Saturno Duemila




Franco Di Salvo, Karl F. Liethner, Tracy Caputo, Gianni Decliva



Fino ad oggi, l'Unione europea si è sviluppata sull'onda di una filosofia di aggregazione abbastanza precisa, quella degli Stati-Nazione. L'intenzione, che risale alle origini, era quella di dare ai Paesi europei una dimensione politica continentale per metterli in condizione di affrontare i problemi della globalità economica. Adesso c'è il rischio che si debba rivedere, se non altro a livello istituzionale, questa filosofia d'aggregazione. Tanto più che il fenomeno regionalista non si limita a qualche caso, ma serpeggia un po' dovunque. In varia misura, sia pure con spinte molto diverse, ne sono investite la Francia, l'Inghilterra, la Germania, la Spagna, il Belgio, e naturalmente l'Italia.
Sicuramente, quello della Scozia è un caso a parte. Votando in massa per un proprio Parlamento sovrano, gli scozzesi hanno parzialmente riconquistato la Storia. Non hanno sciolto del tutto i legami con l'Inghilterra, non hanno cioè rinunciato all'unione delle due corone che venne definita nel lontano 1707. Ma hanno deciso di riappropriarsi dell'iniziativa legislativa e in minima parte anche fiscale. Resteranno sempre sudditi di Sua Maestà britannica, senza tuttavia dipendere interamente dagli umori di Westminster. A Edimburgo e dintorni non c'è nostalgia per Maria Stuarda, né c'è la smania per l'indipendenza e non esiste neanche una particolare avversione per Londra. C'è però l'orgoglio dell'appartenenza a una terra, a una tradizione, a una cultura che l'unione con l'Inghilterra non ha mai cancellato. Per questo le rivendicazioni scozzesi non hanno scandalizzato nessuno.
Altro caso a parte, quello della Catalogna, che, all'interno del Regno spagnolo, ha saputo imporre una sua autonomia politica e amministrativa. L'esperienza catalana è recente, non ha ancora vent'anni. Ma finora ha dato buoni frutti grazie a un modello economico che si è saputo integrare alle tradizioni locali. Un modello che si è giovato della ricchezza e della laboriosità, oltre che dello splendore dell'ambiente naturale, della regione. La validità delle ragioni storiche scozzesi e catalane non ci sembra però un patrimonio comune agli altri regionalismi europei.
L'arroganza della Baviera in Germania, il lento e convulso divorzio fra la Vallonia e le Fiandre in Belgio, le velleità della Corsica in Francia e dei Paesi Baschi in Spagna, il folclore irresponsabile della Padania in Italia, sono tutti il risultato di malesseri nazionali dove, per dirla esplicitamente, l'egoismo gareggia con la più bassa demagogia. Ciò non toglie che il fenomeno regionalista esista e meriti una risposta istituzionale dell'Unione europea.
La verità è che la mondializzazione ha frantumato quelle frontiere politiche entro le quali si sono fortificati in Europa, attraverso i secoli, gli Stati-Nazione. I1 trasferimento delle sovranità economiche e monetarie europee all'Unione ha dato il colpo di grazia. Ecco perché molti popoli si sentono attratti da strutture istituzionali e decisionali più vicine. Per molti europei era già difficile guardare alle proprie capitali. Ancora più difficile è oggi guardare a Bruxelles, capitale di un progetto politico affascinante, ma spesso incompreso e soprattutto lontano. Un progetto vitale per la sopravvivenza dell'Europa, ma che avanza troppo lentamente. D'altra parte, non si può pensare che il regionalismo europeo, proprio perché disomogeneo, abbia bisogno solo di risposte locali, di un po' di autonomia fiscale all'Italia del Nord-Est o di un vago riconoscimento delle specificità corse in Francia. E' necessaria un'iniziativa europea che tenga conto della situazione generale creatasi in questa nostra fine secolo e millennio, prima che si rinnovi, ma capovolto, il mito di Saturno: il quale, per sopravvivere, divorava i propri figli, fino al giorno in cui venne spodestato dall'unico sopravvissuto, Giove. Oggi, sono i figli (i regionalismi) a voler divorare il padre, cioè lo Stato-Nazione. Come evitarlo? Con ogni probabilità, realizzando un federalismo intergovernativo: un federalismo che superi gli Stati-Nazione e si riferisca alle nuove ridotte centralità dei governi, i quali, in futuro, saranno responsabili solo della difesa, della politica estera, della giustizia.

