Le Giravolte




AA. VV.



Sull'incubo lavoro

Il numero 3/96 di "Apulia" aprì con Incubo lavoro di E. Luttwak: un articolo che fa pensare, perché va alla radice del problema e lo esamina senza esitare a palesare perplessità di fronte alle sue stesse idee. Un dibattito chiarificatore appare opportuno, trattandosi di questione fondamentale per le prospettive di sviluppo socio-economico del mondo occidentale.
Il nocciolo del discorso sembra: la globalizzazione dell'economia e l'innovazione tecnologica comportano:
- una crescita della ricchezza prodotta;
- sempre meno occupati e con compenso orario in calo (in USA, in dollari '82, lo stipendio medio di un impiegato è stato: 8,4 $/ora nel '78, 7,7 nell'85, 7,5 nel '90, 7,4 nel '94 e qualche cent sopra i 7 nel '96.
- sensibili risparmi per i consumatori;
- alti costi sociali per mantenere i disoccupati e per pagare le aumentate spese per l'amministrazione della giustizia, conseguente alla crescita della criminalità e della violenza dei giovani;
- più insicurezza e conflittualità, diffuse sia nel campo del lavoro che nell'atmosfera sociale.
Tutto considerato, secondo Luttwak, questo modo di crescere della società, sempre sul filo del rasoio della concorrenza internazionale, non è conveniente, come dimostra l'evoluzione o forse l'involuzione della crescita delle società aeree, che hanno ridotto all'osso., le tariffe, ma a prezzo della sicurezza e della loro stessa sopravvivenza. Forse, aggiunge l'autore, è meglio il protezionismo nipponico, finalizzato al pieno impiego, anche se pagato pesantemente dai consumatori. Subito dopo, però, Luttwak palesa il dubbio implicito in quel "forse": "attualmente anche la burocrazia giapponese pensa alla liberalizzazione dell'economia". Quindi questo modello nord-americano, che trascina anche l'Europa occidentale nonostante le isteresi sindacali e culturali, va verso una forbice iniqua della distribuzione della ricchezza, non dà spazio occupazionale ai più deboli e innesca una disoccupazione giovanile diffusa. Le conseguenze sociali sono inimmaginabili, sia per gli effetti della sfiducia giovanile, che crescerà di età e di peso politico e culturale, sia perché un impoverimento della popolazione comporta un calo della domanda globale e quindi depressione economica.
E' possibile ritrovare una confluenza di interessi che dia alla crescita del mondo un'anima culturale sufficientemente pacifica ed unitaria?
Era il sogno di Keynes, quando raccomandava ai politici di ogni indirizzo innanzi tutto e sopra tutto la promozione del pieno impiego. E' l'istanza morale fondamentale della dottrina sociale della Chiesa, fin da quel lontano 1891 della Rerum Novarum, quando abbinò la scelta preferenziale per la proprietà privata con la sottolineatura della sua FUNZIONE SOCIALE, che la giustifica erga omnes. E' il messaggio ripetuto da tutti i Papi successivi, con accenti sempre più dolorosi e preoccupati (Populorum progressio, Sollicitudo rei socialis, Centesimus annus).
Qualcuno cerca di superare questo contrasto, foriero di uno sviluppo sociale in direzione latino-americana, con un entusiasmo super-liberista alla Berlusconi: "nessun timore: l'aumento della prosperità delle imprese porterà anche ad un forte riassorbimento della disoccupazione". I fatti lo confermano?
Quand'ero giovanottello e studiavo questi problemi con l'entusiasmo di La Pira, faceva testo l'autorità del prof. Beveridge (keynesiano, tecnico-guida del Piano Marshall che ricostruì l'Europa). Beveridge raccomandava: "è meglio pagare i disoccupati facendo fare loro scavi per poi richiuderli -alias lavori sociali a bassa redditività immediata - anziché elargire delle indennità di disoccupazione". Erano i tempi dei cantieri di lavoro di democristiana memoria, di cui gli sforzi odierni per la formazione professionale sono un'altra sfaccettatura, così come la riutilizzazione dei cassintegrati. Forse però oggi è maturo un altro strumento di elasticità salariale portatore di pieno impiego e di deflazione nonostante faccia crescere la produzione. E' uno strumento che impegna prioritariamente non lo Stato, bensì le controparti del processo produttivo primario e ben si inserisce nell'attuale logica liberista vincente, attenuandone il difetto fondamentale.
Ripropongo la tesi di M. L. Weitzman, professore di Economia del Massachusetts Institute of Thecnology nel suo lavoro del 1984 L'economia della partecipazione -sconfiggere la stagflazione, anche se devo riportare parte di una nota già pubblicata (*). Il New York Times commentò: "E' la migliore idea dopo Keynes"; La Malfa ne patrocinò la traduzione in italiano, realizzata dall'editore Laterza di Bari; il sen. Carli, che ebbi la fortuna di interrogare in proposito, espresse parere decisamente favorevole. Tuttavia Weitzman rimane vox clamantis in deserto. Egli stesso lo prevedeva, perché la sua ricetta è di pubblico interesse, ma può, in un primo momento, comprimere i compensi proprio dei lavoratori delle aziende che la adottano. E' un sacrificio che non si riesce ad affrontare, come succedeva a quel contadino che d'estate non riparava il tetto perché non ne aveva né il tempo né il bisogno, mentre d'inverno, sotto la pioggia, non poteva farlo. Nella sua essenza più scarna la tesi è questa:
a) L'economia delle nazioni industriali è prevalentemente caratterizzata da salari fissi, apparentemente indipendenti dalla prosperità aziendale (infatti nessuno li diminuisce, però al primo vento di crisi licenziano!). Se la domanda si contrae, le condizioni di quasi monopolio fanno sì che non si riduca il prezzo, bensì si preferisca licenziare personale e adeguare quantitativamente l'offerta.
b) Proposta Weitzman: si provi invece a disaggregare il salario in due componenti:
- una parte fissa, pari al 50-70% dell'attuale;
- la restante legata alla produttività aziendale (per esempio, al fatturato), in proporzione tale da non modificare l'attuale regime salariale complessivo.
Conseguirà un compenso immutato, ma elastico.
Pertanto, di fronte a una crisi di domanda non ci sarà bisogno di licenziare, perché il costo marginale si ridurrà e consentirà di mantenere il ritmo produttivo anche a prezzi più bassi. Ma questo costo marginale potenzialmente inferiore al prezzo di mercato, quando non c'è crisi, induce l'imprenditore ad espandere la produzione e quindi ad assumere nuovo personale! Quindi la proposta Weitzman promette due stimoli diretti:
- licenziare meno ed anzi assumere;
- aumentare la produzione ed offrirla a prezzi inferiori.
Sia la stagnazione che l'inflazione trovano quindi un forte antidoto.
Sembrano superflui, in questa sede, gli innumerevoli dettagli, pur importantissimi, sulle ripercussioni di una minore disoccupazione sulla domanda globale, sul bilancio dello Stato alleggerito dei pesanti costi assistenziali dei disoccupati (e su quello di tante famiglie!), nonché sulla psicologia degli occupati, che diventano cointeressati alla produttività aziendale e quindi meno esasperatamente conflittuali, e ancor più su quella dei disoccupati, per i quali si apre la speranza.
Per tutto questo c'è il libro al quale si rimanda anche per i suggerimenti che rendono accettabili i sacrifici iniziali dei lavoratori che accolgano il patto di partecipazione (dalle agevolazioni aziendali extra-salariali a quelle pubbliche, come ad esempio una riduzione del carico fiscale sulla quota di reddito variabile).
Restano da menzionare invece le osservazioni sulle aziende che già praticano la compartecipazione, da quelle giapponesi, ben descritte, a molte altre. Esse confermano, con esperienze consolidate da moltissimi anni, la validità della proposta. Non sembra un discorso da lasciare cadere nel silenzio. I guasti del nostro tetto sono vistosi, questo strumento non potrebbe contribuire validamente a ripararli?
leonardo branco


