Da Maastricht al Sud




a. b.



A prima vista sembra un conflitto classico tra Nazioni, quello che si sta svolgendo sulla candidatura italiana alla Moneta Unica, con le diverse - e spesso contraddittorie - prese di posizione dei partners, delle organizzazioni comunitarie, delle società e dei gruppi di rilevazione statistica, degli osservatori mondiali, ecc. In realtà, la disputa ha, oggi, un'altra natura, molto meno scontata. E' un fatto d'arme più sottile: è il conflitto fra tecnici bancari e politici. E' la guerra tra Borsa e Trono. Lo scontro, che coinvolge la legittimità del sovrano politico, in questa fine di secolo europeo, attraversa obliquamente tutte le Nazioni, contrapponendo le élites finanziarie e bancarie a quelle politiche.
Il fatto d'arme è cominciato da tempo, ma è la prima volta che i sovrani assediati ribadiscono il principio: "Siamo in fase di mutazione, però siamo pur sempre i sovrani fondatori, in questa Europa da costruire". Alla maniera del Potere-Leviatano di Hobbes, non le Verità numeriche di Maastricht fanno la legge, bensì l'Autorità del Principe democraticamente eletto, che ha in mano il comando.
L'esito del conflitto è incerto, e a qualunque esito eventuale debbono prepararsi i politici europei, vista la sua portata: il conflitto fra tecnici (che non possono eludere i dati e le cifre stabiliti per legge) e i politici (che potrebbero far ricorso a operazioni di maquillage, a compromessi e a quant'altro) è tale, che tutti i sovrani dovranno mutare strategie, adattando il Trono alle sfide. Già adesso la Moneta Unica e le sue discipline esigono leadership politiche stabili, durature, capaci di correggere lo Stato sociale troppo costoso e di rifondare il consenso tra libero mercato e cittadinanza.
Col tempo, esigeranno condizioni sempre più ampie. E sarà così a Bonn, a Parigi, a Madrid, come a Roma. Perché non solo ci si potrà trovare di fronte ad esplosioni sociali gravi, scaturite dalle ferree regole di Maastricht, ma forse si dovranno affrontare anche crisi internazionali acute, nel Mediterraneo, in Europa orientale, in Russia e nell'Estremo Oriente. E nessuno potrà affrontare tutto questo, se non possiederà una speciale forza e una sicura durevolezza.
Ha ragione il finanziere George Soros, quando afferma che le discipline strette di Maastricht possono ferire irrimediabilmente la cultura e le società d'Europa, e invalidare la società aperta che l'Occidente presume di incarnare. E in questo senso, Maastricht sembra essere una questione di pace e guerra nel XXI secolo. L'esito (vincerà il più forte, perirà il più debole) sarà comunque un principio darwinistico applicato alla società e alle Nazioni. Se, dunque, Maastricht significa darwinismo, il suo avvento non sarà propizio. Sarà una costruzione perfetta e trasparente come la Metropolis di Fritz Lang.
In Metropolis non ci sarà spazio per la politica. Non ci sarà spazio per quest' "arte del possibile" capace di correggere il capitalismo quando questi pretende di essere scienza inconfutabile. Non ci sarà spazio per la salvezza d'Europa, che consiste nella scoperta delle proprie fallibilità.
Nell'economia globalizzata - che è la sfida cui l'Europa di Maastricht dovrebbe prepararsi - si misurano già nazioni più o meno forti, ma tutte radicalmente lacerate. Perché si cicatrizzino le lacerazioni occorre un'altra Europa, con un Parlamento che diventi Assemblea Costituente e con un Governo Europeo che affianchi la Banca Sovranazionale. Ma questi sono obiettivi ancora lontani.
Qual è, in questi scenari, il destino dell'Italia? Cominciamo col dire, come sostiene Innocenzo Cipolletta, che noi siamo un Paese ricco, e meglio ancora, siamo uno dei popoli più ricchi del mondo, ma con una mentalità da poveri. Ci comportiamo da poveri. Cioè: siccome siamo diventati ricchi da poco, abbiamo una maledetta paura della povertà e continuiamo a chiedere provvidenze e interventi che la nostra condizione attuale non giustifica del tutto.
Chiediamo di essere protetti contro la concorrenza che ci fanno i Paesi veramente poveri; chiediamo non tanto il lavoro, quanto il lavoro in un posto fisso; investiamo in Bot e in Cct, cioè in reddito sicuro, in virtù dell'antico detto: poco pane, poche pene, da gente che ha paura di rischiare, quando addirittura non teniamo il denaro in casa o nei libretti postali; domandiamo allo Stato provvidenze e tutele - previdenziali, sanitarie e assistenziali - invece di cercarle nel mercato, a minor costo sociale, e tagliate su misura; e, da veri ricchi, siamo così ossessionati dalla povertà da istituire commissioni governative che la studino in ogni suo aspetto. E chi fa tutto questo? Non i poveri autentici, che purtroppo esistono anche nel nostro ricco Paese (e non soltanto nel Sud), ma il ceto medio, l'amorfo ceto medio che si finanzia e si redistribuisce quell'enorme giro di denaro che qualcuno ha il coraggio di chiamare Welfare State.
