L'Italia degli italofoni




S. B.



Il grande linguista e storico delle lingue dell'Italia antica e moderna, Giacomo Devoto, fu maestro nel cogliere la rilevanza storica generale di dati linguistici, sfuggita a volte ad altri linguisti e non sempre colta dagli storici, (non dai britannici, e nemmeno dai francesi). Più di trent'anni fa fu mostrato che, al momento dell'unificazione politica nazionale, non più del 2,5 per cento della popolazione italiana (inclusi i toscani e i romani alfabetizzati) possedeva l'uso attivo della lingua: era, come allora si disse, "italofono". Il resto della popolazione, per oltre due terzi immerso nel più totale analfabetismo, sapeva parlare soltanto il proprio dialetto. Ma parlare sempre dialetto era pratica comune anche di persone di elevata cultura, come Cavour o Manzoni o Francesco De Sanctis: certo, essi scrivevano in italiano, ma avevano difficoltà a parlarlo, e spesso parlavano assai più speditamente il francese (che anche leggevano e scrivevano correntemente).
Devoto seppe cogliere subito la sostanza storica del dato. La cifra degli italofoni - osservò - poteva anche essere troppo restrittiva. Indagini future avrebbero anche potuto moltiplicarla per due o tre, ma in ogni caso rivelava il "vuoto oligarchico" entro cui si librava l'uso della lingua nazionale nell'Italia appena unificata.
Nell'Italia unita, soprattutto nell'età repubblicana, le popolazioni si sono sforzate di vincere questo vuoto oligarchico. Esse non hanno abbandonato l'uso dei dialetti, ancora oggi praticati da più del 60 per cento della popolazione. Ma i dialetti non sono più idioma unico ed esclusivo: sempre più largamente gli italiani hanno conquistato la capacità di saper usare anche la lingua nazionale. Secondo le ultime rilevazioni della Doxa e dell'Istat, supera ormai il 90 per cento la popolazione che dichiara di saper usare l'italiano, che per molti è anche l'idioma unico in famiglia.
Ovviamente, c'è qui un problema. Soltanto metà della popolazione adulta ha un'istruzione post-elementare. E si può stimare pari a circa il 25 per cento la popolazione che, lo confessi oppure no, è sostanzialmente analfabeta. Dunque, solo una parte dei novanta su cento che dichiarano di parlare italiano è capace di fare di questa lingua un uso responsabile. Un dato meno negativo, di evidente interesse socio-politico, è stato sottolineato più volte da Giovanni Nencioni, decano della nostra italianistica: in un'estesa rilevazione del parlato nei grandi centri urbani del nostro Paese, è risultato che in chi parla italiano c'è un'alta convergenza verso un medesimo standard linguistico, da Milano a Palermo, da Torino a Lecce, soprattutto per quanto riguarda vocabolario, grammatica e sintassi. Soltanto le pronunzie continuano a conoscere ad ogni livello socio-culturale notevoli variazioni regionali, sicuramente connesse alla persistenza di usi dialettali.
Senza "omologarsi", (come temeva Pier Paolo Pasolini), almeno la metà più istruita della popolazione pratica ormai responsabilmente la lingua nazionale e ricorre ai dialetti soltanto per necessità espressive più vivaci, per vezzo, o, nei casi estremi, per puro e semplice snobismo.


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