NOTE
* Terra d'Otranto, n. 4/1995.

 


Scenografie

Lo scenario politico italiano è vario non solo perché carico di partiture, ma anche perché arricchito da un corporativismo gabellato come pluralismo "democratico", ignorandone il vero obiettivo: immobilismo per tutelare gli interessi di tanti, i quali, anche senza un accordo di strategia opportunistica, hanno conquistato una comoda, pingue greppia.
Se questa scenografia la si osserva da un angolo di visuale distaccato da ogni intento strumentale, possiamo sezionarla in diverse categorie corporative:
- il Parlamento (Camera e Senato): in entrambe le assemblee prevale, attraverso i regolamenti interni e i provvedimenti legislativi andati in vigore in questi ultimi 20 anni, la tenace difesa del posto conquistato, tanto che possiamo definire il parlamentare un vero e proprio impiegato statale;
- l'Informazione: in proposito, bisognerebbe avere poteri soprannaturali per interpellare Benito Mussolini su un giudizio, dato il personaggio, lapidario. Ma noi, facendo finta di possedere quei poteri e sulla scorta di ciò che è avvenuto e di ciò che leggiamo ogni giorno, possiamo permetterei di chiamare il nostro giornalismo la madre del corporativismo più dichiarato. Per l'appunto, il giornalista per esercitare deve sottoporsi ad un esame di Stato, superato il quale, se fa parte della rosa dei protetti, inizia la sua carriera. Nel frattempo, si iscrive all'Ordine professionale, il cui Sindacato dovrebbe, diciamo dovrebbe, difendere le centinaia se non le migliaia di colleghi che lavorano (si fa per dire) senza stipendio e alla mercé di veri e propri negrieri che dirigono innumerevoli testate quotidiane usufruendo dei contributi sulla legge dell'editoria. A che servono, quindi, l'Ordine dei giornalisti e il suo Sindacato?
L'altra faccia del corporativismo giornalistico è costituita dagli editorialisti o opinionisti che insieme formano una divertente e bella accademia. E' indubbio che si tratta di persone di vasta cultura che un giorno sì, e un giorno sì, ci fanno sapere che la pensano in un certo modo. Hanno la padronanza dei termini e spesso infarciscono la prosa con frasi latine o magari anglosassoni. Da anni li leggiamo, ma se riflettiamo è facile accorgersi che in fondo scrivono mossi da semplice agonismo confrontandosi nelle prime pagine con i colleghi che si chiamano Bocca, Della Loggia, Panebianco, Fucillo, Socci, Cervi, Scalfari e Ferrara, per non tacere di Montanelli ecc. ecc. Non accade mai nulla, scrivono al vento appagati della loro vanità. Oppure parlano di cose già avvenute che non possono comprometterli.
Rifacendoci all'altra faccia del corporativismo intellettuale non ometteremo di citare gli scienziati dell'economia che a vario modo sono ansiosi, da tempo, di salvarci dai più nebulosi tracolli finanziari e individuali. A cominciare dal decano Modigliani, passando per Martino, Marzano, Turani, Monti, e gli altri cui chiediamo perdono per il vuoto di memoria, si parlano addosso interpretando il ruolo delle Cassandre di turno, mentre l'umanità non capisce ciò che dicono e si difende dal rigetto col telecomando interrompendo la loro visione sul teleschermo.
E i politologi? Mentre si accapigliano su questioni astratte, i soliti noti (i capi dei partiti) fanno e disfano quello che vogliono perché padroni di ciò che conosciamo ma soprattutto di quello che ignoriamo. E infatti, hanno raggiunto un accordo che a nostro parere potrebbe anche essere definitivo, salvo piccoli aggiustamenti, per garantire la sopravvivenza a qualche raccomandato: parliamo della Bicamerale e del suo ultimo risultato.
- Nell'avvincente copione a più voci non vorremmo mancare di rispetto alla corporazione delle corporazioni, la Confindustria, eludendola dall'elencazione.
E' una struttura sindacale degli industriali che da decenni operano in un regime economico prevalentemente dirigistico anche quando alcuni di loro parlano di mercato libero interno che non esiste. E' noto, infatti, che chi detta leggi e comportamenti in proposito è il Governo in carica, a qualunque colore appartenga. La Confindustria è parte integrante della sceneggiatura.