Riassumendo: siamo ricchi e miglioriamo costantemente le nostre posizioni, ma con distribuzione ineguale del reddito, anche se da noi meno ineguale di quanto lo sia in alcuni Paesi anche più ricchi del nostro; tutti noi abbiamo scritto, parlato, manifestato in favore dei Paesi poveri che chiedevano "Trade, no aid", dunque il "trade" prima o poi potrà far male a imprese e a lavoratori dei settori meno competitivi; anche in altri Paesi ricchi ci sono poveri veri, che non muoiono proprio di fame, ma mancano delle risorse, culturali prima ancora che economiche, per sollevarsi dalla condizione in cui vivono; di conseguenza, c'è bisogno di assistenza, anche se in Italia le spese di assistenza sono poca cosa rispetto al mare della spesa "sociale", all'italiana, appunto, con l'enorme rigiro di risorse che i ceti medi, tramite la mediazione dello Stato, finanziano e si spartiscono, derubando i veri poveri e contribuendo a formare il disavanzo pubblico; è vero che si invoca lo Stato-Mamma, ma è vero anche che abbiamo il più alto numero in Europa di lavoratori autonomi, di micro-imprese e di gente che s'ingegna e rischia senza rete, come è vero che altrove, in tutta l'Europa continentale, l'Etat Providence si è sviluppato come da noi, e anche di più; così come è vero che anche lì i veri poveri sono tagliati fuori, la redistribuzione avviene all'interno del ceto medio in senso lato, ed è vero che lo Stato assistenziale nostrano è sicuramente peggiore del Welfare State altrui, com'è peggiore l'intero settore pubblico nostro rispetto al loro: e tuttavia è proibito toccare ai francesi o ai tedeschi le loro pensioni, o la sicurezza del posto del lavoro, al contrario di quanto pretendono "flessibilità", "mobilità" e altre strategie italiane di ristrutturazioni seguite agli anni di vacche grasse e ladre a piene mani.
La ri-costruzione dello stato di benessere è un grande romanzo europeo che ha corrisposto a una domanda di libertà, di intrapresa, di responsabilità individuale: la domanda di sicurezza. Cioè, la domanda di esser tutelati indipendentemente dal proprio reddito, in quanto cittadini, in vecchiaia, in caso di infortunio o di malattia o di perdita del lavoro. E' fuori discussione che in questo campo si sia fatto sentire l'italian style, con le degenerazioni, le inefficienze, le iniquità e i costi clientelari del Welfare. Ma una domanda di sicurezza e di protezione non ha nulla a che fare con la nostra vicenda storica di italiani, perché è universale. Si tratterà di trovare un equilibrio (nel settore pubblico, o privato-pubblico, o tra privati), ma di qui non si può sfuggire, se non si vuole far precipitare la nostra società nella botola mortale del principio di Darwin.
Chi ricorda il progetto dei meridionalisti tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta? Si proponeva, più o meno, di "agganciare l'Italia all'Europa, e il Sud all'Italia". C'era, allora, una forte spinta volitiva, e c'era un impegno politico e culturale che non era una leggenda metropolitana, ma l'elemento fondatore di uno sviluppo che, al di fuori della vecchia logica antagonista Italia-Europa o Nord-Sud, aggregasse valori, organizzazioni, impulsi in grado di realizzare nelle aree depresse un sistema industriale solido (quando le tute blu contavano ancora), arricchito da imprese nuove, attirate dalla caduta delle antiche, insuperabili barriere all'ingresso.
Non è stato così. L'economia darwinistica ha aperto i varchi europei a una parte d'Italia, geograficamente contigua e strutturalmente collegata al Vecchio Continente, e ha lasciato che si logorassero le fragili gomene che in qualche modo ancoravano il Sud alla penisola, e che oggi molti - o tanti - vorrebbero recidere. In realtà, così com'è, questo Sud non è Africa, perché ha un'economia e una qualità della vita diverse e ben più alte dei Paesi con espulsione demografica del bacino mediterraneo, e non è Europa, perché quell'economia e quella qualità della vita sono remote dai livelli di una Baviera, di un'Aquitania o di una Catalogna, come di un Veneto, di una Lombardia o persino di un'Umbria. Ha una società in faticosa mutazione e una cultura in diffidente subalternità. Cerca spinte interne che non sempre riesce a trovare, e che spesso trova fragili e disomogenee, perché fragilità e disomogeneità fanno parte dei suoi fattori ereditari storici. Non ha più forze critiche che prospettino un progetto complessivo, pur nella diversità di situazioni, di vocazioni, di linguaggi che pure, insieme, identificarono una civiltà profonda, creativa, illuminante.
