Il romanzo della terra




Roberto Scaura



La vicenda del latte, che ha caratterizzato le cronache di fine '97, viene da lontano: lontano nel tempo e lontano nello spazio. Nel tempo, perché è figlia della politica che già in un saggio di A. Zeller, del 1970, venne chiamata L'imbroglio agricole du Marché Commun (in italiano nel titolo originale). Nello spazio, perché fin dalla costituzione della Comunità la politica agricola fu oggetto di lotte furibonde tra gli allora Sei membri e causa della tardiva adesione della Gran Bretagna. Se si aggiungono gli errori e le omissioni di casa nostra, c'è da meravigliarsi che la questione non sia esplosa prima; ma c'è anche da sperare che essa possa in qualche modo essere rivista e ricomposta in termini meno sfavorevoli per l'Italia, considerando che in questi circa quattro decenni in materia agricola l'Europa ne ha fatte di tutti i colori, e non dovrebbe quindi avere troppe remore a porre riparo al suo incredibile "imbroglio", che ha penalizzato in tutti i settori (allevamento, vino, olio, ortaggi e agrumi, e via dicendo) soprattutto il più mediterraneo dei Paesi europei.
Le divergenze che si manifestano in quella che nel frattempo è diventata l'Unione europea in materia monetaria sono una bazzecola rispetto a quanto accadde quando si trattò di mettere concretamente in piedi una politica agricola comune. Due, principalmente, erano le esigenze da soddisfare: garantire ai produttori agricoli, che all'inizio degli anni Sessanta erano ancora il gruppo più numeroso, un reddito paragonabile a quello degli addetti ad altri settori, in primo luogo l'industria; e poi garantire agli stessi produttori agricoli prezzi abbastanza remunerativi, tali da scoraggiare un abbandono troppo rapido delle terre coltivate, mettendo così a repentaglio l'autosufficienza alimentare del Vecchio continente.
La Gran Bretagna, sulla base della propria esperienza (che tuttavia era stata fatta in altra epoca e con tempi molto più diluiti), proponeva che si fissassero prezzi dei prodotti agricoli in linea con quelli mondiali, salvo concedere ai produttori europei delle sovvenzioni per compensare i loro assai più elevati costi di produzione. Era la soluzione dettata dal buon senso, ma urtava contro l'elevato numero di addetti al settore primario nei Sei Paesi e, probabilmente ancora di più, contro la filosofia dominante, secondo cui la solidarietà non si realizza spontaneamente attraverso il mercato e richiede dunque che l'economia sia regolata.
I fatti, in modo particolare in Italia, dovevano poi dimostrare che, per regolare sempre più in dettaglio l'economia, non servivano solo norme precise e vincoli particolareggiati, ma burocrati preparati, senza i quali il costo delle regolamentazioni diventava enorme e gli effetti diventavano controproducenti. Come, appunto, nella vicenda della produzione del latte. Ecco dunque la Comunità mettere in piedi una politica agricola comune che ancora ai nostri giorni assorbe, con il suo incredibile costo, non meno dei quattro quinti delle risorse comunitarie e riguarda tutti i prodotti agricoli, e non soltanto il latte. I prezzi sono calcolati in modo da impedire qualsiasi concorrenza da parte dei produttori extra-Cee, con buona pace dell'aiuto ai Paesi poveri del Terzo Mondo, che sono essenzialmente produttori di generi alimentari. In tal modo diventa però inevitabile che si creino crescenti eccedenze produttive che, se si può, si svendono con sovvenzioni varie, magari agli stessi Paesi agricoli extra-europei che le producono, oppure si denaturano (come il burro che serve a fabbricare mangimi), o addirittura si distruggono (come nel caso degli agrumi italiani). Per contenere i danni di questa sovrapproduzione, si sono stabilite quote di produzione che poi si sono ripartite tra i vari Stati membri e che questi hanno ripartito tra i propri produttori. Chi non rispettava le quote veniva multato.
Qui entrano in gioco le disfunzioni e le omissioni italiane, tanto per far ricorso a due palesi eufemismi. La prima in ordine di tempo è di aver sempre considerato Bruxelles, vale a dire la sede in cui questo complicato meccanismo si andava concertando giorno dopo giorno, non già un'occasione e una necessità di presenza attiva, bensì il luogo dove l'Italia ha sempre brillato per la sua assenza, mentre gli altri (francesi, olandesi, tedeschi in primo piano, per le questioni latte e allevamenti; spagnoli, francesi, greci e portoghesi per le cosiddette "colture mediterranee") avevano modo di spartirsi, tanto per stare in tema, la crema di questo gigantesco business.
Si diceva appena qualche anno fa che una grande multinazionale anglo-olandese, produttrice di margarina e quindi interessata alle vicende del latte e del burro, fosse il "settimo partner" della Comunità europea, tale e tanto era il suo peso proprio in quel di Bruxelles. In Italia sembra che nessuno sapesse esattamente chi produceva latte, e quanto. Pertanto, quando nel 1984 (parliamo di oltre tredici anni fa!) ci venne chiesto il dato della nostra produzione, noi ne fornimmo uno di gran lunga inferiore rispetto a quello reale, e di conseguenza ci venne assegnata una quota più bassa, che oggi porta gli allevatori ad essere in costante piede di guerra (parliamo di quelli onesti; i disonesti essendoci senza dubbio, e costando agli altri italiani somme considerevoli), e costringe l'Italia a un'importazione di latte pari al 40 per cento del nostro consumo. Tutt'altra musica sarebbe stata, se avessimo inviato a Bruxelles esperti e tecnici preparati, piuttosto che un milieu clientelare di uscieri, autisti e sfaccendati, da "piazzare" in cambio di voti. Servirà a qualcosa la lezione di fine '97?


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