Da questo quadro di confusionismo di proposte e di idee che nessuno è in grado di controllare e analizzare, gli attori dovevano pur trovare un argomento che non implicasse responsabilità personali: il Federalismo. Non abbiamo ancora capito qual è la necessità di costituire, praticamente, degli Stati regionali in un territorio geografico come il nostro, che di per sé ha respiro così provinciale da poter essere considerato un'appendice appena accennata magari in un qualsiasi Stato dell'Unione Americana.
Quello che, invece, ci fa essere protagonisti nell'universalità dell'economia, è la fetta di mercato da noi conquistata in decenni di tenace lavoro malgrado il dilettantismo secolare della classe politica. E allora, è un sintomo di infantilismo parlare di spezzettamento di regioni o macro regioni. Diamoci da fare, invece, perché tutto il territorio nazionale abbia strade, aeroporti e ferrovie in grado di servire quelle nuove industrie nel frattempo sorte e volte alla conquista di nuovi mercati nella cosiddetta globalità dell'economia. Beninteso, a monte di questa eventuale evoluzione, tagliare dell'80% l'apparato burocratico con l'ammodernamento scientifico di tutto il complesso risultante.
Può sembrare semplicistico, ma coloro i quali conoscono i fattori del problema sanno che è come riferirci all'uovo di Colombo.
- Il grado di civiltà di una Nazione è commisurato alla efficienza dell'ordinamento giudiziario. Qualcuno può indicarci il grado civile del nostro apparato?
La risposta, oltre che essere ardua, è inutile, perché come cittadini assistiamo sgomenti alle lotte intestine di gruppi di magistrati contro altri per tutelare o abbattere interessi di singoli individui, siano essi politici o affaristi, con buona pace dei destini del Paese.
Magistrati spesso privi del senso dello Stato, per di più reclutati sulla base di concorsi il cui fattore determinante è soltanto il bagaglio nozionistico dell'aspirante a scapito delle motivazioni morali e filosofiche della persona da inserire in un organismo il cui patrimonio ideale è la fedeltà alla Patria e alla difesa dei suoi vitali interessi. Se continueremo a scivolare sui lastroni di ghiaccio della superficialità e dell'avventurismo anche nella istituzione giudiziaria, dovremo aspettarci la fisiologica nemesi storica che coinvolgerà tutti, colpevoli e innocenti.
Ad onta delle paure e della scarsa fiducia nelle cose e nelle persone, che abbiamo fugacemente analizzato, ci soccorre l'amore per la Nazione che vorremmo permeata dall'avvento di una democrazia veramente operante nell'insieme di un'appagante libertà fondata sulla cultura laica.
fulvio summaria

 

Cittadino mediterraneo

Il ragionar di tendenze demografiche, movimenti e flussi migratori non può prescindere dalle ragioni "economiche" che, quasi a mo' di costante causale, sembrano permearne l'analisi secondo linee che rivelansi obbligate. E' noto, infatti, come la mobilità di individui, di gruppi ovvero di popolazioni, si svolga in virtù di scelte in cui le strategie speculative di ordine economico rappresentano un quid indefettibile. Ciò non significa, tuttavia, che l'individuo si comporti sempre come homo oeconomicus, nel senso che la sua filosofia di pensiero risponda in modo assoluto ab initio a un'analisi economica (costi-benefici): altre motivazioni concorrono a determinare la scelta finale.
Invero, tutti i modelli esplicativi dei fenomeni migratori assumono quasi universalmente la validità delle scelte (o delle influenze) di tipo economico, pur non disconoscendo le ragioni di approcci differenti.
Il nostro scetticismo rileva dai limiti di ogni tentativo di omologazione del fenomeno, concepibile in quel cucir e ricucir categorie di pensiero su di un corpus empirico alquanto complesso. Individuare, così, un possibile modello di mobilità del "cittadino mediterraneo" risulta oltremodo complicato, se non affinando l'attenzione su ulteriori elementi di causalità che vadano al di là di asettiche considerazioni economiche.

