Un futuro per il welfare




Egidio Sterpa



Fino a prima della Rivoluzione francese lo Stato (Res publica) era soltanto una formazione giuridica alla quale gli individui si sottoponevano nell'interesse generale, sulla base di un contratto sociale in verità non ben definito, quasi sempre imposto con la forza. A quel tipo di Stato i politologi hanno dato il nome di Stato protettore. Ad esso l'individuo offriva la propria sottomissione e la propria partecipazione in cambio di garanzie in materia di difesa e giustizia. Naturalmente non sempre questo patto veniva rispettato perché spesso, per non dire sempre, lo Stato era posseduto da oligarchie, che ignoravano il concetto di libertà o ne facevano comunque un uso assai improprio: i cittadini erano sudditi, la cui libertà era affidata alla discrezione del monarca.
Proprio come reazione a queste limitazioni delle libertà individuali e collettive nacque l'ideologia liberale, che si caratterizzò subito come dottrina combattiva: fu elaborata da coscienze illuminate nel XVIII secolo, pur essendo avvertita da tempo, quasi visceralmente, da chi era costretto a subire le limitazioni e anche i soprusi delle oligarchie. Il frutto di questa dottrina, che tendeva ad affermare libertà politiche ed economiche, furono la rivoluzione americana e quella francese. E' con queste due rivoluzioni, e soprattutto con quella francese, che lo Stato protettore comincia ad attribuirsi funzioni sociali, configurandosi come "cosa del popolo".
E' significativo un rapporto alla Conven-zione repubblicana francese nel 1794: "In una democrazia - diceva questo rapporto, di cui fu autore Barrere - tutto deve tendere ad elevare ogni cittadino al di sopra del bisogno primario: per mezzo del lavoro se è valido, per mezzo dell'educazione se è fanciullo, per mezzo dei sussidi se è invalido o vecchio". Nasceva così, ma solo concettualmente, lo Stato sociale.
Ogni Stato, nel mondo occidentale, continuò in realtà a rimanere nell'ambito delle attribuzioni che gli assegnava nel Settecento l'economista e filosofo scozzese Adam Smith: giustizia, polizia, fiscalità, difesa. Il concetto di socialità rimase fuori dell'ordinamento giuridico per quasi tutto l'Ottocento. Paradossalmente, fu Otto Bismarck, un grande statista passato alla storia per il suo autoritarismo, a dare vita ad un sistema di assicurazioni sociali obbligatorie per malattia, infortuni, pensioni di invalidità e vecchiaia. Se erano state le rivoluzioni americana e francese a definire concettualmente la funzione sociale dello Stato, fu il "Cancelliere di ferro" prussiano a realizzare il primo Stato sociale, le cui concrete origini storiche si collocano tra il 1883 e il 1889.
C'erano stati, è vero, dei precedenti in Gran Bretagna, dove già nel 1601, sotto il regno di Elisabetta, furono approvate alcune "leggi sui poveri" (Poor Laws), che fissavano alcuni interventi assistenziali su base parrocchiale. Queste leggi furono accompagnate da una "legge sul domicilio" che imponeva alle parrocchie di tenersi ciascuna i propri poveri, costringendoli a non cambiare domicilio. Un sistema fondato sulla carità, espressione di un filantropismo fortemente interessato, che diede vita a polemiche e tensioni tra l'aristocrazia che voleva salvaguardare l'ordine rurale tradizionale (da qui il compito assegnato alle parrocchie) e la nascente borghesia industriale che aveva bisogno di forza-lavoro mobile e perciò chiedeva l'abolizione delle costrizioni territoriali.
Di tutt'altro peso e respiro sociale fu senza dubbio l'innovazione bismarckiana. Una scuola di pensiero politico spiega la nuova fase dello Stato tedesco con motivi di tattica sociale e politica. Cioè: l'intervento dello Stato, secondo questa scuola, aveva lo scopo di preservare la pace sociale e di mantenere la forza lavoratrice nell'ambito degli interessi del capitalismo. E' una scuola di pensiero tutt'altro che scomparsa: Marx, com'è noto, descriveva lo Stato come l'apparato di dominio al servizio della borghesia e ancora oggi tra gli intellettuali di scuola marxiana c'è chi sostiene che scopo dello Stato sociale è in fin dei conti quello di alleggerire le difficoltà del capitalismo.
Certamente nelle intenzioni di Bismarck c'era l'obiettivo di assicurare la pace sociale, ma è altrettanto vero che quell'intervento dello Stato, anziché imbrigliare e neutralizzare il proletariato, creò le basi per lo sviluppo di una cultura politica, di cui, per esempio, in Germania fu espressione e animatore Ferdinand Lassalle, padre del socialismo tedesco. Fu poi il processo di industrializzazione, che ebbe uno sviluppo impetuoso tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, a dare respiro e forza al movimento socialista, che fu favorito dalla crescita di correnti intellettuali animose, alle quali si deve certamente la diffusione in Europa di una coscienza sociale nuova, foriera di grandi tensioni ma anche di grandi trasformazioni.
