Arcitaliani




Aldo Bello



I1 24 maggio 1915 l'Italia entra in guerra. Il 2 giugno il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, pronuncia un importante discorso patriottico e antiaustriaco. Il 7, Giovanni Battista Pirelli, nominato senatore a vita dal Re, gli indirizza una nota di plauso. Ventiquattr'ore dopo, da Milano, gli spedisce una lettera che contiene una denuncia "per patriottismo ma anche per semplice dovere di galantuomo". Scrive il senatore del Regno: "La mia industria, per la varietà dei suoi prodotti di applicazione alla tecnica della guerra (conduttori elettrici e gomma elastica), è continuamente chiamata, sia da Reparti dell'Esercito sia dalla R. Marina, a sottoporre offerte ed a fare forniture. Dacché gli armamenti si sono intensificati, è accaduto a vari uffici della sede centrale della Ditta o alle Filiali e Rappresentanze, di ricevere proposte scorrette da parte di intermediari e perfino - in forma talvolta aperta e più spesso velata - da taluni preposti ai servizi militari. In passato ho potuto rilevare indirettamente, e per eccezione soltanto, qualche abuso del genere; ma oggi, essendosi creati anche comandi autonomi ed affidate delicate funzioni senza i consueti controlli a molti ufficiali in parte tolti dalla vita dei traffici, la cosa appare estesa. E se si è palesata tale presso la mia Ditta, nota per rigorosità di condotta, immagino si sia largamente ripetuta presso altre - e ne ho indizi. Tale spettacolo mi ha indignato e dopo aver alquanto soprasseduto mi sono deciso a scriverne a Lei perché mi sembra che esso reclami uno di quei particolari provvedimenti o decreti nei quali Ella è maestro di tatto e di misura, che comminando a corruttori e corrotti pene eccezionali può spazzar via questo grande marcio che svaligia lo Stato ed in quest'ora di purissima azione profondamente offende e umilia. L'argomento è gravissimo, e, come è naturale, non posso presentare prove, come forse non ne potrebbe dare nessuno. Ma Ella sa chi sono e può ben credere che se mi sono deciso a scrivergliene non è perché una soverchia sensibilità d'animo abbia dato corpo a delle ombre".
Non c'è democrazia senza corruzione, diceva Clemenceau, che pure della democrazia era un irriducibile campione. Tuttavia, commenta Montanelli, fra le democrazie ci sono quelle che alla corruzione non oppongono resistenza fino a lasciarsene putrefare, e quelle che invece hanno nel sangue gli anticorpi per combatterla o almeno isolarla. Quelli di Pirelli erano tempi di decollo industriale, contrassegnato in Italia - e in tutto l'Occidente - da un capitalismo selvaggio che si era imposto la regola di infrangere ogni regola. E la guerra, con la massa enorme di commesse e di forniture che comportava, era una grande tentatrice. Evidentemente molti soggiacquero alle tentazioni. Ma ci fu chi resistette, o addirittura denunciò, invocando misure severe e controlli rigorosi. Furono uomini dabbene, indignati dall'andazzo che inquinava la vita civile e incrinava i principi etici ai quali credevano; e non ravveduti dell'ultima ora, pentiti o dichiaranti o collaboratori di giustizia, come oggi sono variamente definiti, che in parte aiutano, ma in più gran parte avvelenano istituzioni, società e politica contemporanee.
Da allora sono trascorsi più di ottant'anni, ma noi continuiamo a scandalizzarci d'avere una classe politica e amministrativa che persevera nel dare esempi anche clamorosi di disonestà. Le vicende di Tangentopoli, esplose per ironia della dialettica della storia nella città che si diceva "capitale morale" d'Italia, sono note. Chi è incappato nelle maglie delle procure è stato emarginato o distrutto, anche prima ancora che si percorressero tutti i gradi del giudizio. Imprenditori, politici, amministratori, finanzieri, gruppi di pressione un giorno influenti, forze politiche un giorno ai vertici istituzionali, sono stati costretti ad uscire di scena. In nome della legge, ma talora anche in nome di un giustizialismo da popolo di ciompi, è stato sconvolto un "sistema" che si riteneva inossidabile, anche se niente e nessuno è riuscito a cancellare il sospetto che nei riguardi di certe forze politiche e di certe organizzazioni economiche e commerciali, finanziatrici di altri partiti, ci sia stata una sorta di congiura del silenzio, o quantomeno di ipergarantismo, che legittimerebbero il dubbio di ambigue complicità: come se la magistratura, e meglio ancora, un settore importante della magistratura impegnata nella lotta alla corruzione sia stata il braccio armato strumentale di una parte politica, che in questo modo, dispiegando una rivolta morale unilaterale, si sarebbe sbarazzata di avversari altrimenti imbattibili.