Tendenze demografiche e offerta di lavoro
Il Mediterraneo si presenta da secoli quale importante crocevia di movimenti e scambi di popolazioni, svolgentisi tanto secondo le classiche direttive Sud-Nord quanto quelle più "recenti" (1) Est-Ovest. In ogni buona considerazione, l'evoluzione sociale in quest'area (2) reca il segno di una profonda contraddizione che vede la riva europea versare in un progressivo declino demografico, contraddistinto da un perdurante invecchiamento demografico, e di converso quella asiatica, ma soprattutto quella africana, denunciare una fase di espansione demografica che sebbene più contenuta rispetto agli anni Sessanta e Settanta non sembra rallentare sotto il peso di problematiche cogenti e potenziali.
Le Tavv. 1 e 2 ci offrono un quadro generale della situazione. Il declino demografico nella riva europea è reso abbastanza eloquente dal raffronto tra i tassi di variazione della popolazione totale che specie nel ventennio (1970-90) hanno visto solo un Paese, l'Albania, presentare valori al di sopra delle due cifre intere (21,08 per mille).
Le migrazioni mediterranee risultano rappresentare un fenomeno con radici piuttosto forti e lontane, in ragione tanto del divario demografico or considerato quanto del gap economico che distanzia i Paesi avanzati da quelli in via di sviluppo all'interno della stessa arca. E' difficile prevedere, almeno nel prossimo futuro, un cambiamento sostanziale tanto nella natura come nella direzione dei movimenti migratori, se non sulla base di alcune considerazioni di specie che paion confortare le tesi più pessimistiche piuttosto che rivederle.
In primo luogo, occorre rilevare quanto incida sulla mobilità territoriale l'evoluzione della popolazione in età lavorativa. Come si nota dal quadro statistico (Tav. 1), se, nel periodo 1990-2010, la variazione della popolazione in età lavorativa nella riva europea rispecchia sostanzialmente quella della popolazione totale (unica forte eccezione: l'Albania), nella riva asiatica e viepiù in quella africana, la prima - in ragione soprattutto della crescita dei contingenti più giovani - cresce generalmente a un ritmo maggiore di quella totale, ciò comportando una pressione più accentuata sui mercati del lavoro.


A ciò si aggiunga un'altra osservazione di fondo: il fenomeno di urbanizzazione che contraddistingue l'intera area mediterranea. Il quadro statistico (Tav. 2) mostra come il peso della popolazione urbana sul totale della popolazione, nel periodo 1970-1990, sia aumentato un po' dappertutto nel Mediterraneo, laddove spiccano realtà come quella turca (61,35% nel 1990 contro il 38,42% di vent'anni prima), libanese (83,71% nel 1990 contro il 59,38% nel 1970), israeliana (continuando ad essere il più elevato di tutto il Bacino con il 91,61% nel 1990), nella riva Est, e libica (70,17% nel 1990 contro il 35,85% nel 1970), in quella Sud. Nel complesso, solo quattro Paesi presentano, a partire dal 1990, una popolazione urbana inferiore a quella rurale: Albania e Portogallo (riva Nord), Egitto e Marocco (riva Sud); in questi ultimi due, tuttavia, già nel 2010 il rapporto subirà un'inversione di tendenza, associandosi al resto dell'area.
L'urbanizzazione appare forse l'immagine più topica dello sviluppo delle forme di vita nel Mediterraneo, specie nelle sue aree più deboli: un dato che se non avvalora, almeno immediatamente, la tesi di una mobilità su scala internazionale riflette, quanto meno, l'esistenza di una forte mobilità interna che vede ancora e necessariamente la via dell'abbandono delle aree rurali in direzione di quelle urbane; abbandono che funge, sovente, da vera e propria "anticamera" per un progetto migratorio esterno. Il fenomeno è, di certo, più intenso nelle rive asiatica e africana, laddove le esigenze legate agli incipienti processi di sviluppo economico conducono a un progressivo depauperamento del territorio, coinvolgendo le popolazioni nella ricerca talvolta affannosa di nicchie di "sopravvivenza": zone in cui la domanda di lavoro appaia men sterile ch'altrove. Sicché le scelte migratorie (internazionali) continuano a cadere su quelle aree europee laddove la mobilità interna appare profondamente segnata da un'economia fortemente decentrata e terziarizzata, così depositaria di forti attrattive.

