Come eravamo




Giulio Pezzani



Sono stati dapprima Ciampi, poi Fazio, cioè i due ultimi Governatori di Bankitalia, a volere una serie di ricerche e di analisi sulle contraddizioni di un capitalismo anomalo qual è il nostro: molto dinamico nel settore delle piccole e delle medie aziende, ma blindato nell'asfittico club delle "grandi famiglie", governate dalla regia di Mediobanca. Un capitalismo, soprattutto, abbastanza povero di regole e di trasparenza. E' nata da tutto questo l'indagine dal titolo "Struttura di gruppo, concentrazione della proprietà e modelli di controllo nelle imprese italiane medio-grandi", oggi integrata con le conclusioni della "Storia del capitalismo".
Questa complessa indagine presenta due punti centrali. Nella parte iniziale offre l'interpretazione del modello di sviluppo avviato nell'immediato dopoguerra: una specie di "peccato originale" del capitalismo italiano. Successivamente, analizza l'attuale debolezza del "controllo tripolare" delle grandi aziende, avvolte in una nube che rende piuttosto oscura e incerta la loro gestione.
Nel ciclo 1948-1958 si realizza quello che viene definito "il compromesso straordinario". Il Paese industriale cresce grazie alla combinazione di quattro fattori: liberismo internazionale, intervento dello Stato attraverso gli enti pubblici anche con la regolazione dei mercati e con la programmazione, politica di esenzioni e di sussidii a speciali gruppi sociali, e contenimento dei salari. Ed è quest'ultima circostanza a risolvere la debolezza congenita di un "capitalismo povero di capitali". Le aziende, infatti, riescono a crescere con investimenti alimentati fino a una quota del 60 per cento della spesa con l'autofinanziamento. Mentre tra il 1951 e il 1962 le retribuzioni reali aumentano solo del 2,8 per cento, rispetto al 3,1 per cento degli Stati Uniti, al 4,7 per cento della Francia e al 6,3 per cento dell'allora Germania Federale.
Nel ciclo successivo il quadro si rovescia. Da un punto di vista internazionale, dopo la crisi valutaria del 1973 la lira perde più dei due terzi del proprio valore rispetto agli altri Paesi industrializzati. Gli enti pubblici finiscono nel vortice del "controllo politico", con un ruolo ossessivo di mediazione svolto dai partiti. I "sussidii compensativi", alle imprese e ai gruppi sociali, portano a un debito pubblico che sale dal 33 per cento del prodotto interno lordo del 1962 al 122 per cento con il quale abbiamo rischiato l'esclusione dall'integrazione europea. Si esaurisce il vantaggio dei salari bassi, visto che le retribuzioni aumentano con valori superiori rispetto agli altri Paesi industriali. Si sviluppa in questo modo il "neocapitalismo pubblico".
Nello stesso periodo, i grandi gruppi, col sofisticato sistema delle "scatole cinesi", cioè il controllo a catena delle aziende, riescono a conseguire due risultati: il comando assoluto delle società, con una quota minima di impegni patrimoniali. Proprio la Banca d'Italia ha dimostrato che, su un campione di 1.500 imprese, le famiglie dei capitalisti italiani controllano otto lire di capitale, avendo investito in proprio soltanto una lira.
Ma anche questo meccanismo oggi è entrato in crisi, in conseguenza di un "cambiamento profondo di assetto istituzionale nel governo delle società e nel sistema finanziario". E il capitalismo italiano si ritrova intrappolato in un precario "assetto di controllo tripolare, costruito sulla famiglia fondatrice, sul management e su società bancarie e di assicurazione". "L'elevata capacità di interdizione di ognuna delle parti", si sostiene nello studio di Bankitalia, "fa sì che il controllo non sia esercitato con pienezza da nessuna di esse; quale di esse, pur non pienamente, lo eserciti dipende poi dai casi e dalle circostanze". In parole semplici: nell'attuale fase di transizione si è persa l'unità di comando dei grandi gruppi, i quali rischiano di diventare prigionieri di una strisciante guerriglia tra i diversi "capitani aziendali".
La via d'uscita è il definitivo arretramento dello Stato dagli enti pubblici (vale a dire con autentiche privatizzazioni), con l'introduzione di un sistema condiviso di regole e con l'apertura dei mercati ai nuovi soggetti istituzionali. I fondi pensione e le società di investimento, per esempio, detengono una quota superiore a un terzo della proprietà diretta delle aziende in Gran Bretagna (35 per cento) e negli Stati Uniti (41 per cento). In Italia, viceversa, le istituzioni finanziarie non raggiungono l'11 per cento della proprietà. E, come hanno dimostrato recenti vicende, compresa quella della difficoltosa ricerca di azionisti privati per il "nucleo duro" della nuova Telecom, le medie imprese, cresciute nello sfavillante contesto dei distretti industriali, non possiedono né le risorse finanziarie né le linee strategiche per assumere un ruolo nei grandi settori del mercato globale.
Che cosa rischiamo, in queste condizioni? Più che il pericolo di ridurre l'Italia a un Paese colonizzato, la ricerca di Bankitalia intravede la concreta possibilità di perdere un appuntamento con la storia: "Nel Duemila", sostiene l'indagine, "se persisteranno le tendenze in atto, l'Italia avrà accumulato, con riferimento agli anni Ottanta, circa cinque punti di ritardo nella crescita del reddito pro capite rispetto alla media degli altri Paesi industriali". Ciò significherà, realisticamente, che il Nord d'Italia sarà meno ricco, il Centro più povero e il Sud ancora più disastrato.


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