Sia come sia, questa è cronaca in corso d'opera. Dovranno essere i legittimi poteri dello Stato a dare - come ci auguriamo - una risposta decisiva alla domanda di moralizzazione di tutti gli apparati (e di tutti i potentati) pubblici e privati, senza distinzioni di appartenenza o di schieramento.
Qui ci interessa, però, un altro aspetto della questione. Quello, cioè, che non riesce a toglierci dalla testa che il coro generale e compatto, persino eccessivamente enfatizzato, degli italiani contro corruttori e corrotti d'alto bordo serve a non portare all'attenzione di noi tutti un'altra corruzione: la nostra, di noi tutti, della società civile che è abitualmente contrapposta alla società politica. Ebbene: la nostra società civile - come ha ribadito Galli della Loggia - "non è quell'arca di virtù che si dice", perché la verità è che siamo un Paese dove "non solo l'illegalità e i comportamenti paraillegali hanno una straordinaria diffusione, ma dove anche l'impulso a frodare nel senso proprio del termine è un imponente fatto di massa".
Cerchiamo di tracciare una classificazione dei circuiti illegali, sia pure parziale e sommaria, lasciando lavorare la memoria. E ci troviamo, subito e comunque, di fronte a una mappa di diversi tipi di illegalità: spontanei, organizzati, nazionali, locali.
Tra le illegalità nazionali organizzate, le principali intervengono, ovviamente, sui meccanismi di redistribuzione del reddito operate da enti centrali dell'amministrazione pubblica, con importanti ramificazioni locali. Il più cospicuo, in termini di cifre e di persone coinvolte, è quello delle pensioni indebite, ottenute mediante procedure semplificate e giudizi di favore, senza necessariamente giungere alle vere e proprie falsificazioni. Si tratta per la più gran parte di pensioni di invalidità, la cui concessione dipende da valutazioni individuali e non dal curriculum lavorativo dell'individuo pensionabile. I beneficiari di pensioni irregolari, perché non dovute o indebitamente maggiorate, sono di un ordine di grandezza superiore al milione (rilevazione del Centro Studi Einaudi) e l'imponenza del fenomeno sottende l'esistenza di un'organizzazione a maglie larghe che "curava" le pratiche.
Accanto, ma non in subordine, le assunzioni di falsi invalidi, attuate con meccanismi analoghi. Anche questa tipologia è a un tempo nazionale e locale. Secondo la stima più recente, possono averne beneficiato da tre a quattrocentomila persone, oggi in servizio prevalentemente in amministrazioni pubbliche.
I1 secondo circuito di illegalità che, pur avendo basi locali, assume caratteristiche nazionali per la sua stessa natura, è quello delle frodi agricole, ossia dei contributi dell'Unione europea riscossi indebitamente, nonché delle quote produttive non rispettate, come si è visto per i produttori di latte. Anche in questo caso il numero delle persone coinvolte è cospicuo. Sulla base dei dati esaminati, si ritiene che si tratti di due-trecentomila imprese agricole.
Passiamo ai più rilevanti circuiti di illegalità locali. Per l'abusivismo edilizio, le cose sono fin troppo note: le singole abitazioni coinvolte sono dell'ordine di cento-duecentomila all'anno, come risulta dal confronto tra i dati sui permessi di costruzione e quelli dei censimenti edilizi o dei nuovi allacciamenti di abitazioni alla rete elettrica. Il fenomeno è presente in tutto il Paese, e in parte è addebitabile all'inerzia delle amministrazioni comunali o al tiro alla fune che si manifesta per inconfessabili interessi legati al varo dei piani regolatori.
Nella sanità le cose sono ancora più complicate. I casi di Milano (coinvolti centinaia di professionisti di grido per false e costosissime analisi) e di Trapani (una cinquantina di professionisti denunciati per analisi inutili) rappresentano sicuramente le punte di un iceberg molto più vasto, con numerose realtà illegali. E poiché la fantasia non ha limiti, si è giunti al mancato (o tardivo) depennamento, in una sola cittadina, Cassino, di 170 defunti dalle liste dell'assistenza sanitaria, con l'introito, da parte dei medici delle relative quote mensili e l'annessa erogazione di farmaci da parte di farmacisti che poi commerciavano sottobanco i medicinali.