Mobilità: un possibile modello esplicativo
Se la lotta contro la miseria e la ricerca d'un lavoro costituiscono sicuramente i principali inputs alla mobilità, dobbiamo ritenere, purtuttavia, che la tipologia deterministica sia più complessa. L'analisi concerne un ambito esemplare nello scenario internazionale, ovvero il Bacino mediterraneo, laddove i movimenti umani, tanto in termini di mobilità collettiva quanto individuale, costituiscono una fenomenologia affatto fisiologica. S'intende con ciò sottolineare quanto importante sia la necessità di spostamento nell'alveo progettuale e decisionale di molte realtà umane che abitano quest'area.
Per comprendere l'insieme di ragioni che intervengono a definire la scelta o la sfera di criticità che informa la scelta - sì definiamola -allo spostamento, si potrebbe rivolgere l'attenzione alla Figura 1, in cui si è cercato di enucleare l'eziologia alla base dei comportamenti d'esodo e ritorno delle popolazioni mediterranee.
Dal quadro così definito emerge come nel Bacino mediterraneo siano sostanzialmente 8 i Paesi che presentano più o meno gravi squilibri interni, tali da prefigurare una forte spinta migratoria: Albania e Paesi dell'ex-Yugoslavia (riva Nord), Siria e Turchia (riva Est), Algeria, Egitto, Marocco e Tunisia (riva Sud). Alcuni di questi (Albania e Paesi dell'ex-Yugoslavia, Algeria, Marocco e Tunisia) presentano gravi deficienze strutturali, in cui i motivi di carattere economico si fondono, molto spesso, con ragioni di natura politica (un caso emblematico è quello dei Paesi nati dalla separazione della Federazione yugoslava), seguiti da altri (Siria e Libia), di cui disponiamo di poche fonti attendibili, ma non per questo lontane dal confermarci i fermenti, in ispecie politici, che alimentano le intenzioni migratorie di non poche fasce precarie e vessate della popolazione. A ciò si aggiungano alcuni Paesi del Medio Oriente (Cipro, Libano, Israele), in cui prevalgono le motivazioni di ordine politico (quand'anche propriamente ideologico-religiose). Pochi si distinguono per la prevalenza di motivi culturali (Grecia); molti, sostanzialmente nell'area europea (Francia, Italia, Malta, Portogallo, Spagna), non presentano alcun serio motivo di mobilità, se non di natura prettamente fisiologica e, pur in quest'accezione, affatto trascurabili.
La scelta di ritorno sembra informata al ripristino di quelle condizioni tanto politiche (Grecia e Portogallo, in epoca più tarda; Cipro, Israele e Libano, in epoca più recente) quanto politico-economiche (Libano); in tutti gli altri casi (Algeria, Marocco, Tunisia), si reputa conveniente procrastinare il momento del rientro, se non addirittura annullarne ogni prospettiva in virtù della "scelta" d'integrarsi nelle società di accoglimento.
Orbene, il modello citato, con le dovute semplificazioni, si presta a un'osservazione di fondo sulla base di una contraddizione tanto forte quanto evidente e che oppone aree "avanzate" e aree "disagiate" nel Mediterraneo: se in quest'ultime la mobilità, molto spesso, appare una scelta obbligata, nelle prime, invece, si presenta come un quid indifferente, le cui determinanti in ambedue i sensi (esodo e rientro) sono ben lungi dal rappresentare un bisogno o un'esigenza insopprimibile (tali non potendosi considerare, ad es., i trasferimenti "naturali" per lavoro stagionale o a breve termine, studio e formazione, etc.).
Gli squilibri (interni) nel mercato del fattore lavoro paiono forniti di maggior travaglio tanto nelle decisioni di partenza quanto in quelle di ritorno, nonché nei comportamenti di rigetto. Infatti, la crescente offerta di lavoro proveniente da quelle aree sì definite "disagiate" non trova più una soddisfacente capacità di assorbimento in termini di domanda da parte delle aree "avanzate", essendo quest'ultime pervase da problemi di surplus di manodopera, inoccupazione, disoccupazione, le cui fasi contingenti sembrano lasciar il passo a ragioni preoccupantemente strutturali.
Le ragioni delle scelte lavorative costituiscono, peraltro, in termini di aspettative, un bisogno aggiuntivo, ovvero un ulteriore generatore di crisi occupazionale, in ragione di attese qualitativamente lontane dalle risposte reali di un mercato del lavoro in cui il ridimensionamento delle prime appare necessario per le esigenze di equilibrio del secondo. Ciò crea, o contribuisce a fomentare, quelle tensioni frizionali all'interno delle società di accoglimento, quali denunciate dalla graduale - e per molti versi già compiuta -bipartizione del mercato del lavoro fra fasce "privilegiate" e "precarie" di lavoratori: una differenza che rileverebbe, sostanzialmente, da un previo inserimento delle prime rispetto alle altre, sulla base di quelle che possiamo definire "opportunità storiche".
La presenza di questa dicotomia comporta un ulteriore motivo di scollamento sociale, ben rinvenibile nel Bacino mediterraneo all'interno delle sue stesse aree "forti", tra forze lavoro adattate, adattande e disadattate o emarginate. In tal senso, il lavoratore - o meglio l'offerente lavoro - straniero altro non può che avventurarsi in un iter, oltremodo imprevedibile e tortuoso, il cui esito più probabile più che da un effettivo inserimento è tutt'al più rappresentato da un sempre più precario adattamento. Per queste ragioni, la mobilità fattoriale (nella fattispecie del fattore lavoro) sembra rappresentare, oggidì, un rilevante fardello sociale, dacché il suo compiersi secondo linee discostanti dai principii o dalle attese progettuali induce a molteplici ordini di rivisitazione delle scelte, sia da parte degli attori che dei policy makers.