E' così che lo Stato liberale passa dal non intervento a forme di interventismo sociale ed economico. E' così, in sostanza, che comincia a prendere forma lo Stato sociale. E' con lo Stato liberale che la socialità comincia a concretizzarsi: nascono i partiti, nascono i sindacati, nascono istituzioni con scopi sociali, diventa attiva e determinante una cultura politica che fa da vettore del progresso sociale. In Italia va segnalato il ruolo incisivo di Giovanni Giolitti: non foss'altro che per il suffragio universale da lui voluto, Giolitti entra come figura di rilievo nella storia sociale italiana del Novecento.
La fase aurea dello Stato sociale si realizza nel mondo occidentale tra le due guerre mondiali e trova la sua più estesa teorizzazione nel compromesso keynesiano tra economia di mercato e intervento correttivo dello Stato. Questa concezione, sia pure indirettamente, ebbe la sua influenza in Italia persino durante il fascismo. Proprio col fascismo lo Stato italiano diede inizio all'interventismo in campo economico e sociale: nacque l'IRI, sorsero istituzioni come l'attuale Inps e l'Opera di assistenza maternità e infanzia, fu codificata la settimana lavorativa di 48 ore, e attraverso istituzioni politicizzate (l'Opera Balilla, il Dopolavoro) si praticarono molti interventi sociali. In sostanza i vent'anni di regime fascista vanno compresi anch'essi nella storia dello Stato sociale. D'altra parte, non va dimenticato che la formazione culturale del capo del fascismo era avvenuta all'interno del movimento socialista e che a lui si affiancarono molti sindacalisti. Il severo giudizio storico sul fascismo totalitario, che abolì le libertà politiche, deve obiettivamente lasciare posto ad una parentesi tutt'altro che negativa in materia di socialità.
In Italia lo Stato sociale si accentua con il ritorno alla democrazia, sotto la spinta della dottrina sociale cattolica, del riformismo socialista e del ruolo sempre più politico dei sindacati. Gradualmente e piuttosto velocemente lo Stato sociale assume il volto di Stato assistenziale: si passa in maniera piuttosto massiccia ad uno Stato redistributore di redditi, regolamentatore dei rapporti sociali, gestore di servizi collettivi e addirittura, dilatando le funzioni dell'Iri, imprenditore e finanziere, sì da rendere inevitabile l'istituzione del ministero delle Partecipazioni Statali. Siamo così ben lontani dallo Stato semplicemente protettore e ben oltre la stessa concezione iniziale di Stato sociale. In verità, quella che era stata una delle grandi realizzazioni del XX secolo comincia ad usurarsi con questa estensione. Ciò avviene non solo in Italia. Lo Stato finisce col diventare esso stesso una grave preoccupazione: si carica di responsabilità in tutti i settori ("dalla culla alla bara", come è stato detto), e dunque è costretto a praticare una politica fiscale che man mano diventa insopportabile.
Già nel 1926 Keynes, alfiere dell'interventismo in economia, in una lettera aperta al ministro francese delle Finanze scriveva che bisognava guardarsi dall'elevare le spese pubbliche ad un quarto del reddito nazionale. Sta di fatto che il ritmo di crescita della spesa pubblica legata alle politiche sociali, dovunque, ma soprattutto in Italia, è stato a volte molto più veloce di quello della produzione nazionale. Questo, perché i sistemi di welfare si sono irrigiditi in grandi e costosi apparati, che sempre più hanno costretto lo Stato a interventi cosiddetti redistributivi, naturalmente attraverso il prelievo fiscale.
E' la politica dell'intervento praticata in maniera indiscriminata, spesso irrazionale e man mano sempre più a fini di consenso politico, che fa entrare in crisi lo Stato sociale-assistenziale: si fa confusione tra assistenza e previdenza; si fa uso improprio delle pensioni di invalidità e del sistema pensionistico in genere (basti pensare, per esempio, alle pensioni-baby e a quelle erogate a categorie senza precedenti contributivi); si dà accesso universalistico alle prestazioni sanitarie (siamo stati il primo Paese dell'Europa continentale ad adottare il modello di servizio sanitario nazionale, senza tenere in alcun conto l'esperienza negativa fatta dagli inglesi); si fa abuso della cassa integrazione straordinaria, strumento certamente utile come ammortizzatore sociale, ma usato troppo estensivamente e spesso a fini politico-clientelari. Oggi i segni della crisi della sfera pubblico-collettiva sono sotto gli occhi di tutti. La cosiddetta economia keynesiana è fallita perché è andata ben oltre i limiti che lo stesso Keynes paventava.
La crisi dello Stato sociale si comincia ad avvertire in Occidente negli anni Settanta, quando lo sviluppo rallenta e si producono difficoltà economiche. E' in quegli anni che emerge una strategia neo-liberista di cui sono teorizzatori economisti e pensatori come Friedman, Buchanan, Hayek, Popper, Nozik. E' una strategia che punta ad una riduzione dello spazio occupato dallo Stato e alla rivalorizzazione della società civile: essa denuncia con chiarezza che il crescente carico fiscale e i sempre più pesanti oneri della sicurezza sociale finiscono col causare recessione economica, un cattivo funzionamento del mercato e un pericoloso disincentivo agli investimenti.
