Né carrozzoni né treni della speranza




Mabel



"E forse è anche un po' troppo rozzo nei modi, non ti pare Tom?".
"-Eh, che vuoi, è un meridionale -, disse il console soffiando il fumo nella stanza".
Notando che il personaggio meridionale di cui si parla proviene da Monaco di Baviera, "che è più a nord di Palermo ma anche di Milano", Luigi Campiglio, docente di Politica Economica alla Cattolica milanese, apre con questa citazione dai Buddenbrook di Thomas Mann il suo ultimo lavoro, Il costo di vivere, Nord e Sud a confronto, edito dal Mulino. Un saggio dedicato al divario economico fra Settentrione e Meridione, visto attraverso il segnale del diverso potere d'acquisto. Un saggio destinato a far discutere. Perché - si chiede Campiglio - i giovani disoccupati del Sud si dichiarano disposti ad accettare salari ridotti pur di lavorare vicino casa e non hanno alcuna intenzione di accettare le offerte delle imprese settentrionali, che preferirebbero assumere lavoratori provenienti dal Mezzogiorno, piuttosto che immigrati dall'Est europeo? La risposta è che sì, i giovani meridionali hanno voglia di lavorare e che, se fosse conveniente, si sposterebbero al Nord, come hanno fatto i loro padri nel dopoguerra. Il fatto è che oggi questa scelta non paga più.
"Per mantenere a Milano il medesimo tenore di vita alimentare di Palermo - scrive Campiglio - un lavoratore che si spostasse a Milano dovrebbe spendere il 37% in più". Un salto che risulta solo di poco più impegnativo, il 34%, se si guarda al totale delle spese, casa in affitto compresa. Insomma, se negli anni Cinquanta "il lavoratore agricolo che da Bari emigrava a Torino per cercare un lavoro alla Fiat aveva la ragionevole aspettativa di moltiplicare almeno per quattro il suo reddito permanente" (più o meno come succede ora al lavoratore filippino o marocchino che viene in Italia), oggi la situazione è capovolta: "Con lo spostamento dal Sud al Nord un operaio vedrebbe diminuire il suo salario reale".
Affermare che vivere al Nord costa molto più che al Sud non sembra, di primo acchito, una grande novità. Eppure, il saggio di Campiglio, basato su un lavoro di grandissima pazienza su dati riferiti a dodici città e raccolti fra mille difficoltà e ostacoli frapposti soprattutto da parte dell'Istat, è la prima analisi che conferma e quantifica questo differenziale. Giungendo, peraltro, a conclusioni tutt'altro che scontate (ad esempio, che un'altra faccia dell'alto costo della vita nelle città del Nord è rappresentata da una povertà diffusa e poco conosciuta).
Nessun dubbio - altro esempio - sulla necessità di puntare con decisione sull'unificazione effettiva del Paese: "Quale milanese potrebbe preferire la condizione di appendice economica della Baviera a quella di cittadino di una grande potenza economica?". Ma nessuna esitazione sull'inutilità, al fine di stimolare gli investimenti al Sud, del ritorno stabilito per legge alle "gabbie salariali". Grazie ai ridotti oneri sociali che determinano un costo del lavoro per il settore privato già oggi pari al differenziale del potere di acquisto, le "gabbie" esistono già. Molto più importante, invece, operare per attenuare il principale vincolo alla mobilità, cioè la disponibilità di alloggi, ad esempio facilitando i mutui per l'acquisto della prima casa.
"Il cuore dell'economia deve essere spinto dall'iniziativa privata e dalla concorrenza e non certo dal pubblico impiego. La condizione centrale per una reale concorrenza è rappresentata dalla possibilità di confrontare la qualità e i prezzi di ciascun bene e dal potere scegliere quello più conveniente".