Considerazioni conclusive
La situazione socio-economica del Bacino mediterraneo par rappresentare l'humus più fecondo delle tendenze movendi, tanto nazionali quanto internazionali. All'interno di questa presunta "patologia", si è visto come agiscano ulteriori processi disgreganti del tessuto sociale - e quindi umano connettivo -, come i fenomeni di urbanizzazione. L'urbanizzazione si rivela, spesso, come un' "attrazione fatale", nella misura in cui continua ad alimentare aspettative di lavoro in loco e a legittimare, di conseguenza, esigenze di spinta laddove queste si presentino meno aleatorie, sebbene realmente insostenibili.
A ché la mobilità generale nel Mediterraneo possa svolgersi assecondando i limiti imposti dalla ragione degli Stati e dalle necessità di riequilibrio o assestamento dei mercati del lavoro, occorre concentrare la nostra attenzione sull'avvio - laddove di già non innescati - di processi di realizzazione di forme e strutture produttive che favoriscano l'assorbimento dell'eccedenza di manodopera, segnatamente poco o per nulla specializzata: allo stato attuale, ben poche opportunità si presentano nei settori tradizionali (industria di base) e più innovativi (alta tecnologia), presentandosi più credibili prospettive in quei settori del terziario sociale (o non profit) e nei servizi ai comparti agricoli (forse vera e più auspicabile riscoperta!).
Gli interventi riequilibratori all'interno delle stesse economie nazionali non possono, tuttavia, trascurare l'importanza della mobilità del fattore lavoro come strumento di aggiustamento non solo del mercato di specie, ma anche dei mercati di beni e altri servizi, seguendo un approccio di equilibrio generale.
E' nel contemperamento di queste - in apparenza - opposte esigenze che la mobilità umana all'interno del Mediterraneo può svolgersi al di fuori delle consuete aspettative di criticità, con l'attesa che quest'area possa fungere da positiva cartina di tornasole dei fenomeni di mobilità sociale su scala internazionale.
E solo una lettura più attenta e meno emotiva dei tanto declamati rischi sociali delle migrazioni può precedere e giustificare l'adozione di correttivi che vogliamo quanto più razionali.
gaetano ferrieri


NOTE
1) L'espressione è indice di una fenomenologia che si può definire "recente" solo in ragione dell'intensità e delle linee direttrici dei flussi.
2) L'area qui presa in considerazione comprende i seguenti 18 Paesi:
Albania, Francia, Grecia, Italia, Malta, Portogallo, Spagna ed ex-Yugoslavia (riva Nord), intendendosi per ex-Yugoslavia l'insieme dei Paesi nati dalla scissione della Repubblica federale yugoslava (Yugoslavia o Federazione serbo-monteriegrina, Croatia, Bosnia-Herzegovina, Macedonia); Cipro, Israele, Libano, Siria e Turchia (riva Est); Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia (riva Sud).

 

 

Rilancio dell'economia

Desidero esporre alcune considerazioni in merito al possibile ruolo del comparto agricolo nello sviluppo dell'economia nazionale stretta tra lo stallo della congiuntura mondiale e il modo di affrontare i problemi economici italiani.
Un impulso aggiuntivo potrebbe provenire dall'agricoltura, che costituisce la base essenziale di ogni sistema economico e, in particolare, del nostro Mezzogiorno. Si tratterebbe di utilizzare il comparto agricolo in un modo del tutto innovativo rispetto alle tradizioni e alle consuetudini consolidate in questo settore.
L'attuale situazione italiana è caratterizzata, tra gli altri, da tre gravi problemi che, per le loro conseguenze sociali, costituiscono una fonte di grande e crescente preoccupazione: mi riferisco alla disoccupazione, al debito pubblico e al dissesto ambientale. Una possibile - e sia pure non completa - soluzione unisce questi tre problemi: la riscoperta del settore primario quale cardine di un nuovo modello di sviluppo. Infatti, una riconversione delle strutture agricole tradizionali verso forme di produzione destinate alla trasformazione in combustibile per uso sia industriale che privato (come carburante) potrebbe costituire una risposta valida ed efficace alla disoccupazione, al debito pubblico e al dissesto ambientale.
Per ciò che concerne la disoccupazione, vero dramma nazionale (con circa il 12%) e in special modo nel Mezzogiorno (con un tasso del 22/25%, di cui il 60% giovanile), attribuire all'agricoltura il ruolo di nuova fonte energetica vorrebbe dire:
1) riassorbire buona parte della massa di disoccupati che l'industria e il terziario hanno in questi anni espulso, dando così una forte spinta alla crescita del reddito nazionale;
2) risolvere in modo adeguato l'annoso problema delle "eccedenze agricole";
3) recuperare alla produzione tutte le terre oggi incolte;
4) riattivare l'indotto legato all'industria delle macchine e degli attrezzi agricoli.
Per quanto riguarda il bilancio statale, esso, tra le altre voci di spesa, include anche la bolletta petrolifera che, tra alti e bassi, concorre in maniera rilevante alla formazione del debito pubblico. L'utilizzo per fini energetici dei prodotti agricoli permetterebbe di:
5) abbattere notevolmente le importazioni petrolifere e il relativo trasferimento di ricchezza verso i Paesi fornitori (tale risparmio di spesa si tradurrebbe in maggiore reddito per i nostri imprenditori agricoli);
6) rompere il monopolio dei Paesi produttori di petrolio e di coloro che in Italia detengono il controllo del mercato, con conseguenti benefici sui prezzi di vendita.
Il dissesto ambientale è sotto gli occhi di tutti ed è il risultato, in larga misura, dell'utilizzo, come fonte di energia, del petrolio e dei suoi derivati.
I danni all'ambiente (inquinamento atmosferico, marino e terrestre) e all'uomo impongono l'adozione di urgenti misure volte ad invertire questa tendenza autodistruttiva. La risposta più adatta potrebbe venire proprio dall'uso del combustibile di origine vegetale che, come numerose ricerche dimostrano, è il più pulito esistente in natura.
Negli Stati Uniti ed in Brasile, da oramai molti anni, il carburante è ottenuto dalla miscela tra benzina ed alcool.
I vantaggi connessi a tale scelta sono:
7) riduzione dell'inquinamento atmosferico nelle nostre città;
8) minor utilizzo delle petroliere, con conseguente limitazione dei rischi legati al trasporto via mare del greggio;
9) minor utilizzo di petrolio e di carbone (altamente inquinanti) per la produzione di energia elettrica;
10) miglioramento delle condizioni ambientali per l'uomo, con minori rischi per la salute pubblica e con relativi effetti positivi sulla spesa sanitaria;
11) disponibilità di una fonte energetica praticamente inesauribile.
Cosa può aver impedito un attento esame di queste considerazioni? Problemi tecnici? Se ve ne sono, certamente per ognuno di essi può esservi una soluzione. Problemi politici? Non mi pare che ve ne possano essere visto che nessun interesse politico nazionale potrebbe contrastare la scelta di usare il settore agricolo per fini energetici; al contrario, questa politica troverebbe senz'altro favorevoli i cittadini italiani e potrebbe costituire un valido esempio da seguire per l'intera Comunità Europea.
Perché ciò si realizzi, è indispensabile innanzitutto una presa di coscienza da parte di tutti coloro i quali sono più immediatamente interessati ad una siffatta politica energetica (mi riferisco, in primo luogo, agli operatori del settore agricolo ma anche agli industriali, a coloro che sono in cerca di occupazione, alle associazioni ambientaliste); in secondo luogo, è necessario il coinvolgimento degli organi di governo che istituzionalmente hanno il potere di indirizzo e di attuazione della politica energetica nazionale.
La scienza economica ci insegna che l'innovazione è alla base della riapertura del ciclo economico, con tutte le conseguenze positive di crescita del benessere economico, sociale e culturale. L'impulso al progresso, in questo caso, potrebbe derivare proprio da questo storico ed innovativo utilizzo del settore agricolo.
tommaso terragno

