Fino
ad oggi, l'Unione europea si è sviluppata sull'onda di una filosofia
di aggregazione abbastanza precisa, quella degli Stati-Nazione. L'intenzione,
che risale alle origini, era quella di dare ai Paesi europei una dimensione
politica continentale per metterli in condizione di affrontare i problemi
della globalità economica. Adesso c'è il rischio che si
debba rivedere, se non altro a livello istituzionale, questa filosofia
d'aggregazione. Tanto più che il fenomeno regionalista non si
limita a qualche caso, ma serpeggia un po' dovunque. In varia misura,
sia pure con spinte molto diverse, ne sono investite la Francia, l'Inghilterra,
la Germania, la Spagna, il Belgio, e naturalmente l'Italia.
Sicuramente, quello della Scozia è un caso a parte. Votando in
massa per un proprio Parlamento sovrano, gli scozzesi hanno parzialmente
riconquistato la Storia. Non hanno sciolto del tutto i legami con l'Inghilterra,
non hanno cioè rinunciato all'unione delle due corone che venne
definita nel lontano 1707. Ma hanno deciso di riappropriarsi dell'iniziativa
legislativa e in minima parte anche fiscale. Resteranno sempre sudditi
di Sua Maestà britannica, senza tuttavia dipendere interamente
dagli umori di Westminster. A Edimburgo e dintorni non c'è nostalgia
per Maria Stuarda, né c'è la smania per l'indipendenza
e non esiste neanche una particolare avversione per Londra. C'è
però l'orgoglio dell'appartenenza a una terra, a una tradizione,
a una cultura che l'unione con l'Inghilterra non ha mai cancellato.
Per questo le rivendicazioni scozzesi non hanno scandalizzato nessuno.
Altro caso a parte, quello della Catalogna, che, all'interno del Regno
spagnolo, ha saputo imporre una sua autonomia politica e amministrativa.
L'esperienza catalana è recente, non ha ancora vent'anni. Ma
finora ha dato buoni frutti grazie a un modello economico che si è
saputo integrare alle tradizioni locali. Un modello che si è
giovato della ricchezza e della laboriosità, oltre che dello
splendore dell'ambiente naturale, della regione. La validità
delle ragioni storiche scozzesi e catalane non ci sembra però
un patrimonio comune agli altri regionalismi europei.
L'arroganza della Baviera in Germania, il lento e convulso divorzio
fra la Vallonia e le Fiandre in Belgio, le velleità della Corsica
in Francia e dei Paesi Baschi in Spagna, il folclore irresponsabile
della Padania in Italia, sono tutti il risultato di malesseri nazionali
dove, per dirla esplicitamente, l'egoismo gareggia con la più
bassa demagogia. Ciò non toglie che il fenomeno regionalista
esista e meriti una risposta istituzionale dell'Unione europea.
La verità è che la mondializzazione ha frantumato quelle
frontiere politiche entro le quali si sono fortificati in Europa, attraverso
i secoli, gli Stati-Nazione. I1 trasferimento delle sovranità
economiche e monetarie europee all'Unione ha dato il colpo di grazia.
Ecco perché molti popoli si sentono attratti da strutture istituzionali
e decisionali più vicine. Per molti europei era già difficile
guardare alle proprie capitali. Ancora più difficile è
oggi guardare a Bruxelles, capitale di un progetto politico affascinante,
ma spesso incompreso e soprattutto lontano. Un progetto vitale per la
sopravvivenza dell'Europa, ma che avanza troppo lentamente. D'altra
parte, non si può pensare che il regionalismo europeo, proprio
perché disomogeneo, abbia bisogno solo di risposte locali, di
un po' di autonomia fiscale all'Italia del Nord-Est o di un vago riconoscimento
delle specificità corse in Francia. E' necessaria un'iniziativa
europea che tenga conto della situazione generale creatasi in questa
nostra fine secolo e millennio, prima che si rinnovi, ma capovolto,
il mito di Saturno: il quale, per sopravvivere, divorava i propri figli,
fino al giorno in cui venne spodestato dall'unico sopravvissuto, Giove.
Oggi, sono i figli (i regionalismi) a voler divorare il padre, cioè
lo Stato-Nazione. Come evitarlo? Con ogni probabilità, realizzando
un federalismo intergovernativo: un federalismo che superi gli Stati-Nazione
e si riferisca alle nuove ridotte centralità dei governi, i quali,
in futuro, saranno responsabili solo della difesa, della politica estera,
della giustizia.
Agonia dell'Europa?
Sul settimanale polacco Wprost, Maria Graczyk ha sostenuto che gli
europeo-occidentali hanno l'abitudine di credere che il morbo del
nazionalismo affligga esclusivamente i loro vicini dell'Est. "Tuttavia
il fenomeno si è fatto visibile in tutto il continente. Se
all'Est la fioritura di nazionalismi è stata consentita dalla
caduta del comunismo, nell'Europa occidentale essa è stata
favorita dalla crisi della società democratica".
