, ha spesso e tanto avuto bisogno. Già Presidente della Camera nel periodo prefascista e poi, come si è detto, Capo provvisorio della Repubblica, dopo è stato infatti Presidente del Senato ('52-'53) e Presidente della Corte Costituzionale ('56-'57).
Due anni dopo moriva a Torre del Greco, essendo nato a Napoli nel 1877. Un avvocato prestato alla politica, esercitata da autentico statista. E lui non lo sapeva.
Come certamente non lo sapeva di se stesso anche Alcide De Gasperi, al quale la stessa qualifica va riconosciuta, per l'intero suo excursus, che lo ha visto sempre protagonista fino al 1953, e in particolare nel 1946 (avvento della Repubblica), nel 1947 (firma del Trattato di pace con gli alleati), nel 1948 (condotta della decisiva battaglia elettorale, che ha segnato il destino democratico del nostro Paese).
Molti sono i dimentichi di tutto ciò, molti sono i cattivi interpreti della sua affermazione che la DC era un partito di centro che rivolgeva lo sguardo verso sinistra, qualcuno fa credere di rappresentarne la continuità, con ripetitività di incarichi che non è però quella che sempre conduce all'innalzamento della propria statura politica. E così nella storia di questo secolo, per quanto riguarda l'Italia, non mi pare che ci siano stati altri statisti da registrare, però con qualche eccezione, di cui prima ho detto.
Qui cercherò di aggiungere ancora qualcosa, con il personale privilegio della mia assoluta renitenza partitica, con il solo viscerale culto della democrazia e della scelta occidentale di campo, che ho la fortuna di poter far risalire alla mia adolescenza. Il che mi impone anche di ammettere che a Palmiro Togliatti non si può non riconoscere l'attributo di un mancato statista. Naturalmente statista a modo suo: di comunista. Nato a Genova nel 1893 e morto a Yalta nel 1964. Yalta, come prima a Mosca nella segreteria del Comintern, come con la svolta di Salerno e perciò con la partecipazione nei governi dal '44 al '47, con i calci di scarpe chiodate che da Piazza San Giovanni in Roma nella campagna elettorale del 1948 prometteva a De Gasperi, con la cosiddetta ricerca della via italiana al socialismo, con quelle che taluni definiscono premesse dell'autonomia del PCI rispetto all'URSS, ecc. Sono temi, problemi, progetti che ancora oggi sono sul tappeto, e Togliatti stesso ha finito di parlarne nel 1964. Questi sono ancora i residuati di un secolo per un partito le cui radici risalgono alla fine degli anni 10. Ed anche questa cronaca continua, per ora nell'ansia delusa di divenire storia.
A molti il Togliatti dall'abito blu piaceva, come speranza di un suo abito mentale diverso. Piaceva la moglie Montagnana, già operaia, e che anch'io ho visto alla Confindustria dove veniva a perorare i diritti delle donne. Piaceva la sua insolita predilezione per l'etimologia, che lo induceva a confronti e discussioni sul significato originario e genuino d'una parola. Uno dei suoi interlocutori al riguardo era un nostro collega, il giornalista Vittorio Gorresio, che mi è occorso di aiutare nel suo avvio alla nostra professione. Allora questo era un segno nobilmente integrativo di erudizione.
Si tratta di un volto che si è incrociato con il mio una sola volta. Percorreva via Campo Marzio per andare a Montecitorio. Conversava con invisibile animazione con una persona, ovviamente deferente. La scorta era costituita da una sola persona, estremamente discreta e distante per compiacente e inavvertibile misura protettiva. I tempi consentivano allora siffatta approssimatività di protezione, senza sirene, palette mobili di divieti stradali, auto blindate, ecc. E la gente stessa era del tutto indifferente, evitando o ignorando ogni notorietà. Rappresentava cioè un Paese che oggi è definito normale, propostoci oggi (guarda caso) proprio da quanti con le loro scelte di allora volevano renderlo anormale. I tempi maturano ed evolvono, come si sa, ed è necessario. Ma nelle pagelle di ognuno di noi e soprattutto di quanti si sono assunti l'onere di guidarci vogliamo almeno mettere un voto, in aggiunta agli altri, da assegnare alla coerenza, o meglio alla capacità del proprio pensiero di tenere ben unite le parti fra loro?