 

Cesari, il dominio della luce

Una luce che si diffonde, che si spande, una luce del principio, incandescenza, elemento principale, necessario, fuoco che incenerisce o genera, che illumina o divampa.
E' la luce del tempo che ha ansia di eternità. Non è riverbero, riflesso, trasparenza. E' esplosione imprevedibile, incontrollabile, forza della natura, mistero della creazione.
Nicola Cesari ricerca questa luce combinando colori con la coscienza che nessun colore potrà mai essere luce. Non vuole che sia così, infatti.
Vuole che la luce si trasformi in idea, in messaggio che passa dalla tela agli occhi.
E' una luce che è universo; è universo racchiuso tutto dentro quella luce, che è da sempre: come respiro cosmico, testimonianza di una Mente creatrice, armoniosità totale, potenza fecondatrice e vivificante.
La luce di Nicola Cesari è la metafora di una purezza primordiale, di una purezza che rifiuta ogni ombrosità contaminante, emanazione ed espressione del soprannaturale.
Luce-prodigio che si rende visibile per farsi intermediaria tra il cielo e la terra, in quanto essa stessa terra e cielo, inizio e fine, fusione di punti cardinali, primavera e autunno, alba e tramonto.
Un'idea - si diceva -, la rappresentazione di un'idea del mondo: che è sentito come orizzonte sconfinato, oggetto di uno sguardo continuo, pieno di stupore. Di fronte al mondo rappresentato dalla luce, l'uomo si stupisce, sempre. E' lo stupore di chi contempla il mistero e da esso si sente attratto, trascinato.
Poi ciascuno esprime questo stupore con il silenzio, con la parola, con il colore.
Per Nicola Cesari l'espressione è il colore: sorgente, combinazione, profondità, compattezza, tensione verso un oltretempo assoluto, imperturbato, inaccessibile agli occhi, al pensiero, che si può soltanto tentare di immaginare sulla base della nostra conoscenza del reale nella convinzione che il mistero resta comunque mistero che resiste a qualsiasi perfezione d'arte.
antonio errico

 