Agonia dell'Europa?
Sul settimanale polacco Wprost, Maria Graczyk ha sostenuto che gli europeo-occidentali hanno l'abitudine di credere che il morbo del nazionalismo affligga esclusivamente i loro vicini dell'Est. "Tuttavia il fenomeno si è fatto visibile in tutto il continente. Se all'Est la fioritura di nazionalismi è stata consentita dalla caduta del comunismo, nell'Europa occidentale essa è stata favorita dalla crisi della società democratica".
Noi spieghiamo agli europei dell'Est che dovrebbero prendere esempio da noi e risolvere i loro problemi interni, prima di entrare nell'Unione europea. Ma come fanno, dove possono trovare modelli cui ispirarsi? Così si interroga ironicamente, sulle colonne dell'International Herald Tribune, il professor Jonathan Eyal, del Royal United Services Institute di Londra.
La Graczyk analizza la situazione continentale, partendo da una domanda volontariamente provocatoria: "Che cosa mai potrebbero rispondere i funzionari di Bruxelles se un serbo chiedesse loro: - Come osate immischiarvi nei problemi dei Balcani, quando da venticinque anni è in corso una guerra proprio in seno all'Unione europea?-".
In Irlanda del Nord, l'esercito britannico ha tentato per un quarto di secolo di pacificare gli estremisti cattolici e protestanti. La minoranza cattolica si sente discriminata e in molti propugnano la riunificazione dell'isola. Secondo le stime del Sunday Times, la Gran Bretagna ha speso oltre 200 miliardi di dollari per finanziare questa vera e propria guerra e per sovvenzionare l'economia locale. Ma fino a poco fa il conflitto mieteva duecento vittime all'anno. Solo da poco si sono intavolate trattative col Sinn Fein - il braccio politico dell'Ira - per restituire una minima speranza di pace.
Rimasto nell'ombra a lungo, il separatismo scozzese non ha fatto notizia in Europa e fuori. Ma un sondaggio effettuato pochissimi anni fa rivelava che il 50% degli scozzesi desiderava la separazione immediata dal Regno Unito, il 27% la voleva in un prossimo futuro e solo il 19% non voleva alcun cambiamento. La soluzione autonomistica realizzata consensualmente ha evitato il peggio. Ma in Europa sono rare le minoranze che adottano atteggiamenti altrettanto pragmatici.
Un migliaio di morti sono il tragico bilancio della lotta armata condotta dai terroristi dell'Eta basca per l'indipendenza. Altre decine di morti hanno contrassegnato l'attività di Terra Lliure ("Terra libera"), gruppo occulto catalano. Prosegue l'irredentismo basco, mentre per quello catalano è una pagina chiusa. Sempre aperta è, invece, la questione della Corsica, dove l'Flnc, il Fronte di liberazione nazionale corso, compie centinaia di attentati, provocando decine di morti, nonostante Parigi continui a promettere "una certa autonomia" per un vago futuro. E minaccia di esplodere anche il Belgio, Paese altamente simbolico dell'integrazione europea. Nel febbraio 1992 due terzi dei deputati decisero di emendare il primo capitolo della Costituzione del 1831, trasformando il Paese in una "Federazione composta da comuni e regioni". Se in origine dominavano le dispute di natura linguistica (il vallone o francese, e il fiammingo, più vicino al tedesco con cospicui apporti di vocaboli olandesi), il conflitto finì poi col cristallizzarsi sui divari di sviluppo fra l'agricola Vallonia (un giorno locomotiva dell'economia complessiva) e le industriali Fiandre, ora non più esposte ai cicli di depressione economica. E fiamminghi sono gli attivisti del Vlaams Blok, gruppo segreto che agisce in nome del separatismo, da ottenere consensualmente, al modo di quello realizzato per l'ex Cecoslovacchia con la separazione della Slovacchia e della Boemia, con capitali a Bratislava e a Praga.
Infine, altri tre problemi. Due riguardano l'Italia, il più recente, leghista, e il più annoso, quello dell'Alto Adige o - come si dovrebbe dire più correttamente - del Sud Tirolo, con popolazioni prevalentemente tedescofone. E su questo ci soffermeremo fra poco. I1 terzo problema è quello bosniaco. Cioè: della "Republika Srpska" di Bosnia, Padania balcanica realizzata nel sangue da una cricca di criminali. I serbi di Bosnia avevano già conseguito, con le armi e con i lager, con le fucilazioni sommarie e con gli stupri di massa, il loro truce sogno separatistico. L'olocausto di Srebreniça è stato il simbolo di questo ennesimo incubo balcanico incentrato sui massacri e sulle deportazioni. L'intervento delle Nazioni Unite ha riportato una pace precaria e ristabilito il diritto dei musulmani in maggioranza a non essere esclusi dal governo della cosa pubblica. Di fatto, la Bosnia è una terra con un muro nel cuore, lacerata, pronta a riesplodere.
Questa, la situazione generale messa in schema da Maria Graczyk. Che riassume così: "Gli storici conservano l'ottimismo: - Fino a quando, nelle società democratiche, i meccanismi che consentono di smorzare le tensioni continueranno a svolgere la loro funzione di valvola di sicurezza, possiamo sperare che non scoppieranno conflitti più gravi -. Questo, il pronostico avanzato da Andrzej Sakson, docente dell'Istituto Zachodni di Poznan. Ma il processo di decomposizione dell'Europa è senz'altro cominciato".

