L'ARMATA TRADITA




Carlo Orsini, Mirko Rosati



Ammassati a milioni sui campi, espulsi dalla fame per settant'anni e gettati nelle fornaci delle braccia a buon mercato di tutto il mondo, e poi orfani della cosiddetta "prima Repubblica", dopo essere stati umiliati e in seguito purificati dal torbido lavacro della scandalosa Federconsorzi, gli agricoltori italiani si sono riaffacciati sul proscenio nell'unico modo ormai di sicuro effetto politico-mediatico: occupando le piazze e bloccando autostrade e ferrovie, portando le mucche per le vie delle città e le greggi nei lungofiumi, scandendo slogan e sventolando cartelli e bandiere. 160 mila trattori che, lasciate le rimesse, sono straripati nel Belpaese rappresentavano le ragioni di un pezzo di società e di economia nazionale trascurate, dimenticate, persino rimosse.
Avevano qualche scheletro nell'armadio, ma anche mille motivi per essere insoddisfatti, gli agricoltori italiani, i 500 mila della Coldiretti e gli altri. Assai meno ne avevano i Cobas del latte, che per non pagare multe miliardarie a lungo hanno lordato asfalti e binari, dopo aver lucrato gli aiuti pubblici con la truffa di inesistenti mucche affittate e dopo aver consapevolmente sfondato le quote di produzione.
Ma le intemperanze di questa "Gilda bovina" non erano un vero e proprio problema di politica economica, c'entravano poco con la "questione agricola" e col malessere che la giustifica.
Va dato atto alle istituzioni governative di aver giustamente fissato in agenda il risanamento e l'ingresso nella moneta unica come "priorità nazionali". Ma quanto alle politiche di sviluppo, alla benedetta "Fase 2" comunicata invano ormai per almeno quattro volte, al di là degli sconti e delle rottamazioni hanno saputo fare poco o nulla. Non si vede una politica industriale, non si vedono strategie di settore. Meno che mai le vede l'agricoltura: un milione e 200 mila imprenditori, più 600 mila dipendenti e 324 mila lavoratori dell'agro-alimentare, un Pil settoriale di 70 mila miliardi, più altri 250 mila con le attività dell'indotto. Un settore di grandi numeri, ma anche di enormi difficoltà: sofferenze per 8 mila miliardi, occupazione in caduta libera, un deficit commerciale di 12 mila miliardi. Per fronteggiarle, le categorie interessate richiedono un piano di sostegno per 20 mila miliardi, una spesa impensabile in tempi di battaglia sul 3% di rapporto deficit/Pil. Ma è legittimo chiedere di esprimere almeno un orientamento strategico, piuttosto che proposte dei soliti "patti" senza cifre e senza contenuti. Ma chi vuole ascoltare le ragioni contadine?
Se è vero che l'Italia "si germanizza" sul piano della finanza pubblica - come ha scritto Le Monde - è anche vero che "si sudamericanizza" su quello dei conflitti sociali. La vecchia mediazione politica si è sfarinata dopo i colpi d'ariete di Mani Pulite. I partiti non sono più (non tutti, almeno) cinghie di trasmissione della società civile. La quale, per avere ascolto nel Palazzo, per sperare in un posto a un vero "tavolo" col governo, ha ormai una sola arma, il ricatto incivile e spettacolarizzato: il cittadino - utente di servizi generali (trasporti, sanità, commerci) - preso in ostaggio per ottenere la tutela di interessi corporativi.
Il metodo della concertazione, abbastanza efficace nel '93, quando fu inventato da Ciampi, era nato proprio per colmare, direttamente con gli organi della rappresentanza sociale, (ma impropriamente sul piano politico, poiché bypassava un inerte Parlamento), il vuoto lasciato dalla politica. Ma da qualche tempo è un metodo che rischia più di una degenerazione. Se lo si erige a sacro totem intorno al quale esorcizzare i conflitti, si corre il pericolo di essere costretti ad applicarlo in tutti i campi. Perché, o concertano tutti o non concerta nessuno: se la concertazione vale solo per i sindacati confederali, o se all'esterno passa comunque questo messaggio, (com'è avvenuto per le pensioni o per la Finanziaria), il meccanismo si inceppa, crea fratture nella società, produce derive sudamericane. Un politologo si è, ed ha chiesto: chi ha detto che Cgil, CisI e Uil portino in sé più rappresentanza sociale di quanta ne abbia l'intero popolo delle partite Iva? Chi ha detto che gli agricoltori del Nord e del Sud, dimenticati da tutti, debbano avere meno diritti di interlocuzione degli operai protetti dalla "triplice"?
