Italia di profilo




Franco Bonati, Vanni Plateroti



Perché si parla tanto di Nord-Est? Perché il Nord-Est ha paura di perdere parte del benessere che si è conquistato sul campo. Teme un ciclo recessivo, che è previsto in economia, e che dipende da fattori interni e internazionali. E' "naturale" che possa accadere. E' ovvio che si prendano per tempo misure antirecessive, nei limiti in cui si intravedano i fattori di prevedibilità.
E' fuori dal mondo chi presume che la crescita debba essere continua, e magari esponenziale, e soprattutto chi, chiuso nella propria sfera di interessi, addossa agli "altri", allo Stato o ai sistemi economico-produttivi confinanti o meno, colpe che costoro non hanno, o hanno in misura di gran lunga minore rispetto a chi - per cieco egoismo, per inesperienza o altro ancora - non ha forza predittiva. Accade così che si creino conflittualità regionali o territoriali con strategie preventive, e talvolta con fini inconfessabili.
Accade anche che si individui un "nemico" come capro espiatorio di un delitto di lesa economia che è stato compiuto con complicità collettive, e che ci si chiami fuori per non dover pagare pegno. Si possono riassumere così due fenomeni tipicamente italiani: il lamento del malato immaginario e le doglianze dell'avaro, una cosa e l'altra riconducibili con ogni probabilità al pensiero debole dei soggetti che con i loro comportamenti tendono ad esorcizzare eventuali patologie di mercato o cadute di listini che, in realtà, non sono ancora all'orizzonte.
Una mentalità imprenditoriale ancora immatura resta frenata dal calcolo tutto domestico, familistico, è portata a ingigantire i mali dell'Italia e a non valutare nella giusta dimensione i progressi compiuti, a beneficio di tutti, ma soprattutto di chi opera in aree privilegiate, in questi ultimi anni. Elenchiamoli sommariamente.
La bilancia dei pagamenti, in rosso per 5.000 miliardi alla fine del 1995, è stata poi ininterrottamente positiva. Dopo più di trent'anni, l'inflazione è scesa al di sotto del 3%. La lira si è rafforzata e resta forte nonostante il calo del tasso ufficiale di sconto. Scendono anche i tassi di mercato sugli impieghi in lire, il che significa maggior fiducia nella nostra moneta e, soprattutto, in prospettiva, un ulteriore alleggerimento nella bolletta per interessi sul debito pubblico. Il differenziale tra tassi tedeschi e italiani su quel debito è già calato dal 5,5% a meno del 2%.
Miglioramento fondamentale, questo, perché il problema principale dei nostri conti pubblici è il debito con i relativi interessi, com'è dimostrato dall'enorme avanzo primario dei conti dello Stato, praticamente senza eguali fra i grandi Paesi europei. Il debito verso l'estero è praticamente irrisorio, il risparmio nazionale resta alto in proporzione al Pil.
La riduzione dei tassi d'interesse significa anche che gli italiani che hanno contratto mutui a tasso variabile pagheranno meno in futuro. Perché non chiarirlo esplicitamente ai tanti che credono che la discesa dei tassi riguardi solo i finanzieri?
Le scelte fatte in materia di industria pubblica cominciano a dare i loro frutti, e il vincolo del codice civile incide anche sull'Iri, per il quale risultano fuori luogo palingenetiche quanto improbabili "nuove missioni". Ricordate il marco a 1.250 lire e gli sconquassi del febbraio-marzo del '95? E' comprensibile che chi vende manufatti all'estero sia oggi meno entusiasta (come i produttori del Nord-Est, appunto), ma di qui a dipingersi e a dipingere l'"Italia che produce e che lavora" come sull'orlo del caos, siamo seri, ce ne corre! Un Paese meno masochista starebbe autocelebrandosi, magnificando i pregi del risanamento e del nuovo decollo. E' comunque bene che non sia così, visto che si deve fare ancora molta strada, che restano irrisolti i problemi dell'occupazione in tutto il Mezzogiorno, che abbiamo una pressione fiscale abnorme rispetto alla qualità dei servizi di cui disponiamo, e via di seguito. Ma è certo che in Italia si è realizzata una nuova geoeconomia. E di questo si deve prendere atto, se si vuole impostare in termini realistici un progetto di sviluppo complessivo e di riequilibrio, o di riduzione dello squilibrio, per il futuro del Paese.