Ora ci viene promessa una carta d'identità scolastica: dal primo banco di scuola all'ultimo, quale potrà essere. Farà sapere a noi e agli altri quello che siamo stati. Lo stesso CHI E' ho proposto anch'io per la professione che esercito: quella giornalistica. Ma a tutt'oggi non ho avuto fortuna. E questo sottolineo qui a conferma della difficoltà insita in questa mia selezione, che riconduce alla generale soggettività della stessa verità, sottoposta sempre alla volubilità delle interpretazioni. La troviamo alla radice della vita. Figuriamoci a quella della vita politica.

Un aspirante a tutto: "chillu curiusu"
Ma ritorniamo ai nostri modesti medaglioncini classificabili sotto la voce "statista".
E qui prima della fase repubblicana di questo secolo (con la lunga parentesi del ventennio e con un Mussolini che secondo noi esula da questa tematica perché il giudizio che riguarda lui e il suo tempo ne enuclea in termini variamente apprezzabili solo quello riferentesi ad un giornalista, forse rilevante, ma sbagliato) dobbiamo ricordare anche quello che agli inizi abbiamo definito "aspirante a tutto", e quindi anche al ruolo di statista, chiaramente mancato nella relativa esplicazione, ma avventurosamente esplicato, com'era nella natura, nella vocazione, forse nel destino dell'uomo. Parlo di D'Annunzio.
Nella sua biografia c'è il desiderio dell'immenso, che però non lo illuminava, come per sé diceva Ungaretti. D'Annunzio l'ha inseguito dovunque, anche nella scelta del cognome, di cui le enciclopedie tacciono, perché partono per i loro profili dal 1883, anno in cui egli esce dal collegio Cicognini di Prato. Dopo di allora le sue strade sono tante. Ma qui una data ci interessa ed è quella del 1919: Mussolini fonda i Fasci a Piazza San Sepolcro a Milano (in questo destino c'è pure la parola sepolcro), D'Annunzio fa la Marcia di Ronchi, che porta all'occupazione di Fiume e alla proclamazione della Reggenza del Carnaro e quindi alla Carta, che come si sa nel fascismo succube di queste suggestioni ha trovato il seguito bottaiano della Carta del Lavoro e della Carta della Scuola. Ma le Carte, anche se si chiamano riforme, non finiscono mai. Sono come gli esami di De Filippo.
Orbene, qui c'è un giudizio molto sintetico di Mussolini. Come giornalista (che si dice riuscisse a vendere più copie del giornale che dirigeva quando c'era un suo articolo e lui aggiungeva che per richiamare l'attenzione del lettore avrebbe dovuto contenere qualche refuso!), egli paragonava D'Annunzio a un dente dolente che avesse solo bisogno di essere riempito d'oro.
L'odontoiatria, dunque, come ricetta politica, e Mussolini l'ha instancabilmente praticata nei confronti di un D'Annunzio sorvegliato speciale del fascismo. Però al Vittoriale: con un prefetto alle sue dipendenze, ma che aveva il solo incarico di sorvegliarlo e di controllare i suoi movimenti, che però non c'erano. Perché D'Annunzio, anche in età avanzata ed alla sua fine stessa, inventava a se stesso di essere alla ricerca di un altro suo io e non lo trovava, perché nestava immaginando sempre un altro. Un immaginifico, pertanto, che si è mangiato la coda, come un gatto.
Nitti, dal canto suo, si è lungamente occupato di lui. Nell'agosto del '22 si dice che con D'Annunzio e Mussolini abbia abbozzato e poi rinunciato a un tentativo di soluzione della crisi della politica italiana. Non se ne fece nulla, come si sa, perché dopo fra Mussolini e D'Annunzio ci fu una certa corsa a chi arrivava prima. E Mussolini vi è riuscito, non con una razionale strategia, ma soprattutto con l'ausilio delle circostanze.
A Nitti è rimasta la soddisfazione di dedicare a D'Annunzio la parte terza del suo VI volume dedicato agli scritti politici. Da pagina 305 a pagina 387. Fate il conto, su di un volume che non è solo di storia, ma anche di ricognizione e dialettica spirituale e pure filosofica. Ma il punto di maggiore forza e forse per Nitti più gratificante è quello in cui Nitti riferendo della vita e delle avventure di D'Annunzio a Napoli - egli ne era stato compagno e amico - scrive che il poeta fu definito "chillu curiusu" da un capo camorra che aveva ricevuto la sfida a duello dal poeta, che era stato malmenato perché alla compagna del camorrista aveva rivolto i suoi sguardi professionalmente, ma questa volta inutilmente, languidi e invitanti.