E ancora: i pagamenti indebiti a pubblici dipendenti di indennità (di missione, di trasloco, di corsi di aggiornamento, e via frodando) illegalmente percepite. Recenti casi hanno rivelato che il fenomeno è diffuso, per cifre tutt'altro che modeste, nelle Forze Armate, ma è presente anche in altre amministrazioni. In questa categoria rientrano anche le assenze indebite dal lavoro, con gli insegnanti in cima alla graduatoria dei dipendenti pubblici, tutti noti - con poche eccezioni - per non essere poi tanto disponibili agli adempimenti degli obblighi d'ufficio.
Potremmo proseguire all'infinito: con le scommesse clandestine, con le corse a scrocco sui mezzi pubblici (10 milioni nella sola Torino; dunque, quante centinaia di milioni in tutta la penisola?), con gli "attacchi" abusivi alla corrente elettrica, con la manomissione dei contatori dell'Enel e degli apparecchi telefonici, con le clonazioni, con le devastanti evasioni fiscali di professionisti e - soprattutto - artigiani, col contrabbando di sigarette e di sostanze stupefacenti, con il rifiuto del pagamento del canone Rai, della tassa di bollo per le auto, dei contributi Inps per le colf o per dipendenti tenuti in condizione di eterna precarietà.
Dunque, poiché non siamo un esempio di spirito civico, è forse il caso di chiederci se una questione morale non si ponga in realtà per l'intero Paese e per l'intera società. Non per giungere alla solita sanatoria generale, ma per capire ciò che effettivamente siamo diventati dopo la rivoluzione degli anni Settanta e la grande trasformazione degli anni Ottanta, le quali ci hanno reso più ricchi, più mobili, più moderni, anche più liberi, ma sicuramente hanno mutato alla radice il profilo dei nostri valori personali e collettivi. Sostiene Galli della Loggia che probabilmente nuovi compromessi e nuovi singolari adattamenti sono andati ad aggiungersi a quelli antichi di un Paese che fin qui è stato l'unico integralmente cattolico ad avere conosciuto un pieno sviluppo del capitalismo e della democrazia, e per questa sorte probabilmente continua a pagare ancora un prezzo in termini di inadeguatezza della società civile. Ma ne sappiamo poco, e a quanto pare vogliamo saperne ancora meno: "Nel conclamato discredito e nell'incessante vituperio di cui fanno oggetto i loro governanti, si direbbe quasi che gli Italiani cerchino segretamente, e gioiosamente trovino, l'oblio di tutte le grigie eredità del passato o una comoda assoluzione per il loro modo d'essere presente".
Se è vero, come scrive Francesco Orlando nel suo ultimo libro, L'altro che è in noi, che il vero custode della nostra identità è solo la mente-occhio di chi è fuori di noi, allora non c'è proprio da rallegrarsi. Anzi, a leggere l'introduzione che Anselm Jappe premette alla sua scelta di testi di autori italiani (da Leopardi a Sciascia) col titolo emblematico Peccato per l'Italia!, si prova un certo disagio. Jappe è un osservatore attento che non cerca 1'originalità a tutti i costi. Abita da anni in Italia, e forse proprio per questo non è tenero con noi. Del resto, la giustificazione non gli manca: noi siamo i primi a sparlare di noi stessi. E i testi, fra gli altri, di Prezzolini, di Flaiano, di Papini, di Brancati, che ha antologizzato sono uno specchio in cui ci si ritrova qua e là deformati, ma purtroppo sempre profondamente veri. Allora, ha torto Orlando e la nostra identità scalcagnata ce la siamo cucita addosso da soli nei secoli? Un po' di malizia e molta verità ci sono sicuramente in questi brani. Potrebbe essere un buon inizio: l'autoflagellazione non fa mai troppo bene ed è non di rado insincera, perché è un modo un po' furfantesco, da arcitaliani, di lasciare le cose come stanno, ma l'autocritica è un esercizio doveroso e utile.