Non lo ha detto nessuno, ma è così. Per esistere, le categorie rimaste prive dei vecchi radicamenti partitici debbono alzare al massimo la voce, creare disagio diffuso, fare o apparire "opposizione". Ecco perché sono accorsi i "nuovi" politici, quasi nessuno escluso, a versare lacrime solidali e tardive davanti a un corteo veronese, dove un fuoristrada trasformato in carro funebre trasportava una bara con le "spoglie dell'agricoltura nazionale". Per farle resuscitare - tra una concertazione a senso unico e un ruolo di sana mediazione politica del Parlamento ancora tutto da ricostruire - ci vorrà chissà quanto tempo. E forse resusciterà solo il fantasma dell'agricoltura. Che poteva essere ben altro, e che è stata fatta diventare tutt'altro.
Quel che sta morendo non è il latte o la carne del Nord, gli ortofrutticoli o l'olio d'oliva del Sud, ma l'agricoltura italiana. Non si tratta di malattia, ma di agonia: l'agonia del mondo contadino. I sussulti padani per le quote sono una sorta di ultima battaglia, come la somministrazione dell'antibiotico: se non funziona, la morte è immediata. I campi agonizzano perché sono vecchi, perché sono abbandonati, perché non conviene salvarli. Muoiono perché erano tenuti in vita con la spina, e ora si vuole staccarla. Muoiono perché l'unico scontro rimasto in atto è lo scontro città-campagna, non più proletari-borghesi, operai-capitalisti, e neanche Oriente-Occidente: è tra produzione della terra e produzione delle macchine. E i denari vengono tutti dalle macchine.
Lo spopolamento dell'Est europeo, l'invasione degli albanesi, l'immigrazione clandestina dal Nordafrica, gli sbarchi persino di curdi, pakistani e afghani, mettono a disposizione dell'Italia e dell'Occidente un'umanità tre volte più miserabile, che non ha altro che i campi che lavora per sopravvivere, e ci dà vitelli, cavalli, maiali, uomini e cereali praticamente gratis. I nostri contadini fuggiranno altrove, nelle piccole imprese, nelle aziende in proprio, nei lavori artigianali, in polizia o nell'arma dei carabinieri. Popoleranno le periferie delle città e i servizi dell'agriturismo.
Ha scritto Ferdinando Camon che il mondo contadino è un organismo vecchio, complesso, tentacolare, che invadeva tutto, e che ora assiste alla morte della sua economia. Ma la religione della campagna era morta già un quarto di secolo fa; la famiglia contadina si era già frantumata quando i giovani ne sapevano più dei vecchi. A quel punto l'entrata della cultura nelle case ha cambiato direzione: prima veniva dal passato, adesso veniva dal futuro. In quello stesso momento moriva anche la morale contadina: lavorare, risparmiare, contentarsi di poco. Morale contadina e civiltà dei consumi non potevano che entrare in rotta di collisione: "Se tutti devono consumare, quelli che risparmiano sono a-sociali. E così è, in effetti. A chi guarda i contadini, oggi, per le strade, le autostrade, le ferrovie, o anche solo nei tg, par di vedere relitti di una storia morta, animali a-sociali, che devono socializzare, o, se no, è meglio che muoiano".