Fu proprio in quegli anni che in America ebbe successo una parabola dell'economista Arthur Okun: egli paragonò l'inefficienza a cui era giunto il welfare al caso di un secchio bucato, con il quale viene trasportata la ricchezza dal ricco al povero. Per strada (ossia: nell'opacità del meccanismo burocratico, nell'intermediazione partitico-clientelare, nei ricatti delle clientele attestate in settori nevralgici dell'intera collettività) parte di questa ricchezza si perde e il povero non riceve tutta la ricchezza prelevata.
Ecco una parabola che s'addice molto al caso italiano. Il nostro Stato sociale ha totalizzato molti punti negativi: non è riuscito a proteggere i più bisognosi, si è trasformato in struttura corporativa e clientelare, ha fatto crescere in maniera spropositata il debito pubblico e con l'eccesso di pressione fiscale ha prodotto un'ondata di protesta che oggi, stando a sondaggi demoscopici, raggiunge l'85% degli elettori (era del 73% nel 1986). Una notazione a parte merita il sistema pensionistico, che in Italia assorbe il 64% della spesa sociale (gli attuali pensionati sono 13 milioni), a fronte di un 21,5% assorbito dalla sanità e di un 14,5% dall'assistenza ai senza lavoro e alle famiglie bisognose.
Calcoli inoppugnabili dicono che nel 2030 il sistema pensionistico italiano darà fallimento. Vale a dire: chi andrà in pensione in quegli anni non potrà contare su alcun assegno di sopravvivenza.
Oggi gli ultrasessantenni sono il 16% della popolazione; nel 2030 saranno il 27%. A questo si aggiunga che oggi l'Italia ha un valore di natalità tra i più bassi del mondo. Il Paese invecchia e dunque fra circa trent'anni non ci sarà nel mondo del lavoro quella percentuale di giovani che con i loro contributi permettono la sopravvivenza del sistema previdenziale.
Risulta chiarissimo che la riforma delle pensioni non serve solo a risanare il bilancio dello Stato, ma soprattutto a creare le premesse di un sistema valido ad assicurare il futuro ai giovani. Allungata la vita lavorativa, bisognerà realizzare gradualmente la privatizzazione della previdenza, con la responsabilizzazione delle categorie interessate. In termini più chiari: i contributi previdenziali dovranno rimanere ovviamente obbligatori, perché se non lo fossero non mancherebbe chi vi si sottrarrebbe e perciò sarebbe inevitabile la formazione di preoccupanti zone di indigenza. Dovranno essere gli stessi lavoratori a decidere la quantità dei contributi da versare, commisurandoli alle loro aspettative per la pensione. Infine, sarà giusto e utile che i fondi pensione vengano gestiti dagli stessi interessati, cioè dalle diverse categorie.
Non è affatto una stranezza una simile soluzione: negli Stati Uniti, per esempio, viene praticata largamente e proficuamente. Qui i cittadini sono liberi di scegliersi i propri fondi pensione: si chiamano "Fondi pensioni individuali", (IRA, Individual Retirement Account) e sono ormai 35 milioni le famiglie americane che si sono assicurate per la vecchiaia, con 550 mila miliardi investiti. I fondi pensione sono un veicolo fondamentale del sistema industriale americano e garantiscono un livello alto di pensioni grazie al rendimento degli investimenti.
C'è una constatazione che sembra quasi incredibile: è stato il Cile di Pinochet a varare il miglior sistema previdenziale del mondo. La novità consiste in 18 fondi di pensione privati, dove ad ogni lavoratore è consentito di versare fino al 10% del proprio reddito lordo. In tal modo la percentuale di risparmio è salita dal 5,4% del Pil nel 1980 a oltre il 20% a metà degli anni '90. In tal modo il Cile ha sgravato il suo deficit del peso delle pensioni pubbliche.
La strada da seguire, per noi, è quella di un mix tra Stato e società, tra interesse generale e interesse dei privati, tra regolazione e autogestione. Emerge ormai sempre più la necessità e possibilità che ci si orienti verso una solidarietà di cui si faccia carico la società, con innovazioni solidaristiche e associative. E' matura la possibilità, che del resto i fatti mostrano come esigenza ineluttabile, di liberare il sociale dall'invadente tutela statalistica. Ed è crescente la volontà di una maggiore autonomia degli individui, i quali allo Stato chiedono di essere soprattutto Stato di diritto, cioè custode della democrazia e garante delle libertà, rinunciando a quell'eccesso di interventismo che spesso ne fa un distruttore delle libertà individuali.
In definitiva: lo Stato deve governare di più e gestire di meno. E la società, se vuole libertà e democrazia vere e godibili individualmente, deve responsabilmente fare la sua parte. Questo secolo, che è stato certamente il più denso di avvenimenti e trasformazioni nella storia dell'umanità, s'è aperto con l'istituzione del welfare, ma si chiude con un'esigenza storica ineludibile: la ristrutturazione del sistema di welfare fin qui attuato.


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