La rivoluzione che non paga




Luca De Caro



Le polemiche sulla riduzione dell'orario di lavoro richiesta in Francia e in Italia, e da attuarsi per legge, anche se progressivamente e con spazio aperto per le trattative dirette fra sindacati e imprenditori, hanno dato luogo alle ipotesi più disparate.
E' stato detto che l'adozione delle 35 ore non creerà nuovi impieghi, e che anzi potrebbe persino sopprimerne; che ogni riduzione applicata uniformemente, senza tener conto delle condizioni di salute delle singole imprese potrebbe provocare un aumento abnorme nella quantità di ore di straordinario, un incremento non sopportabile del costo del lavoro - calcolato al 10 per cento circa - e dunque una perdita di competitività molto importante per numerose aziende piccole e medie che stentano a sopravvivere e che si sforzano di non licenziare. Le obiezioni non sono venute solo da parti politiche e da gruppi industriali, ma anche da parte di esponenti sindacali, abituati a negoziare autonomamente forme di autodisciplina salariale e di flessibilità degli stessi orari.
Chi ha indicato la Francia come esempio da seguire, ha evitato di elucidare alcuni aspetti di questo Paese che oscilla morbosamente tra tumulti rivoluzionari e interventi statalisti, che ignora ogni tradizione negoziale, che è costretta ad agire tramite leggi per debolezza congenita. In Francia i sindacati hanno perduto nell'ultimo ventennio i due terzi degli aderenti, e oggi non rappresentano che il 5% degli attivi, nell'industria privata. Mentre l'Italia è tra le prime in Europa, dopo la Svezia, col 40% di sindacalizzazione nel privato. Noi, dunque, non intendiamo imitare un'avanguardia, ma una nazione piena, sì, di volontà di cambiamento, ma prigioniera di malattie gravi, che fanno soffrire il suo Stato, i suoi sindacati, i suoi stessi gruppi industriali.
Ovviamente, non è solo la Francia a soffrire, in questi tempi difficili. Soffrono le varie élites in Europa, comprese l'Inghilterra con i suoi tassi esemplari di disoccupazione e i suoi salari spesso al ribasso, e la Germania con i suoi problemi post-unificazione: e tutte faticano a guardare in faccia quel che sta capitando alle proprie economie e alle proprie società. Tutte faticano a dire quel che i cittadini con molta probabilità già sanno: e cioè che non è semplice crisi quella che stiamo attraversando, ma è trasformazione radicale dei nostri modi di lavorare, di organizzare le esistenze e le preparazioni scolastiche, di pensare il presente, di preparare il futuro. Che non siamo di fronte ad una parentesi che presto si chiuderà, non appena ritornerà un po' di crescita, ma che l'Occidente intero traversa un'autentica rivoluzione, non meno profonda e dolorosa di quella che accompagnò il passaggio dall'economia agricola all'economia industriale, nel Settecento.
La rivoluzione riguarda soprattutto il lavoro, che si restringe in maniera sempre più veloce, quali che siano le misure escogitate per frenarne o dissimularne il declino. Sta restringendosi da un secolo, ma oggi la contrazione è drastica: lo sanno i disoccupati, i milioni di precari, i giovani che non possono più condividere le sicurezze dei padri. Lo sanno gli individui e le famiglie che già da due generazioni hanno perso ogni contatto con il mondo del lavoro. D'altra parte, alcuni politici lo dicono, anche se in modo oscuro, mai davvero pedagogico, che la riduzione degli orari non è proprio una terapia, ma piuttosto un sintomo delle difficoltà che angustiano le industrie europee minacciate dall'irruzione sui mercati dei nuovi attori asiatici. La riduzione serve ad accompagnare un fenomeno che avverrebbe comunque, e ad attenuare in minima parte le sofferenze che esso provoca. In alcuni casi la misura frena marginalmente i licenziamenti - quando i lavoratori accettano riduzioni dei salari come nella Volkswagen, quando le singole imprese non traversano difficoltà troppo grandi - ma la tendenza declinante permane.
Nelle medie e grandi industrie europee si produce sempre più ricchezza, con sempre meno addetti: questa è la verità della rivoluzione. Rivoluzione alimentata dall'introduzione delle macchine, oltre che dalla competizione mondiale. Rivoluzione non diversa da quella avvenuta nell'agricoltura, quando si scoprì che un solo contadino poteva coltivare con le macchine immense distese di terra. Lo stesso accade nell'industria con l'automazione. Un recente studio pubblicato da Lothar Späth, ex ministro del Baden Württhemberg, sostiene che "se i robot di cui già oggi disponiamo fossero utilizzati, la Germania perderebbe 9 milioni di impieghi, e la disoccupazione salirebbe al 38%". Così negli Stati Uniti: combinando informatica e robotizzazione, è stato calcolato che si potrebbero