Da sempre gli italiani sono stati affetti da pessimismo e da scetticismo. Croce diceva che il carattere di un popolo è la sua storia, tutta la sua storia. A guardare quella italiana ci si amareggia non poco: la perdita delle libertà, la sudditanza allo straniero, la tardiva unità nazionale, le guerre civili seguite a quell'unità e alla fine del secondo conflitto mondiale, la democrazia bloccata, le attuali mozioni secessioniste non hanno solo spinto a una ragionata disillusione, ma alla subordinazione della passione civile alla cerchia dei rapporti tribali e, un gradino più giù, familiari. E' in fondo ciò che emerge con forza da un'appropriata riflessione sui Ricordi di Guicciardini nell'ultimo libro di Asor Rosa sull'identità italiana in letteratura.
Guicciardini, dice anche Jappe, ha creato il prototipo dell'italiano moderno: un cittadino scettico e opportunista che mette al primo posto il proprio tornaconto personale. Nel giudizio sui mali secolari del Bel Paese l'italiano Asor Rosa e il tedesco Anselm Jappe sembrano concordare: fatale è stata la perdita precoce del senso della comunità civile. Jappe non sgrida gli italiani, come faceva il Baretti, perché non sono inglesi; né propone di rifarli da capo, come sentenziava l'Alfieri, perché non erano più romani. Cerca invece di capire la discronia fra il loro sviluppo materiale (siamo pur sempre una delle grandi potenze industriali del pianeta) e il sottosviluppo psicologico e civile. Potrà non piacere, ma l'identikit che ne emerge è tanto vero quanto inesorabile: il cinismo, il divario fra essere e dovere, la mancanza di regole morali, l'inesistenza di una matura società civile, gli egoismi, la corruzione, la rissosità politica (i satirici come Longanesi e Flaiano l'hanno inserita fra i loro obiettivi), il senso del privilegio, i piccoli tradimenti, le perfidie quotidiane, e chi più ne ha più ne metta. Sarà come diceva Bernard de Mandeville nella sua Favola delle api: i vizi privati creano pubblica prosperità.
Ma certo è che il modello-Italia ha qualcosa di paradossale: un progresso che si sviluppa all'interno della precarietà. C'è la legittima suspicione che tanti vizi italiani siano ormai perfettamente in linea con certe forme di deregulation, vale a dire con quel clima, quella temperie di mobilità e di insicurezza permanente diffusi un po' dovunque.
Sarà dunque vero che si può essere post-moderni senza aver rinunciato all'arretratezza? Lo aveva già segnalato Giulio Bollati in un bel saggio sul carattere degli italiani: la specificità nostrana è racchiusa, a suo parere, proprio in tale sdoppiamento. Di qui anche i luoghi comuni che hanno acceso a lungo la fantasia degli stessi tedeschi: l'Italia come il "Paese dei limoni", dove l'ingegno naturale trionfa sul metodo, e il cuore l'entusiasmo l'inventiva hanno la meglio sullo "spirito di sistema". Insomma, niente etica protestante e meno che mai virtù tradizionali del capitalismo classico, bensì improvvisazione, flessibilità, compromesso, e soprattutto grande abilità nell'aggirare le leggi e, quando occorra, nel mettersi anche contro o al di fuori di esse.
Al cospetto di una società per tanti versi moralmente allo sbando, si possono capire il rimpianto, la nostalgia per tempi che sono stati, e che non sono più. Negli anni Ottanta (quelli della "frontiera") si prospettava un futuro fantasmagorico, attingibile, provvidenziale come una linea diritta. Soprattutto il Sud delle accanite povertà, delle migrazioni disperate, dei condizionamenti mafiosi, immaginava la possibilità di lasciarsi alle spalle la terra desolata di Eliot, perché intravedeva spinte volitive e garantite promesse d'avvenire. Subito dopo, la tremenda delusione, l'intristito sbigottimento che afferrò gli animi di regioni e di genti che smisero di strappare la gioia a un futuro che sembrava adolescente ed era soltanto - e atrocemente - falso.