Non si parla molto del Nord-Ovest perché, rispetto al passato, questa realtà ha cambiato configurazione e riferimenti. Appena una trentina di anni fa, il Nord-Ovest ruotava ancora attorno al cosiddetto "triangolo industriale"; o meglio, si sviluppava lungo l'asse Torino-Milano, giacché il polo portuale di Genova, insieme con le strutture Italsider, aveva subìto già un sensibile declino. La proiezione economica e socio-politica delle due metropoli del Nord si è poi orientata in direzioni diverse e specifiche. Il progetto MiTo, la megalopoli del Nord collegata da una catena ininterrotta di imprese industriali, appare oggi un "mito" demistificato. Sebbene le statistiche e gli istituti demoscopici si ostinino a comprenderle nel Nord-Ovest, Milano e la Lombardia non abitano più là. Hanno assunto una caratterizzazione specifica e guardano semmai (almeno per quel che riguarda ampie aree della zona pedemontana) verso Nord-Est. Anche se ridimensionato nei confini e nel contenuto rispetto ai significati di un tempo, il Nord-Ovest risulta tuttavia una definizione incerta e impropria, ancor più del Nord-Est, nell'identificare un'area con specifico modello di sviluppo. In essa coesistono entità regionali molto diverse tra loro, una delle quali - il Piemonte - ha mantenuto un rilievo economico paragonabile al passato.
Ma non è solo questo il motivo che ha distolto l'attenzione su questa parte del Nord. Ce n'è un altro, che gli interventi e le inchieste hanno messo in luce, seppure in chiave diversa. Rinvia al rapporto fra città e provincia, fra metropoli e periferia. Resta, cioè, la tentazione o almeno l'abitudine di riassumere tutta questa realtà attraverso Torino. E, magari in misura minore che in passato, a riassumere Torino nella Fiat. Sotto il profilo economico, ma anche politico. Tant'è che c'è scarsa conoscenza di quel che si sta muovendo nelle province piemontesi, nonostante tutti gli indicatori economici e produttivi ne segnalino la crescita e lo sviluppo. Va sottolineato con forza un dinamismo periferico che si realizza attorno alle piccole province e alle piccole città della provincia, da Cuneo ad Alba, da Biella ad Asti. Fenomeni di crescita impostati sulla piccola impresa e sul nesso con la società locale, come nel Nord-Est. Ma a differenza del Nord-Est, in questa parte d'Italia c'è la contiguità con la metropoli; c'è una capitale con cui misurarsi e che ha avuto un ruolo importante per il loro sviluppo, come centro di diffusione di servizi e di know how. Come luogo d'integrazione. E ancora di più questo ruolo potrà giocarlo in futuro.
Torino stessa non è più quella di una volta. Non è la capitale del post-fordismo, né il luogo della crisi di questo modello. E' sopravvissuta alla crisi dell'auto e della grande impresa negli anni '70 e '80. E insieme all'industria dell'auto e alla grande impresa, negli anni '80 e '90, ha ripreso vigore. Si è ristrutturata. Si è rilanciata in ambito internazionale.
Tuttavia, al di là della qualità dell'azione svolta, vive ancora il problema di impiantare stabili e solide radici nella società, e di estenderle di più nel territorio; di dare visibilità e rappresentazione alla pluralità delle nuove domande economiche e dei nuovi ceti sociali che sono emersi in questa fase, in periferia, ma anche nella metropoli. Più in generale, oggi il rapporto tra la periferia e la sua capitale costituisce una risorsa importante, che è per il Nord-Ovest un "vantaggio competitivo" di cui altre aree non dispongono, ma che resta ancora sostanzialmente poco esperita, perché poco "riconosciuta".
Un tempo la società torinese poteva limitarsi a cercare in se stessa - nella sua struttura economica e sociale, nel suo circuito culturale, tuttora esteso e vitale - le ragioni per rappresentare e guidare il territorio, ma anche la fonte di legittimazione in ambito nazionale. Di più. Poteva in questo modo raffigurare e orientare il Nord. Oggi questo non è più sufficiente.
L'iniziativa di Agnelli o Romiti, la riflessione dei circoli culturali e degli intellettuali, l'azione dei leader della grande impresa e della grande città, a differenza del passato, da sole non sono in grado di garantire rappresentanza e riconoscimento al territorio. Perché Torino si colloca in un'area che propone molte, diverse esperienze vitali, che esprimono domande, ma anche insoddisfazione. Il rapporto col territorio, come fonte di legittimazione, ha peraltro assunto un'importanza che si può ridurre a mera "costruzione sociologica". E', altresì, frutto delle trasformazioni che hanno fatto dei localismi una risorsa dello sviluppo e persino una fonte di identità politica, che la globalizzazione crescente ha alimentato, invece di scoraggiare.