C'era nel Sud d'Italia una classe di proprietari del bene più antico e immortale, la terra. Scomparve, quella classe, per colpe proprie, perché pensò eterna la rendita, e perché non seppe, non poté o non volle trasformarsi in classe imprenditoriale quando comparvero le bonifiche del suolo, le irrigazioni, le elettrificazioni rurali, le strade interpoderali e la prima meccanizzazione. Vennero meno la capacità operativa e la capacità cooperativa, proprio quando era diminuita la pressione sulla terra, era stata varata la politica degli incentivi, si trasformavano in intensive le colture estensive che avevano dato un nome alla fame meridionale. Cominciò la fase critica del settore primario, che tramontò con i costi di conduzione, i tributi, i contributi e i balzelli che colpirono soprattutto le piccole imprese, i "fazzoletti di terra" che garantivano, più che la sopravvivenza, l'accanita sfida dell'uomo contro l'indigenza. Perciò continuarono lo spopolamento dei campi e la diserzione dello Stato. I proprietari diedero il via agli svellimenti. Milioni di ettari rimasero, e sono tuttora, incolti.
Calava il sipario sulle vicende dell'armata contadina meridionale.
Allo stesso modo, c'è nel Nord d'Italia un'agricoltura esercitata su una terra che una complessa rete fluviale rende pingue e che la meccanizzazione diffusa agevola. Un trattore costa un milione a cavallo, e un trattore di 130 cavalli costa 130 milioni che non è semplice ammortizzare. Su questa terra è nata la questione latte. Fu il ministro dell'Agricoltura Pandolfi a chiedere nell'83 un monte-quote inferiore del 40% al fabbisogno. Tanto, lasciò chiaramente intendere, sulle eccedenze nessuno metterà naso. Ignorava, il ministro, che, se ci sono delle regole, prima o poi si è chiamati a rispettarle. Da allora sono passati tre lustri, e l'errore è sempre lì. Ora è accaduto che molti hanno smesso di produrre latte, ma conservano il diritto, cioè i documenti con le quote. E li vendono dal notaio, o affittano i capi di bestiame. Chi continua a produrre latte, compra le quote o affitta i capi. Basterebbe poco per correggere tutto: dare le quote a chi realmente ha i capi. Ma Roma dice: non riusciamo a sapere quante vacche avete. Risposta degli allevatori: controllate i certificati di vaccinazione. Roma non controlla. Così un problema che si potrebbe risolvere in quindici minuti si trascina da quindici anni.
Nulla conviene più delle vacche. Soia, mais, grano, vino, frutta, ortaggi: tutto è aleatorio, tutto ha prezzi non sempre remunerativi. Le vacche danno un reddito costante, mese per mese. Una vacca produce latte per 300 giorni all'anno. Chi ha vacche vende genetica, cioè embrioni selezionati e torelli commissionati. Un mercante sceglie una mucca e un toro dai quali vuole un vitellino. E gli allevatori glielo preparano. La vacca non incontrerà mai il toro, tutto si combina con l'inseminazione artificiale, come del resto avviene con i maiali che poi finiscono in bistecche, prosciutti e mortadelle. Dunque, un'enorme ricchezza che coinvolge famiglie ed economie, come in Svizzera, in Francia, in Germania, in
Irlanda. Da noi, un ministero abolito per legge e risorto dalle sue stesse ceneri con altro nome, perché tutto rimanga com'era, non sa nemmeno contare le vacche. E figuriamoci se sa contare i figuri che hanno vissuto, e vorrebbero continuare a vivere producendo latte virtuale, con affitti legalizzati di vacche virtuali.
Un'idea nacque e tramontò nel giro di qualche anno, in questo nostro Paese che continua ad essere afflitto dal vizio di affondare le radici nell'egualitarismo e nel dirigismo, eterni nemici del merito e del decentramento dei poteri. Fu l'idea del "Progetto carne" che si sarebbe dovuto realizzare nelle regioni del Sud, a ridosso delle dorsali montane, dove fra Preappennini e Murge doveva esplodere il verde dei pascoli. Il Progetto doveva creare posti di lavoro specializzato, a sostenere l'economia meridionale, a limitare il deficit alimentare. Era un'ottima idea. Per questo colò a picco. E perché ledeva troppi interessi, e troppo grossi. Di allevatori e di importatori. Di commercianti e di distributori. Punto di domanda: ora che importiamo olio e vino e ortofrutta dall'Iberia e da mezza Africa, compresa quella del Sud, possiamo chiedere incentivi alla rottamazione di alberi d'olivo e di viti ad alberello?


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