Non è stato abolito il canto della "speranza" con cui si sono popolati i paesaggi di un Sud ingannato per quasi un secolo e mezzo; lo si è interiorizzato, eludendo ogni diritto, stemperandolo nella vastità di un'Europa che accetta soltanto Stati che hanno i conti in nero, e per quel che ci riguarda, tanto in nero da poterci considerare "mediamente" ricchi, malgrado la presenza di un terzo di Paese in profondo rosso. Non a caso un leader italiano ha citato Rilke come labirintico profeta: "Il futuro entra in noi molto prima che accada". Ma nel futuro di Rilke il "bene" e il "bello" non sono certificabili, perché sono sottratti alla realtà visibile ed entrano a far parte di un mondo invisibile, privato, persino ineffabile. Il passaggio è duro e si possono comprendere le mestizie. E' difficile prender congedo da quella "speranza", anche quando la storia ha dimostrato le brutture e le controverità che si celavano dietro tante promesse fittizie. In nome e in virtù delle quali il Sud è stato protetto dai cambiamenti, dalle adulte evoluzioni, dall'offensiva di un'economia che si mondializza, e mondializzandosi lascia ancora più desolata quella terra, ne fa anzi un continente più drammatico, faulkneriano, capace di forti e crude analisi e di grandi accenti tragici, ma rigorosamente impedito nel trasferimento in una temperie diversa, in una dimensione tutta moderna, oltre la linea polare della sua arretratezza complessiva. In questo Sud il sole non tramonta mai, perché non ci sono né Maastricht né mondi circostanti. Perché il suo modello, tenacemente conservato all'interno e più pervicacemente reso stagno dall'esterno, deve continuare ad essere il firmamento recintato, costante, e fisso: come, appunto, l'altro che è in noi. L'Italia e il suo doppio.
Non riesco a spiegarmi diversamente la persistenza più che secolare delle criminalità organizzate nel Sud e le loro metastasi nel resto di un Paese che cova centinaia di Bronx, uno per ogni città, paese, villaggio, contrada, quartiere, cortile. Sappiamo bene che in varie parti del mondo sono presenti analoghe organizzazioni, in alcuni casi potenti quanto, e anche più delle nostrane. Ma in quale misura? Perché il problema va ricondotto a queste categorie: la misura e la capacità di sopportazione. Esiste una soglia di tollerabilità che da noi, malgrado il clamore di tanti successi conseguiti in questi ultimi anni, è stata largamente superata. Quattro quinti dei 500 ricercati più pericolosi appartengono alle mafie, con una quota aggiunta di sequestratori di persona. Le attività illecite, dall'estorsione all'usura e al riciclaggio, formano un sommerso gigantesco, che si serve degli strumenti tecnologici più moderni per sfuggire alle intercettazioni degli investigatori. Ma si ammazza ancora per un reato da Far West, l'abigeato (in Sardegna, in Calabria, nel Gargano). E anche nei paesi più piccoli dilaga tutto un milieu di ladri, di svaligiatori, di ricettatori che agiscono pressoché indisturbati. Conseguenza diretta: risultano compromessi la sicurezza personale, l'ordine sociale, e, sotto il profilo giudiziario, è "obliterato", o quasi, il reato contro il patrimonio.
Perché non si decapitano le idre? Delle mafie sappiamo tutto, anzi di più: quartieri in cui agiscono, attività che dispiegano, nomi dei capifamiglia, numero degli affiliati. La massa abnorme di pentiti di tutti i calibri protetti dallo Stato, e pagati dai cittadini, avrà pure consentito di aggiornare organigrammi, collegamenti, complicità, intrecci affari-politica, referenti esteri. Che cosa impedisce, allora, che si mettano con le spalle al muro cosche, paranze e 'ndrine siciliane, campane, calabresi, e insieme quelle pugliesi, al modo di quel che è accaduto a New York, dove un solo magistrato, oggi sindaco della città, Rudolph Giuliani, ha distrutto le cinque famiglie (i Genovese, i Lucchese, i Bonanno, i Colombo e i Gambino del celeberrimo Goodfather, il padrino dei padrini) che tenevano in scacco la città? Che cosa vieta di eradicare le malepiante che, colpite saltuariamente, rigerminano per partenogenesi, vanificando anni di lavoro investigativo, sacrifici - anche della vita - di uomini di legge, rivolte di singoli cittadini?
Ci sono misteri insondabili in questo Paese sciagurato. Chi potrà mai motivare con ragioni obiettive la nomina a capo della Commissione Antimafia di un ex leader sindacale, che avrà ottimamente agito nel campo delle rivendicazioni operaie e delle "concertazioni", ma che in fatto di guerra alla criminalità organizzata non può che essere un puer aeternus, con una forte etica della convinzione, come direbbe Max Weber, ma assolutamente estraneo - per esperienza e per prove - alle patologie criminogene del Sud?
Chi farà luce sui conflitti tra antimafie giudicanti e antimafie inquirenti, che sembrano la cornice ideale all'ammonimento di Temistocle, applicato alle regioni meridionali, secondo cui "di certo noi periremmo, se non fossimo periti"? E chi ci orienterà nell'inferno di veleni e di veline che menti sulfuree disseminano per rendere più precaria e più instabile l'Italia degli aventi diritto e quella, speculare, della sovranità - dei cittadini - limitata?