Il caso Italia
L'influsso simbolico esercitato dall'esempio scozzese sulla Lega Lombarda è palese. Nell'immaginario padano il leggendario Braveheart ha quasi del tutto surrogato l'ipotetico Alberto da Giussano e messo in ombra anche le simpatie filo-catalane che erano emerse in precedenza. La forza leghista, che non va dileggiata (il Lombardo-Veneto dispone di un cospicuo pacchetto di voti leghisti), ma combattuta politicamente, è costituita essenzialmente dalla lezione appresa dal suo leader, Bossi, alla scuola di Hitler: la formidabile combinazione dei simboli con gli interessi. Come dice Enzo Bettiza: leggende celtiche più battaglie contro il modello 740, camicie verdi e il nibelungico dio Po più la difesa delle immense fortune imprenditoriali padane. Su dimensione apocalittica, la geniale intuizione di Hitler fu di unire al mito wagneriano del Walhalla i profitti della famiglia Krupp e gli interessi del mondo agricolo tedesco. Su scala ridotta, "il successo fortunoso quanto pericoloso di Bossi deriva in gran parte dal modello hitleriano".
Com'è potuto accadere che il Paese dei cento campanili - come lo ha sempre definito la retorica "comunale" - si sia incrinato fino a reclamare unilateralmente la rottura dell'unità? Oggi, ipotizza Gian Enrico Ruscono, il leghismo secessionista approfitta del vuoto prodotto dalla cultura storica e politica italiana (a sinistra, al centro, a destra) che da mezzo secolo non si preoccupa di collegare il tema della Nazione con quello della cittadinanza democratica. La Lega, per la verità, ha sempre solo finto di discutere. Il suo obiettivo è stato costantemente quello di come dividersi, non se dividersi. Il leghismo, per sostenere le sue posizioni separatiste, si serve dell'armamentario vetero-nazionale: usa ora l'argomento etnico-identitario (inventando un "popolo padano") ora quello strumentale-contrattuale ("trattare con Roma"), in maniera interscambiabile e opportunistica. "I1 risultato è che la fantomatica Padania è una caricatura in piccolo del vecchio Stato nazionale - addirittura una etnonazione".
Andiamo alle radici della questione. Per cominciare, dobbiamo raccontarci la nostra storia recente. Preso atto di come questo Stato unitario sia nato nel secolo scorso con un'operazione non esente da manipolazioni e ingiustizie, dopo aver denunciato tutte le funeste mitologie nazionalistiche, dopo aver constatato le contraddizioni da cui è sorta anche la Repubblica, resta un'infinità di elementi per scoprire che nonostante tutto (anche grazie ai processi di modernizzazione, di integrazione conflittuale e di omologazione culturale degli ultimi decenni) alla fine è venuto fuori un Paese che ha tutto da perdere se va a pezzi. Andrebbe in frantumi la sua struttura produttiva. Si spezzerebbe la sua stessa identità, che non è il risultato di arcaici residui identitari regionali, ma il frutto delle memorie concrete delle ultime generazioni che hanno fatto insieme cose molto importanti. Ma questa identità comune attende ancora di essere identificata e valorizzata: "Essa esiste a livello della subcultura popolare che sta fermando, insieme con l'energica reazione della Chiesa italiana, il separatismo. Latitante è invece la "grande cultura", per molte ragioni: fastidio per la volgarità del leghismo, snobismo antipopolare, scetticismo italo-cosmopolita. Ma c'è anche un vizio ideologico più profondo che impedisce di riflettere sul nesso tra costruzione della democrazia ed evoluzione di un'identità comune nazionale.
Il nesso tra democrazia come progetto universalistico e nazione come luogo storico-culturale, in cui quel progetto si materializza in modo specifico attraverso la sua cultura e la sua geografia".
Dunque, la nazione democratica è un vincolo di cittadinanza che trae forza dalla memoria riflessiva, ricostruttiva, di una storia vissuta insieme. Perciò di fronte alla sfida secessionista, che insieme alla nazione mette in pericolo l'idea di cittadinanza cresciuta con la democrazia, è molto più rilevante e decisivo discutere di questo, che non imbarcarsi in disquisizioni sui celti, sui gallo-romani o sull'influenza nefasta dello Stato della Chiesa. "Non è un caso che il secessionismo, per raggiungere il suo obiettivo di desolidarizzazione nazionale, punta a cancellare e a ritrattare le memorie più recenti, per rifugiarsi in un'improbabile mitologia celtica". E' sulla storia di questo secolo, invece, che va vinta la scommessa di riscoprire gli italiani. Per noi stessi, e non per far dispetto ai secessionisti.


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