D'Annunzio dal canto suo, per ragioni politiche - con Fiume di mezzo - ripagò Nitti con la qualifica di Cagoia. La storia, a quei tempi, si faceva anche così.
D'Annunzio, comunque, ha a che fare con me, che non l'ho conosciuto, con sei persone che invece ho conosciuto e perciò ne parlo.
C'è la bisnonna di mia moglie, amica della moglie di D'Annunzio. Questa era una gallese, aveva a che fare con un marito, già suo precettore, con il quale era fuggita di casa con un già stanco matrimonio riparatore alle porte. D'Annunzio rincorse altri amori, ma non la dimenticò. Perché ne aveva avuto due figli: Mario e Gabriellino, ed anche quando mandava un prefetto retribuito però dallo Stato a dirle che non aveva soldi per pagarle gli alimenti, la gallese si contentava di vivere a Roma, allestendo e vendendo ricami e paralumi. Nella Roma degli anni 10 e 20 si riusciva a praticare la dignità, che talvolta era pure nobiltà, anche così. Ma mia moglie, andando a Montecatini, ricordava da bambina un D'Annunzio che a Montecatini si aggirava con un giglio in mano cercando spesso invano attenzione.
Un D'Annunzio che ho conosciuto è il figlio Mario, al ministero delle Colonie nel 1927: io da matricola alla Sapienza di Roma avevo costituito il primo Gruppo universitario coloniale d'Italia (Mussolini ci aveva mandato una sua fotografia con dedica in cui "giganteggiava" su di una colonna di Leptis Magna. E la dedica allora poteva figurare anche come indirizzata ad un gruppo che non fosse necessariamente fascista).
Questo Mario D'Annunzio era un D'Annunzio in miniatura. Con lo stesso volto, con una spalla leggermente inclinata. Curava solo la rassegna stampa del ministero. Mostrava di capire che non poteva aspirare a qualcosa di più. Non tollerava però, ma lo diceva solo a me, che una rivista poi divenuta ufficiale del ministero - si chiamava L'Oltremare - pubblicasse la sua rassegna stampa con la firma "I toloba". Chi erano costoro? Un mistero per lui e per me. Questo Mario D'Annunzio, mentre suo fratello, Gabriellino, era in America, fu poi trasferito alle organizzazioni del credito e così divenne quello che oggi è un deputato.
C'è in questa vicenda un altro Gabriele, che però era tabaccaio di Melfi e nella sua tabaccheria mostrava una fotografia con dedica del poeta. Egli era il suocero di un'amata figlia naturale di D'Annunzio, che aveva sposato un capitano di vascello mio compaesano. Melfi e con questo paese i bambini di allora, come me, la ricordano come una signora che sapeva essere signora, immersa educatamente fra la gente. Quale differenza con il padre, di cui era stata l'infermiera dopo l'incidente di Venezia, che fra l'altro gli costò la perdita di un occhio, con la surrogata sostituzione di un galante monocolo.
Ma c'è un altro figlio naturale da ricordare e che io ho conosciuto, perché circolava a Roma negli ambienti giornalistici, di cui anch'io ero parte. Era un macro D'Annunzio, con il maggior peso unicamente quantitativo che lo rendeva tale. Si fregiava di una medaglia, che a quei tempi sugli abiti borghesi erano rare. Faceva molto affidamento sulle scarpe di invisitata ampiezza, anzi vastità, tale da fare invidia a quelle dei poliziotti inglesi. L'importanza del cognome era sottintesa. Ma si sapeva che non era spendibile. E ciò avveniva mentre D'Annunzio tentava di dare legalità alla circolazione della sua immaginaria moneta: mancato statista, come si vede, ma oggi con un Vittoriale che sopravvive.

Ope legis, ma realmente solo qualcuno
Ci sono, infine, gli statisti che si potrebbero definire ope legis. Quelli, cioè, che vengono elevati alla massima carica dello Stato: i Presidenti della Repubblica.