Noi spieghiamo agli europei dell'Est che dovrebbero prendere esempio
da noi e risolvere i loro problemi interni, prima di entrare nell'Unione
europea. Ma come fanno, dove possono trovare modelli cui ispirarsi?
Così si interroga ironicamente, sulle colonne dell'International
Herald Tribune, il professor Jonathan Eyal, del Royal United Services
Institute di Londra.
La Graczyk analizza la situazione continentale, partendo da una domanda
volontariamente provocatoria: "Che cosa mai potrebbero rispondere
i funzionari di Bruxelles se un serbo chiedesse loro: - Come osate
immischiarvi nei problemi dei Balcani, quando da venticinque anni
è in corso una guerra proprio in seno all'Unione europea?-".
In Irlanda del Nord, l'esercito britannico ha tentato per un quarto
di secolo di pacificare gli estremisti cattolici e protestanti. La
minoranza cattolica si sente discriminata e in molti propugnano la
riunificazione dell'isola. Secondo le stime del Sunday Times, la Gran
Bretagna ha speso oltre 200 miliardi di dollari per finanziare questa
vera e propria guerra e per sovvenzionare l'economia locale. Ma fino
a poco fa il conflitto mieteva duecento vittime all'anno. Solo da
poco si sono intavolate trattative col Sinn Fein - il braccio politico
dell'Ira - per restituire una minima speranza di pace.
Rimasto nell'ombra a lungo, il separatismo scozzese non ha fatto notizia
in Europa e fuori. Ma un sondaggio effettuato pochissimi anni fa rivelava
che il 50% degli scozzesi desiderava la separazione immediata dal
Regno Unito, il 27% la voleva in un prossimo futuro e solo il 19%
non voleva alcun cambiamento. La soluzione autonomistica realizzata
consensualmente ha evitato il peggio. Ma in Europa sono rare le minoranze
che adottano atteggiamenti altrettanto pragmatici.
Un migliaio di morti sono il tragico bilancio della lotta armata condotta
dai terroristi dell'Eta basca per l'indipendenza. Altre decine di
morti hanno contrassegnato l'attività di Terra Lliure ("Terra
libera"), gruppo occulto catalano. Prosegue l'irredentismo basco,
mentre per quello catalano è una pagina chiusa. Sempre aperta
è, invece, la questione della Corsica, dove l'Flnc, il Fronte
di liberazione nazionale corso, compie centinaia di attentati, provocando
decine di morti, nonostante Parigi continui a promettere "una
certa autonomia" per un vago futuro. E minaccia di esplodere
anche il Belgio, Paese altamente simbolico dell'integrazione europea.
Nel febbraio 1992 due terzi dei deputati decisero di emendare il primo
capitolo della Costituzione del 1831, trasformando il Paese in una
"Federazione composta da comuni e regioni". Se in origine
dominavano le dispute di natura linguistica (il vallone o francese,
e il fiammingo, più vicino al tedesco con cospicui apporti
di vocaboli olandesi), il conflitto finì poi col cristallizzarsi
sui divari di sviluppo fra l'agricola Vallonia (un giorno locomotiva
dell'economia complessiva) e le industriali Fiandre, ora non più
esposte ai cicli di depressione economica. E fiamminghi sono gli attivisti
del Vlaams Blok, gruppo segreto che agisce in nome del separatismo,
da ottenere consensualmente, al modo di quello realizzato per l'ex
Cecoslovacchia con la separazione della Slovacchia e della Boemia,
con capitali a Bratislava e a Praga.
Infine, altri tre problemi. Due riguardano l'Italia, il più
recente, leghista, e il più annoso, quello dell'Alto Adige
o - come si dovrebbe dire più correttamente - del Sud Tirolo,
con popolazioni prevalentemente tedescofone. E su questo ci soffermeremo
fra poco. I1 terzo problema è quello bosniaco. Cioè:
della "Republika Srpska" di Bosnia, Padania balcanica realizzata
nel sangue da una cricca di criminali. I serbi di Bosnia avevano già
conseguito, con le armi e con i lager, con le fucilazioni sommarie
e con gli stupri di massa, il loro truce sogno separatistico. L'olocausto
di Srebreniça è stato il simbolo di questo ennesimo
incubo balcanico incentrato sui massacri e sulle deportazioni. L'intervento
delle Nazioni Unite ha riportato una pace precaria e ristabilito il
diritto dei musulmani in maggioranza a non essere esclusi dal governo
della cosa pubblica. Di fatto, la Bosnia è una terra con un
muro nel cuore, lacerata, pronta a riesplodere.
Questa, la situazione generale messa in schema da Maria Graczyk. Che
riassume così: "Gli storici conservano l'ottimismo: -
Fino a quando, nelle società democratiche, i meccanismi che
consentono di smorzare le tensioni continueranno a svolgere la loro
funzione di valvola di sicurezza, possiamo sperare che non scoppieranno
conflitti più gravi -. Questo, il pronostico avanzato da Andrzej
Sakson, docente dell'Istituto Zachodni di Poznan. Ma il processo di
decomposizione dell'Europa è senz'altro cominciato".
