Ma l'identità ha mille anni




Giuseppe Galasso



Che gli italiani fossero tanto diversi fra loro da rendere lo Stato unitario non adatto a essi è, già per questo, un errore. La Germania, che si unificò nel 1871, dieci anni dopo l'Italia, era - ed è tutt'ora - un Paese con differenze regionali e culturali al suo interno non minori di quelle italiane (e, fra l'altro, anche di confessione religiosa). Né lo Stato nazionale ha combinato in Italia collassi maggiori di quello tedesco con le disastrose imprese e sconfitte di due guerre mondiali, con un'inflazione come quella del 1923, con le inaudite ferocie di un regime quale quello nazista. E poi, sono davvero così unitarie al loro interno Francia e Inghilterra?
La verità è che l'Italia unita ha realizzato in meno di un secolo e mezzo progressi maggiori di ogni altro Paese e popolo europeo, come press'a poco tutti gli storici riconoscono. La distanza tra l'Italia e i primi Paesi europei, gravissima nel 1861, si è oggi incredibilmente ridotta o annullata. Chi avrebbe mai potuto pensare allora che l'Italia avrebbe raggiunto o superato il Pil inglese? Eppure, è accaduto. E non si venga a raccontare - per cortesia - che è accaduto contro o malgrado lo Stato. Queste sono bubbole, in genere, sul piano teorico. E lo sono ancor più sul piano storico, perché senza la parte attiva dello Stato la storia del capitalismo italiano (anche oggi) non è neppure pensabile. Senza contare, poi, l'opera enorme e complessivamente positiva dello stesso Stato al di fuori del campo economico.
Allora, perché gli italiani si sono sempre lamentati tanto dello Stato e sembrano oggi volerlo addirittura rompere?
Anche per questo vi deve essere, naturalmente, una ragione. Fondamentalmente, questa: che, se ha fatto molto, lo Stato italiano, specie in alcuni periodi, è sembrato fare alquanto meno non solo del necessario, ma anche del possibile per il bene del Paese. La società italiana è andata verso una progressiva democratizzazione, ma il peso di interessi privilegiati o costituiti è rimasto troppo forte in molti settori. Gli italiani sono oggi incomparabilmente più italiani di un secolo e mezzo fa, ma sembrano vedere, al fondo, uno Stato incapace di ridurre i problemi a livelli accettabili, (da quelli del Mezzogiorno, ivi compresa la criminalità, a quelli delle regioni più avanzate). La vita civile ha registrato progressi enormi, ma il costume e la prassi della vita pubblica non altrettanti, fino a dar luogo a casi come quello della cosiddetta Tangentopoli. In particolare, poi, è stata ed è la macchina dello Stato a destare le insoddisfazioni peggiori: servizi cattivi, costi altissimi.
Basta per mandare all'aria lo Stato italiano? Sarebbe un errore tragico. Se la Lombardia va in Europa, tanto per fare un esempio, come Italia, conterà in un modo. Se vi va sola, conterà come il Belgio e l'Olanda, più o meno, ossia molto di meno. Così il Mezzogiorno, che conterebbe quanto il Portogallo. E questo contare meno alla lunga si paga anche in strutture federali e confederali molto elastiche. E poi perché rompere un'unità nazionale che, su una base culturale millenaria, ha rappresentato ed è stata sentita, in Italia e fuori, come una grande conquista? Per tornare nel Sud ai Borboni e nel Nord ai Celti (di cui non si parla nemmeno nel Paese celtico per eccellenza, cioè la Francia)? Una cosa sono i tuttora seri e gravi problemi del Paese, che possono essere risolti sia mantenendo l'attuale struttura unitaria (che ha avuto e ha le sue ragioni), sia passando a qualche forma di federazione. Un'altra cosa sono le spinte secessionistiche, se esse cedessero alle loro tentazioni peggiori (e più sciocche ed errate) e non si risolvessero (come possono) in uno stimolo potente e felice di affrontare e risolvere meglio i problemi della Nazione italiana.


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