sopprimere 25 milioni di impieghi. La riduzione degli orari lavorativi potrebbe addirittura rafforzare tale declino, accentuando la sostituzione dell'uomo con le macchine e il trasferimento delle produzioni in Paesi con costi di lavoro bassi. In ogni caso, è una misura che ripartisce la penuria, e non ambisce a creare nuove ricchezze generatrici di impiego. Serve a sovvenzionare medie e grandi industrie che declinano comunque, allo stesso modo in cui si sovvenzionano pubblicamente l'agricoltura o il settore dell'auto. Le nuove industrie che alimentano la ripresa occupazionale americana - informazione e computer, stile Silicon Valley - hanno tempi di lavoro già sregolati, autogestiti, e non sanno che farsene delle riduzioni degli orari.
E' questa rivoluzione che i politici stentano a spiegare, ad affrontare. E' la fine o la trasformazione del lavoro classico che occultano: del lavoro che riempiva un'intera esistenza, che occupava tempi fissi, che dava un senso continuativo alla vita dell'uomo, che lo strutturava e lo integrava nella società. Quella che sembrava un'utopia marxista - la liberazione dell'uomo dalla necessità della pena, l'accesso alla libertà assoluta - si sta realizzando, ma sotto forma di angoscia, di incubo. Si prospetta vicina la previsione di Hannah Arendt: "Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente, non potrebbe esserci di peggio", (in La condizione umana, Chicago, 1958).
Questa è la realtà che hanno di fronte i governi d'Europa, e tutti sono relativamente impreparati. Sono impreparati persino i più intraprendenti, che imboccano la strada della flessibilità del lavoro. I1 modello inglese imita l'americano, ma non è in grado di creare le Silicon Valley e secerne impieghi spesso effimeri, di bassa qualità. Persino l'Olanda zoppica: lungamente sopravvalutato, il modello di concertazione olandese ha esteso il lavoro part-time, ma ha manipolato le cifre. I1 15% della popolazione attiva è in pensione di invalidità permanente, e non entra nelle statistiche dell'impiego: se i falsi invalidi venissero conteggiati, la disoccupazione sarebbe non del 7,4%, ma del 20-23%.
E' significativo che alcune forze politiche abbiano particolari difficoltà di pensiero nel fronteggiare l'odierna rivoluzione del lavoro. Ma la contraddizione è nello stesso Marx, che esaltava il valore del lavoro nella vita dell'uomo e al tempo stesso prometteva di abolirlo, così come prometteva di abolire lo Stato e le diverse strutture razionalizzatrici della società. Le tradizioni ebraico-cristiane spingevano i marxisti a esaltare il lavoro, ma anche a considerarlo una maledizione, inflitta ad Adamo ed Eva dopo la cacciata dal Paradiso terrestre. Ora gli uomini hanno in mano quel Paradiso del tempo liberato, e per loro è una dannazione, una vertiginosa fonte di angoscia. Sono ridiventati gli "inutili per il mondo", come si diceva nel Medio Evo, gli esclusi, i vagabondi che percorrevano l'Europa fra il '300 e il '500, prima che le "classi pericolose" venissero inquadrate nella società salariale alla fine del '700. E anche se non conoscono la fame, soffrono più acutamente degli "inutili", perché sono figli dell'epoca individualistica e hanno l'ambizione di lasciare su questa terra una traccia individuale.
Dicono molti economisti che questa è la nuova legge spontanea dell'economia capitalista: legge che occorre restaurare, e che in Europa deve liberarsi del peso eccessivo dello Stato. Il che è giusto, ma solo in parte. In ogni rivoluzione, la politica ha molto da dire, e altrettanto da fare. Può influenzare gli sviluppi in un senso, o in un altro. Può facilitare le nuove attività flessibili che stanno nascendo, oppure sovvenzionare all'infinito le industrie classiche, e lasciare che su di esse pesi il compito di riassorbire la disoccupazione, e scommettere infine sull'autarchia, come sognano coloro che si ispirano a ideologie crollate su se stesse. Può capire la rivoluzione, oppure può rivoluzionariamente ignorarla, e preparare l'avvenire vivendo solo nel passato. L'agricoltura non occupa che il 5-6% degli attivi, e l'industria conoscerà un destino simile.
Secondo Jean-Claude Paye, ex segretario generale dell'Ocse, l'industria impiegherà negli anni a venire il 2% della popolazione attiva, e l'agricoltura solo l'1%. Sarà necessario trovare un equilibrio tra questi dolorosi sviluppi spontanei dell'economia e gli interventi pubblici. Sarà necessario mobilitare le intelligenze - e riscoprire che nella storia esiste anche l'irrazionale - a meno di non volere una società di bombe umane in preda alla noia e all'angoscia: bombe pronte a decapitare i suoi re, non appena le rivoluzioni ridiventeranno immaginabili.


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