Ci troviamo di fronte a questa realtà storica, e nostro fine è tener conto di questa realtà non più rettilinea, ma labirintica, per guardare un metro - com'è stato detto - solo un metro oltre l'orizzonte. Guardare almeno un metro oltre l'orizzonte significa ridare spazio ai valori positivi, ed evitare che questo spazio sia definitivamente fagogitato dagli anarchici assalti dell'illegalità, della disonestà, del crimine. Significa muoversi nel presente, alla maniera di Rilke, appunto: preparando sin da ora il futuro, prima che esso subitamente accada; accettando di operare in terre desolate, sapendo che non esistono vie d'uscita altrimenti percorribili; e prendendo atto che tutto questo deve avvenire ormai indipendentemente dal sovrano classico, dal vecchio Stato e dalle tradizionali classi dirigenti. Sarà un travaglio aspro, ma anche il futuro di Rilke potrà essere d'aiuto, se servirà a smuovere Nord e Sud dai loro protervi fusi orari, perché "ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, / cui non appartiene il prima né l'avvenire imminente. / Perché anche l'imminente è remoto agli uomini". Dobbiamo anche noi - con il poeta - trovare un puro, trattenuto, sottile lembo umano. Una nostra etica. Una striscia di terra feconda, tra rocce e correnti.


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Il Muro di Porta Pia

Sono trascorsi poco meno di 130 anni dalla Breccia di Porta Pia, e la ferita è ancora aperta. Il 20 settembre '97, durante la celebrazione della ricorrenza, solo l'intervento delle forze dell'ordine ha evitato che tra le parti in causa si giungesse allo scontro fisico.
Erano presenti, e incomunicanti, il Grande Oriente d'Italia, i bersaglieri in armi e in congedo e i pontifici capeggiati dal principe Orsini. I massoni erano stati inseriti sul filo di lana, e manifestando per primi avevano sconvolto gli orari del cerimoniale, provocando le intemperanze dei "papalini" e la reazione dell'Associazione Bersaglieri. I soldati piumati, com'è noto, sono nel cuore degli italiani. Fra l'altro, entrarono per primi a Roma. Nelle foto di Franco Barbieri, che pubblichiamo in esclusiva, i momenti della celebrazione, che è stata un'occasione perduta di riappacificazione: nella prima, l'onore reso ai caduti pontifici; nella seconda, lo striscione antimassonico, poi requisito dalla polizia; nella terza, i bersaglieri in corsa; nella quarta, i momenti di tensione.
Per la storia. Le forze regie inviate col generale Cadorna erano rappresentate dal 4° Corpo (già Corpo d'Osservazione dell'Italia Centrale): sei divisioni di fanteria, una riserva, unità d'artiglieria d'assedio, 50 mila italiani contro 15 mila pontifici difensori di Roma: tre reggimenti di Zuavi e fanteria, la Legione d'Antibo, un reggimento di Carabinieri, un reggimento di Dragoni, un reggimento d'artiglieria e due compagnie del Genio, con 160 bocche da fuoco.
Dopo il ritiro delle truppe francesi da Roma, fallita la speranza di una resa spontanea, la mattina del 20 settembre 1870 Cadorna attaccò con due divisioni (11a e 12a), rispettivamente sulle vie Salaria e Nomentana. In poche ore l'artiglieria italiana aprì una breccia larga circa 30 metri nelle mura tra Porta Pia e Porta Salaria. Si ebbero perdite da entrambe le parti. I pontifici del generale Kanzler, un esercito per lo più composto di mercenari d'ogni nazionalità, si arresero e il giorno seguente, alle 7 del mattino, lasciarono la città con gli onori delle armi.
I1 primo reparto italiano ad attraversare la breccia fu il 12° Battaglione Bersaglieri. I1 2 ottobre un plebiscito nel Lazio sanciva l'unione al Regno della nuova capitale. Ma a regolare la questione romana si dovettero attendere la "Legge delle guarentigie" del 13 maggio 1871, che chiariva i rapporti tra Stato e Chiesa, e l'ingresso ufficiale di Vittorio Emanuele II, il 2 luglio successivo: la città divenne capitale effettiva del Regno d'Italia.
Ma evidentemente tra italiani e filo-pontifici il Tevere è ancora oggi troppo largo.


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