Se questo è vero, allora non è solo la provincia ad aver bisogno di una capitale. E' anche la capitale ad aver bisogno di allargare il suo territorio alla periferia. E questo obiettivo non è più realizzabile per assimilazione attorno ai grandi poli economici e finanziari. Non resta che il lavoro, assai più complesso e lungo, dell'interazione e della mediazione diffusa, sotto il profilo economico e dei servizi, ma anche in ambito culturale. Probabilmente, assai più che nel passato, la capacità del Piemonte di proseguire lungo il solco del passato, sta proprio nel diventare Nord-Ovest, invece che propaggine di Torino.
Esistono, sopravvissuti forse anche per fini strumentali, cupi luoghi comuni del Sud: sprechi, clientele, assistenzialismo, statalismo, fatalismo, persino scarsa voglia di lavorare, come se la storia dell'emigrazione oltre tutti gli oceani l'avessero fatta soltanto i veneti o i friulani o i piemontesi, e non masse bibliche di meridionali di tutte le latitudini. E come se gli sprechi, le clientele, l'assistenzialismo pubblico e quant'altro non siano stati parte integrante della storia politica, economica e sociale di tutta l'Italia; storia recente, e anche contemporanea, difficile da "rottamare" per i potentati economici che non si trovano sicuramente nel continente Sud. A proposito del quale è bene far sapere un po' di cose, che passano sotto silenzio, perché la grande stampa, che è appunto nelle mani di quei potentati, non ne parla volentieri, o non ne parla affatto.
Al Sud c'è, visibile in modo macroscopico rispetto alle altre aree del Paese, tutto quel che è riscontrabile al Centro e al Nord, sia dell'Est che dell'Ovest. Per cui è irragionevole pensare che la radice di tutti i mali peninsulari si trovi al di qua della linea Gotica. Ha scritto lo storico Giuseppe Galasso: "Il Nord non può fare a meno del Sud, per le stesse ragioni per cui il Sud non può fare a meno del Nord. Gli italiani hanno contato nell'ultimo secolo e mezzo soltanto perché si sono uniti... Assieme, hanno trovato una dimensione, che era la più congeniale alla vita europea e alla vita moderna; dividendosi, la perderebbero. Io sono convinto che, senza l'unità, il Sud rischierebbe una forte balcanizzazione, e il Nord di diventare la periferia dell'Europa più sviluppata". In altri termini, il Sud precipiterebbe, almeno inizialmente, nel caos; ma il Nord correrebbe - sia pure in minor misura - lo stesso rischio, diventando poco più, come si diceva una volta, della "Somalia della Mitteleuropa".
Ma qual è il peso specifico del Sud rispetto al Paese? Quanto conta, in che cosa conta, quali valori e ricchezze può gettare sul piatto della bilancia nazionale? Ecco, sommariamente, alcune cifre del continente Mezzogiorno.
Le stellette. 78 mila carabinieri (il 71% dei militari dell'arma) provengono dalle regioni meridionali, che possono mettere in campo anche 58.560 agenti di polizia (il 60,6% degli agenti e dei funzionari di pubblica sicurezza), e decine di migliaia di ufficiali e di sottufficiali dell'esercito. Quelli che vogliono "oliare i kalashnikov" reggerebbero - come ha chiesto il ministro della Difesa - a uno scontro armato?
Industria avanzata. Accanto alle aree depresse, il Sud vanta una piccola imprenditoria manifatturiera che fiorisce in dieci province, e un'industria ad alta tecnologia. A Bari c'è l'impresa leader mondiale dei salotti in pelle, mentre due aziende per la lavorazione dei latticini e della pasta hanno i macchinari più moderni d'Europa, e il Gruppo Dioguardi fa scuola di recupero urbanistico in tutta Italia. I pastifici abruzzesi e molisani esportano in tutto il mondo prodotti di primissima qualità. Senza i prodotti del Sud non esisterebbe un'industria di inscatolamento dei pelati. Senza il Sud non esisterebbe, o quasi, la produzione di primaticci, estesa a tutta l'Europa malgrado le leggi restrittive e gli accordi maghrebini imposti dall'Europa e dalla pessima politica agricola italiana. A Lecce, in quel di Casarano, di Tricase e di altre aree locali, operano i calzaturifici più moderni d'Europa. A Napoli un'azienda cartotecnica si batte alla pari con la concorrenza internazionale. I grandi gruppi industriali (Fiat, Barilla, Piaggio, Eni, Snia, ecc.) stanno espandendo la loro presenza nel Sud, grazie alle gabbie salariali che non in diritto, ma in fatto, esistono. Le maggiori fonti energetiche (petrolio, gas) sono a Sud, in Puglia, in Basilicata, in Calabria.