Ci sono altri Sud nell'Europa dei Quindici, tutti tesi a superare la propria dimensione temporale, della macchina speciale del tempo che domina sempre la sfera del sottosviluppo. Non così per il Mezzogiorno, che certamente non è più quello delle figure emblematiche, dei grandi vecchi, degli spiriti eccelsi e solitari, crociani, che furono punto di riferimento costante e organico per le generazioni coeve; ma non è neanche quello delle sfide dell'elettronica e della telematica, non essendo transitato che di striscio nell'universo delle catene automatiche di produzione.
E' il Sud delle generazioni spezzate. Ed è il Sud in cui Borsa e Trono non confliggono, perché la Borsa non vi ha trovato un terreno favorevole di coltura, e il Trono si è immiserito nella ricerca del consenso. Doveva essere, questo Mezzogiorno, "un ponte sul Mediterraneo", proteso verso i Paesi che si affacciano su un mare in cui la storia si era soffermata per millenni. Oggi è una banchina alla quale attraccano i velieri malconci di popoli miserabili, scacciati dalla fame, dai fondamentalismi, dai genocidi.
Dice il Governatore Fazio, citando il libro più nero e veggente della Bibbia, l'Ecclesiaste: "Tutto ha sotto il cielo una sua ora e un tempo suo": il tempo di nascere e di morire, di amare e di odiare, di sorridere e di piangere. Fazio cita Salomone e pensa allo Stato sociale, perché anche qui vale la saggezza di Qohélet: anche qui "c'è un tempo per accrescere la spesa pubblica e uno per tagliarla". Dal punto di vista di Salomone, tutto è fame di vento e miseria, e tutto va in fumo: l'uomo e la sua avventura terrena non sono che vanità, perenne esperienza di ingiustizia, inutile sforzo.
E fa impressione sentire il massimo tecnico dell'economia e della finanza trasformarsi in fatalistico indagatore delle volubilità umane e rifugiarsi in metastoriche saggezze spirituali che danno conforto in tempi di diffuse dimissioni di élites e che sono la forma assunta attualmente dallo spleen dei politici, dalla malinconia democratica dei massimi responsabili delle Nazioni.
La stessa malinconia prende di fronte allo sfaldamento dello Stato sociale che è divenuto troppo costoso in Europa e troppo perverso e inegualitario nei modi in cui opera da noi, tanto da minacciare di lasciare senza protezione un numero crescente di cittadini, di giovani soprattutto, costretti a pagare con la disoccupazione o con contributi eccessivi i vantaggi acquisiti dagli iperprotetti del mondo adulto. Lo Stato sociale, in Europa e in Italia, rischia di essere travolto dai suoi stessi successi e dalle sue contraddizioni. Era sorto con Bismarck e con Napoleone III per neutralizzare le secessioni del socialismo e delle classi operaie. Dopo il 1945 fu esteso, perché l'Europa occidentale aveva appreso dalla guerra che l'individuo democratico tende a forme di tutela collettiva, e che si rifugia nelle utopie dei Nuovi Mondi se lasciato solo, esposto alle insicurezze economiche.
Verrà, naturalmente, (in larga misura è già avvenuto), il tempo in cui lo Stato sociale non sarà più difendibile. Ma che cosa accade, oggi? I politici continuano a parlare di "crisi", mentre siamo in piena "mutazione": nel lavoro, nei poteri dello Stato-Nazione che organizza il Welfare, nei rapporti tra classi sociali. E in quelli tra generazioni. In questa fase magmatica delicata e decisiva, i politici lasciano in prima linea i tecnici. Lasciano che siano l'Europa e Maastricht a imporre le mutazioni. Il Welfare sorse per saggezza dettata dal pessimismo: poiché l'individuo moderno non tende per natura alla solidarietà (l'antica carità) e la stessa socialità è merce rara, si tentò di metter su la catena tra generazioni che secondo Tocqueville era andata pericolosamente perduta dopo la Rivoluzione dell'individuo borghese.
E' stato scritto che quella pessimistica saggezza potrebbe essere utile ai politici, se vorranno governare individui che il Welfare ha emancipato, ma anche de-responsabilizzato. Non si tratta di distruggere lo Stato sociale, ma di mantenerne le promesse iniziali, scommettendo sull'individuo responsabile. Non si tratta di tranquillizzare chi poi finirà in una fatale imboscata, ma di dire la verità ai cittadini e al Sud, prima che si spezzi irrimediabilmente la catena tra generazioni, tra territori, tra uomini.


