I vincoli sociali




Rico De Masi



Storicamente, negli ultimi due secoli non sono stati più di tre gli apparati teorici nel cui seno si è elaborato il concetto di Nazione allo scopo di trasferirlo in quello di Stato: l'idea rivoluzionaria e giacobina della "Patria dei cittadini", dove la maestà della legge - e dell'etica civile che la fonda - consente il godimento dei diritti e l'esercizio delle pubbliche virtù; la visione herderiana della Nazione come spazio culturale delimitato dalla lingua e dalla religione; l'ipotesi renaniana del "plebiscito di tutti i giorni", che annoda insieme consenso e tradizione perché mette a dimora tutto quanto è stato accumulato in forza dei plebisciti precedenti.
Va da sé che una forte impronta volontaristica avvicina le tesi giacobine a quelle di Renan - nonostante il loro diverso grado di flessibilità, infatti, postulano entrambe la supremazia dello ius loci sullo ius sanguinis -, e che il determinismo del pensiero di Herder rischia invece di precipitare nell'esclusivismo etnocentrico sempre esplicito o latente presso i popoli dell'Est europeo.
Tuttavia, i processi di Nation Building, in tempi recenti, appaiono quasi ovunque ideologicamente eclettici, soprattutto là dove l'eterogeneità linguistica e religiosa - oppure l'occasionale difficoltà di avvalersi della lingua e della religione - rendono assai problematica l'adesione elettiva a una sovranità che sia legittimata dalla propria vocazione "nazionale".
E precisamente questo sembra essere il caso dell'Italia. Nei primi decenni successivi al 1861 pullulano i dialetti - e le innumerevoli varietà in cui si suddividono - mentre non più del 2,5 per cento degli abitanti della penisola è in grado di esprimersi in un "basic italian" anche ridotto alla nomenclatura elementare. Per giunta, i governi liberali, ancora tributari della cultura romantica, adottano una politica linguistica tanto illusoria quanto imperativa, tanto precettistica quanto inefficace. Tutti, in tutte le scuole come nei reggimenti, dovrebbero imparare l'idioma di Dante e dei grandi scrittori del Trecento, un idioma rimesso a nuovo, sciacquato in Arno, da Alessandro Manzoni e dai suoi Promessi Sposi, magari con il sussidio complementare delle antologie di novelle fiorentine o comunque toscane. Pochissimi tra gli intellettuali, i parlamentari e gli uomini comunque investiti di responsabilità sembrano rendersi conto che non è possibile combattere alcuna forma di frantumazione culturale quando accade che la "sociabilità" - ossia, secondo le parole di Maurice Agulhon, "la propensione generale di una popolazione a vivere intensamente le relazioni pubbliche" - sia complessivamente scarsa o addirittura quasi del tutto inesistente.
Oggi, a poco meno di un secolo e mezzo dall'unità politica, la "sociabilità" ha compiuto passi da gigante: due conflitti mondiali, le grandi migrazioni interne degli anni Cinquanta e Sessanta, la nascita e lo sviluppo di un mercato interregionale della forza-lavoro, le vie di comunicazione e le comunicazioni, la diffusione di una lingua finalmente nazionale (per quanto elementare e imperfetta), hanno creato un rapporto sufficientemente elastico tra uniformità politica e diversità culturale, in grado di convivere fra di loro, senza sacrificarsi a vicenda.
Progettare la rottura di qualche cosa che è sia pur relativamente unito, pensando poi di ricomporre i cocci e di ottenere un oggetto migliore del precedente, è una forma di sadismo morale e intellettuale davvero senza giustificazioni.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000