Velocità. Soltanto il 18% del reddito industriale italiano si forma nel Mezzogiorno, ma c'è ottimismo per il futuro. Infatti, dal 1991 il Sud ha superato il Nord nella crescita del Pil (dati della Confindustria, che è tutto dire!). Cifre in chiaro: il Nord è arretrato dal 2,4 all'1,1%, mentre il Sud è avanzato dall'1,7 al 2,5%. Altro che scarsa voglia di lavorare: Bild Zeitung ha scritto che la Germania realizzerebbe un vero e proprio miracolo economico se soltanto un tedesco lavorasse quanto un meridionale italiano. Il che non è un complimento occasionale. E' la constatazione di quel che sanno fare i meridionali alle prese con la tecnologia.
200.000 miliardi. Tanti ne ha distribuiti in quarant'anni la Cassa per il Mezzogiorno. Secondo l'economista Salvatore Cafiero, fino alla metà degli anni '70 sono stati soldi spesi bene. Ma in seguito, quando la gestione dei fondi è passata alle Regioni, se ne è perso il controllo. Lo stesso è accaduto con i fondi straordinari per il terremoto e per i finanziamenti ordinari che il Sud riceve dallo Stato. Ma quelli della Cassa sono stati quattrini tutti buttati via? No. A parte il risanamento del territorio e la regimazione delle acque e i rimboschimenti montani, dagli anni '50 ad oggi la disponibilità di acqua per abitante si è quadruplicata, la rete stradale raddoppiata, la produzione industriale è aumentata di nove volte, quella agricola di due, e con forte specializzazione, con colture intensive e sempre meno estensive.
Le tasse. Col 36% della popolazione italiana, il Sud produce il 24% del reddito nazionale, contribuisce alle imposte per il 18% e assorbe il 35% dei fondi dello Stato.
Ricerca. Al Mezzogiorno giunge solo il 18% dei finanziamenti per la ricerca. Malgrado questo, il Sud ospita alcuni tra i più quotati centri scientifici d'Europa: dal Laboratorio di Fisica del Gran Sasso al Centro Italiano di Ricerca Aerospaziale di Caserta, dalla Technopolis di Bari alla Stazione Zoologica e al Centro Motori Marini di Napoli.
Professionisti. Contrariamente a quanto si pensa, gli avvocati liberi professionisti del Sud sono una minoranza: 14.200 su un totale di 57 mila in Italia. In compenso, il Sud eccelle per alcune scuole di Medicina. Ha 68 mila medici, alcuni ospedali d'avanguardia (i Centri chirurgici di Catania e di Napoli, l'Istituto di ricerca sulla talassemia di Cagliari, l'Istituto di genetica di Napoli). In forte crescita il numero di tecnici laureati nelle varie facoltà scientifiche.
Il territorio. Malgrado gli scempi causati da interventi interni ed esterni (soprattutto con l'edilizia, compresa quella destinata alle vacanze), il Sud ha le zone naturali e paesaggistiche, non esclusi gli itinerari artistici, più apprezzabili della penisola.
Le sue aree archeologiche sono di primissima importanza, i musei di Taranto e Reggio Calabria sono unici al mondo, le oasi protette sono cresciute di numero negli ultimi anni grazie all'impegno di gruppi e associazioni battagliere. Non esiste, specularmente, una politica centrale, interregionale o regionale di grande respiro per lo sviluppo del turismo, compreso quello colto, e dell'occupazione nel settore.
Forza-lavoro. Punto dolente del Mezzo-giorno, che presenta cifre di inoccupati vertiginose. Due le proposte per ridurre gli indici del malessere, l'una e l'altra - per ragioni che sono chiarite di seguito - inaccettabili: l'emigrazione al Nord e la nascita di una holding (incentrata sull'Iri) nel Sud.
C'è, dunque, un Mezzogiorno che si muove, malgrado i gravissimi problemi che lo affliggono e che soltanto una forte volontà politica può portare a soluzione. Progettare il futuro di questo Sud significa tener presenti questi dati, lasciar cadere una buona volta i pregiudizi, valorizzare le vocazioni (e le culture) in una visione unitaria e complessiva. Non è chi non veda, infatti, che il "secessionismo" è nell'ordine delle cose economiche: esistono di fatto due Italie, forse tre o quattro, se anche quelle ricche decidono unilateralmente di portare avanti politiche di sviluppo individuali, restando impartecipi a un progetto generale che, solo, può realmente portarci in Europa, e farci essere presenti con profitto nella globalizzazione in atto. Al di fuori di questo quadro, il destino può essere emblematicamente segnato: Somalia d'Europa il Nord, Balcania il Sud.


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