Si torna a parlare dell'Iri, della sua sopravvivenza dopo che saranno privatizzate le industrie di Stato, ovvero della sua improbabile resurrezione quale agenzia di sviluppo per il Sud e delle altre aree depresse del Paese. C'è chi candida l'Iri alla gestione di attività di job creation nel Mezzogiorno. E c'è chi vede l'antica holding delle Partecipazioni Statali una volta come futura società di progettazione delle infrastrutture necessarie al Sud, un'altra volta come intermediario tra gli enti locali meridionali e Bruxelles per la gestione dei fondi strutturali destinati alle regioni dall'Obiettivo Uno, un'altra volta ancora quale controllore delle società pubbliche di promozione imprenditoriale.
Da tutto questo polverone, non del tutto disinteressato, rimangono estranei due interrogativi: se l'Iri abbia al proprio interno competenze professionali, esperienze e cultura aziendale sufficienti a svolgere l'uno o l'altro dei compiti che gli si vogliono assegnare; se nelle attuali condizioni il Sud abbia proprio bisogno di un nuovo Iri, cioè di un ente che da Roma si ingegni a creare occupazione, a progettare opere pubbliche, a governare i fondi comunitari, a promuovere nuove iniziative imprenditoriali.
Al primo interrogativo è arduo dare una risposta positiva, dal momento che l'Iri è dotato di personale che finora ha svolto compiti di supervisione e di coordinamento finanziario delle aziende di Stato con risultati che, eufemisticamente, si possono definire non sempre brillanti, nonché compiti di rappresentanza delle stesse aziende, specialmente dopo la soppressione del ministero delle Partecipazioni Statali.
La creazione di nuove opportunità di lavoro per i disoccupati meridionali è invece una missione del tutto eterogenea rispetto a quelle competenze: richiede un monitoraggio continuo del mercato del lavoro, la capacità di identificare i profili professionali che servono alle imprese, e le attitudini di coloro che sono alla ricerca attiva di un'occupazione. Richiederebbe anche di trasmettere informazioni utili alle istituzioni formative per realizzare sia un adeguato orientamento professionale dei giovani sia un'efficace azione di riqualificazione dei meno giovani. E' dubbio che l'Iri sia in grado di fare tutto questo, a meno che non lo si voglia trasformare in una grande area di parcheggio dei disoccupati del Sud, in un finto falansterio che recluti quanti nelle regioni meridionali si dicono disposti a lavorare, corrispondendo loro per anni un sussidio pubblico, in attesa che maturino il diritto alla pensione.
La progettazione delle infrastrutture necessarie al territorio meridionale richiederebbe a sua volta che l'Iri invadesse le competenze delle Regioni, delle Province e dei Comuni del Sud, ciò che in tempi di decentramento dei poteri e responsabilità agli enti locali sarebbe un'ardita operazione controcorrente. Lo stesso discorso vale per l'intermediazione dei fondi strutturali comunitari: è vero che le Regioni meridionali (con qualche eccezione) utilizzano poco questi fondi, ma non è vero che ogni minaccia di accentrare a Roma i rapporti con l'Ue fa gridare alla lesa autonomia tutte le giunte regionali del Sud. Meno improbabile sarebbe - sulla carta - l'idea che l'Iri controlli le società pubbliche di promozione imprenditoriale. Ma a che servirebbe questo controllo, quando ognuna di queste società, dalla Spi alla Gepi e alla Ig (Imprenditoria-lità giovanile) si è ritagliato un proprio spazio specifico di intervento? Non sarebbe preferibile, in caso di sovrapposizione dei loro compiti, che tra queste società si sviluppasse una forma di competizione fino alla scomparsa delle meno efficienti e alla fusione di quelle più funzionanti?
Questo presunto rilancio del vecchio Iri appare un oggetto misterioso, comunque poco utile, o, al più, utile per venire incontro alle aspirazioni dei suoi dirigenti a perdurare. Resta da chiedersi perché alcuni patrocinino questa causa che si presenta con l'insegna della conservazione: conservare un ente soltanto perché c'è, e dopo che la storia del Paese ha dimostrato che è irrevocabilmente in corso di estinzione, è un non-senso. Lo è anche perché è una megastruttura di pianificazione, nei giorni di decentramento e di libertà economica. E lo è soprattutto perché alimenta aspettative con sicure disillusioni per i giovani disoccupati meridionali che vanno indirizzati all'iniziativa individuale, non più all'impiego pubblico, e meno che mai all'ombrello assistenziale.


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