Il caso Italia
L'influsso simbolico esercitato dall'esempio scozzese sulla Lega Lombarda
è palese. Nell'immaginario padano il leggendario Braveheart
ha quasi del tutto surrogato l'ipotetico Alberto da Giussano e messo
in ombra anche le simpatie filo-catalane che erano emerse in precedenza.
La forza leghista, che non va dileggiata (il Lombardo-Veneto dispone
di un cospicuo pacchetto di voti leghisti), ma combattuta politicamente,
è costituita essenzialmente dalla lezione appresa dal suo leader,
Bossi, alla scuola di Hitler: la formidabile combinazione dei simboli
con gli interessi. Come dice Enzo Bettiza: leggende celtiche più
battaglie contro il modello 740, camicie verdi e il nibelungico dio
Po più la difesa delle immense fortune imprenditoriali padane.
Su dimensione apocalittica, la geniale intuizione di Hitler fu di
unire al mito wagneriano del Walhalla i profitti della famiglia Krupp
e gli interessi del mondo agricolo tedesco. Su scala ridotta, "il
successo fortunoso quanto pericoloso di Bossi deriva in gran parte
dal modello hitleriano".
Com'è potuto accadere che il Paese dei cento campanili - come
lo ha sempre definito la retorica "comunale" - si sia incrinato
fino a reclamare unilateralmente la rottura dell'unità? Oggi,
ipotizza Gian Enrico Ruscono, il leghismo secessionista approfitta
del vuoto prodotto dalla cultura storica e politica italiana (a sinistra,
al centro, a destra) che da mezzo secolo non si preoccupa di collegare
il tema della Nazione con quello della cittadinanza democratica. La
Lega, per la verità, ha sempre solo finto di discutere. Il
suo obiettivo è stato costantemente quello di come dividersi,
non se dividersi. Il leghismo, per sostenere le sue posizioni separatiste,
si serve dell'armamentario vetero-nazionale: usa ora l'argomento etnico-identitario
(inventando un "popolo padano") ora quello strumentale-contrattuale
("trattare con Roma"), in maniera interscambiabile e opportunistica.
"I1 risultato è che la fantomatica Padania è una
caricatura in piccolo del vecchio Stato nazionale - addirittura una
etnonazione".
Andiamo alle radici della questione. Per cominciare, dobbiamo raccontarci
la nostra storia recente. Preso atto di come questo Stato unitario
sia nato nel secolo scorso con un'operazione non esente da manipolazioni
e ingiustizie, dopo aver denunciato tutte le funeste mitologie nazionalistiche,
dopo aver constatato le contraddizioni da cui è sorta anche
la Repubblica, resta un'infinità di elementi per scoprire che
nonostante tutto (anche grazie ai processi di modernizzazione, di
integrazione conflittuale e di omologazione culturale degli ultimi
decenni) alla fine è venuto fuori un Paese che ha tutto da
perdere se va a pezzi. Andrebbe in frantumi la sua struttura produttiva.
Si spezzerebbe la sua stessa identità, che non è il
risultato di arcaici residui identitari regionali, ma il frutto delle
memorie concrete delle ultime generazioni che hanno fatto insieme
cose molto importanti. Ma questa identità comune attende ancora
di essere identificata e valorizzata: "Essa esiste a livello
della subcultura popolare che sta fermando, insieme con l'energica
reazione della Chiesa italiana, il separatismo. Latitante è
invece la "grande cultura", per molte ragioni: fastidio
per la volgarità del leghismo, snobismo antipopolare, scetticismo
italo-cosmopolita. Ma c'è anche un vizio ideologico più
profondo che impedisce di riflettere sul nesso tra costruzione della
democrazia ed evoluzione di un'identità comune nazionale.
Il nesso tra democrazia come progetto universalistico e nazione come
luogo storico-culturale, in cui quel progetto si materializza in modo
specifico attraverso la sua cultura e la sua geografia".
Dunque, la nazione democratica è un vincolo di cittadinanza
che trae forza dalla memoria riflessiva, ricostruttiva, di una storia
vissuta insieme. Perciò di fronte alla sfida secessionista,
che insieme alla nazione mette in pericolo l'idea di cittadinanza
cresciuta con la democrazia, è molto più rilevante e
decisivo discutere di questo, che non imbarcarsi in disquisizioni
sui celti, sui gallo-romani o sull'influenza nefasta dello Stato della
Chiesa. "Non è un caso che il secessionismo, per raggiungere
il suo obiettivo di desolidarizzazione nazionale, punta a cancellare
e a ritrattare le memorie più recenti, per rifugiarsi in un'improbabile
mitologia celtica". E' sulla storia di questo secolo, invece,
che va vinta la scommessa di riscoprire gli italiani. Per noi stessi,
e non per far dispetto ai secessionisti.
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