Verso l'Euro

Primavera 1998. I Quindici decideranno, sulla base dei dati certi del 1997, quali Paesi potranno aderire (e quali non saranno in grado) fin dall'inizio, cioè dal I' gennaio 1999, alla "fase 3" dell'Uem.

Metà 1998. L'Istituto monetario europeo (Ime), che sta svolgendo un ruolo decisivo nella preparazione tecnica dell'Uem, si scioglierà, per essere sostituito dalla Banca centrale europea (Bce).

1° gennaio 1999. Entra in vigore la terza fase dell'Uem, che prevede l'adozione dell'Euro da parte dei Paesi che si sono qualificati e l'entrata in funzione del sistema delle Banche centrali europee, formato dalla Bce e dagli Istituti di emissione dei singoli Paesi.

Inizio 1999-fine 2001. L'Euro esisterà come moneta per tutti i pagamenti i non in contanti.
Nei Paesi che lo adotteranno (gli "Ins") sarà obbligatoriamente la valuta in cui sono denominati i titoli di Stato; gli altri Paesi (gli "Outs") hanno la facoltà ma non l'obbligo di emettere titoli in Euro. Il sistema dei pagamenti dovrà essere pronto per effettuare qualsiasi operazione non in contanti sia nelle valute nazionali che in Euro. Nel 1999, inoltre, inizia la fase di produzione di miliardi di banconote in Euro, che richiede tempi tecnici di almeno due anni.

1° gennaio 2002. L'Euro entra nel portafoglio della gente, cioè diventa mezzo di pagamento anche per le operazioni in contanti. Per sei mesi, fino al 30 giugno 2002, saranno in circolazione sia le valute nazionali sia l'Euro. Dal l' luglio 2002 l'Euro sarà l'unico mezzo legale di pagamento. Entro quella data tutte le valute nazionali dovranno essere convertite in Euro.

Paesi in lista d'attesa. Sono undici i Paesi che hanno chiesto di entrare a far parte dell'Ue: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Romania, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia e Cipro.
Malta aveva firmato un trattato di adesione, ma dopo la vittoria elettorale dei laburisti ha "congelato" la propria domanda d'ingresso.


Banca Popolare Pugliese
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