Ma anche in questo caso le nomine dicono una cosa, la storia un'altra. Le mie conoscenze personali nella vita di questa Repubblica si limitano, per mia fortuna di obiettivo cronista, ad una sola persona, e cioè a Giuseppe Saragat. Per gli altri ci sarà certamente da ricordare Giovanni Gronchi, con una vita politica che risale al 1919 essendo stato uno dei fondatori del partito popolare, con la sua nomina a ministro nel primo ministero De Gasperi (come opinionista economico di un quotidiano romano nel 1946 mi occorse titolare un articolo di commento a un suo discorso "Gronchi nostalgico del corporativismo), con l'assunzione della Presidenza della Repubblica (1955-1962), ed Einaudi, pur nel quadro da me richiamato all'inizio di queste notazioni. Saragat invece occupa più spazio nei miei ricordi, sia perché ho avuto a che fare con lui, sia perché nella storia della Repubblica ha detto e ha soprattutto fatto alcune cose importanti. E a rilevarle è uno, come me, che è stato sempre da una parte opposta alla sua. Egli infatti, oltre ad essere da socialista esule durante il fascismo, ha guidato la scissione dell'ala destra del PSI costituendo il Partito socialista dei lavoratori italiani, poi PSDI. Varie volte al Governo: fra l'altro nel '49 ministro della Marina Mercantile, dove lo conobbi perché accompagnavo Costa, allora oltre che Presidente della Confindustria anche Presidente della Confederazione degli Armatori, e io ne ero p.r. - come si dice oggi - durante le trattative sindacali della gente di mare, precisamente portuali, che erano culminate in uno sciopero ad oltranza. Saragat era affiancato nel suo intervento di mediazione e di definizione della vertenza da Giorgio La Pira, anche lui con una storia di spicco alle spalle: giurista, membro della Costituente, siciliano ma divenuto nel 1951 e successivamente sindaco di Firenze ad alta e pure disarmata vocazione solidaristica.
Un'accoppiata che non mi sembrò adatta a inquadrarsi in una vertenza sindacale che era divenuta virulenta. Saragat cercava di spiegare a noi giornalisti quello che egli stesso capiva poco. La Pira parlava nella sublimazione di un pensiero predisposto alla illimitata, intransigente, praticata fratellanza. A quei tempi Fanfani venerava come reliquia un cappello di La Pira, usato taumaturgicamente. A discutere, a concludere erano invece Costa, Lauro, il capitan Giulietti (questi per interposte persone, ma presente con la sua passata tradizione che lo aveva visto come pilastro a Fiume di D'Annunzio).
Tutti i giornalisti del tempo, pure di spicco, sanno queste cose, con uno sciopero che finì, con la partenza delle navi due ore prima della sua conclusione, solo perché un solerte ufficio stampa aveva diffuso prematuramente un comunicato. Il capitan Giulietti - quanta appropriazione da parte di altro tipo di letteratura è intervenuta nel tempo rispetto a una denominazione del genere - era a letto e svegliato di soprassalto venne al ministero, allora a Piazza della Minerva, a protestare. Erano rimasti i soli uscieri. Perché gli altri, dopo notti insonni, eravamo andati tutti a dormire. Le navi già da qualche ora erano in navigazione.
Una seconda volta che ho avuto a che fare con Saragat, fu in occasione di un mio commento su Il Sole-24 Ore, che allora dirigevo, ad un passo di una sua intervista (1963) in cui accennando alla nazionalizzazione dell'energia elettrica egli ne paventava i timori inflazionistici. Di questa intervista a Il Corriere della Sera egli aveva smentito un punto. A me dopo una ventina di giorni ne smentì la parte da me richiamata. E lo fece con un telegramma che si richiamava al noto obbligo di legge, e al quale replicai rilevando le sue smentite tardive ma telegrafiche e a rate e mi affidavo unicamente alle reali conseguenze di questa nazionalizzazione, sulla quale ormai sappiamo tutto in termini di "prezzo politico" inutilmente pagato, di successive e generalizzate sconfessioni, di "contrordine compagni", con la nota storia in corso.
Saragat è stato poi il patrono del Centenario de Il Sole, nelle manifestazioni che l'hanno accompagnato, veramente imponenti - modestia a parte - nella storia del giornalismo italiano.
I miei ricordi e tentativi di questo insolito, ma vissuto, complesso di medaglioncini finiscono qui. Ognuno nel tentare questa selezione potrà indubbiamente aggiungere la propria.


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