La strana favola del mondo

Dire fiabesco il mondo pittorico di Raffaele Spada è, certo, un azzardo; non ancora meditato giudizio, ma impressione e immediatezza visiva che, prima di elaborarsi in gusto, appare assorbita nel primordiale incantamente entro cui lo spettatore ha osato avventurarsi varcando quegli spazi di stupefacente magia. Parlo della pulsiva, irriflessa attrazione verso l'oggetto d'arte che l'Autore, con innocente malizia, getta come esca fantasmagorica per la cattura dei sensi. L'effetto subitaneo è un'accattivante quanto inquieta dispersione del sé; l'avvincente (poiché istintivo) trascinamento su percorsi labirintici di curvilinee architetture atemporali che un'invidiabile perizia costruttiva disegna.
Può la malia, scaltra e seduttiva del maestro, preservare l'innocenza del racconto? A quale punto del cammino artistico di Spada si salda e si pacifica la fertile irriducibilità tra mestiere e risultato o, che è la stessa sfida, tra tecnica manipolativa di scuola e peculiare, finale dis-velamento?
Qui non soccorre alcuna facile psicologia, né l'abuso di luoghi comuni. A rigore: nessun'opera umana è innocente, se opera è lavoro, conoscenza; Mefistofele viene raffigurato con la penna sul cappello.
I linguaggi espressivi, in specie plastici, riproducono, e-laborano, ricostruiscono il reale de-costruendolo: è la condanna ad un'incessante fatica ideativa e fattuale insieme. Sicché è colpa.
Ogni intento pratico-conoscitivo è colpevole perché viola, violenta, squilibra l'esistente; e, se non si limita ad una manieristica ridondanza estetizzante, ne inquieta l'ordine dato.
Della modernità, degli stili innovativi contemporanei il maestro salentino eredita, tutta intiera, l'odissea d'un instancabile oltrepassamento; che è poi la cifra ineludibile dell'insicurezza, del nostro essere inappagati.
La responsabilità, sempre più lucida e costringente, di dover ubbidire ad un'intima coerenza spirituale immette (non senza contenute asperità espressive) nell'eccitazione febbrile di nuove esperienze investigatrici.
L'artista non attraversa asetticamente alvei già tracciati; né, tantomeno, indulge in svuotati eclettismi cortigiani. Le stagioni che impregnano e plasmano l'ethos pittorico di Spada (pure arricchito da suggestioni e ibridazioni feconde) sigillano tappe di una forza creativa ragguardevole, manifestano un'energia erosiva e vitale che sa acquistare purezza originaria e abbacinante nitore materico. Classiche visioni di armonia figurativa che l'abilissima nettezza del segno scolpisce e intaglia in una corposità cromatica iridescente, sorvegliata da una metrica cangiante che, non di rado, propizia un'appagante delizia sensuale tra ludici trasognamenti scanditi su vortici aurorali d'incantevole sinuosità.
E' in questi esiti pittorici che quell'innocenza maliosa trova parziale, ma interno equilibrio; che l'èmpito progettuale si prosciuga e fonde nell'essenzialità dello scopo maturato: corpo/colore/spazio/luce/figura...., i quali, depurandosi da ogni estrinseca (meramente allegorica) rappresentatività concettuale, si realizzano come sintesi e processualità poietica. Totalità che nell'autocomposizione dinamica si dà forma, rivelandosi in un risultato esteticamente compiuto. Così, almeno, a me appaiono svariate opere degli ultimi anni '80: Fughe di festa, Venere ecologica, (stupenda rivisitazione botticelliana in chiave demistificatrice), La farfalla bizzarra, ecc. Momenti che concludono, ma che, al contempo, preludono.
Quell'innocenza evocata, la strana favola del mondo, Raffaele Spada impara a presagirla nel registro di una lenta, inesorabile incubazione; estenuante e caparbia tessitura per ricreare sensi, memorie, fatiche dell'esistente che, animato e/o inanimato (poiché specie e genere mirabilmente si intersecano e trasumanano) egli avvolge, quasi protegge con un silenzio arcano. Acuta, per intensità, ma sinfonica vibrazione d'eternità.
Poi (lo diciamo nel significato logico, non crono-logico), come in ogni autentica scrittura estetica, l'inquietudine irrompe, tralasciando prudenze e ardori raffrenati. Il brivido, prima esitante e dissimulato, si fa linea contorta e diseguale profilo; e la sintassi (diviene) pittorico ariete che destruttura forme e spazi fissati: nuovi territori, sentieri dolorosi di solitudine si dischiudono all'ansiosa, universalmente pensosa fantasia dell'artista, e attendono insidiosi di essere esplorati.
C'è già, nella disarticolazione volumetrica e nei cieli sordidamente plumbei (e come gravidi di tragedia incombente) de La morte del grillo (1986), la disincantata pietas verso un'umanità dolente; un primo, feroce scacco entro il quale destini incomprensibili avvinghiano una natura incisivamente dimidiata; mentre putti festosamente apatici celebrano un'alterità estraniata (irraggiungibile) e simulacri d'alberi raggelati, ischeletriti esaltano assurde insensatezze.
Timbri, toni e sfumature cromatiche ricchissimi scandiscono il mutamento dei generi: epico, elegiaco, tragico. Colore raffinatissimo che, a mio giudizio, funge da connotazione predicativa più penetrante, talora, della stessa superba intelaiatura architettonica. Ed è questa agilissima, polisemica e mossa aggettivazione plastica che meglio esprime umori, stati d'animo, incupimenti di Spada. Nevrosi e desiderio, passione e trasalimento che accompagnano questo nostro disadorno mestiere di vivere.
Quel rosso lavico, terribilmente sanguigno che carsicamente corrode e riesuma una vitalità incontenibile (penso al San Giorgio, all'Arca, a brandelli di Icaro ... ); gli splendidi verde e blu terracquatici, sorta di liquido primigenio per nuove-antiche inseminazioni salvifiche (Festa sul prato, Merce cosmica ... ).
Disperazione e speranza, comunque indisgiungibili.
Nella produzione recente, Raffaele Spada opera una svolta profonda; non so se in parziale o radicale rottura con il suo passato artistico.
E' assai difficile, infatti, vivisezionare l'anima. Quando lo facciamo per i prodotti estetici (pittura e discipline plastiche, poesia, musica, ecc.), spesso dimentichiamo che essi sono sì oggettivazioni, ma dell'anima. E l'anima è sempre una, pure nel travaglio e nel fuoco di moti sussultori. E', dunque, processo che, ove smarrisse l'intima identità propria, si disperderebbe nell'indistinto, annichilendo.
Sicché l'analista perspicace del senso/non senso della vita e delle cose (realista tetragono e/o metafisico voyant) deve tradire, conservandosi fedelissimo.
Non c'è vera arte (e neppure ricerca coraggiosa in quanto innovativa) che non sia, in qualche modo, tradimento; che, cioè, non includa nel suo intento teoretico la de-composizione di schemi, la frantumazione sovversiva di gerarchie e canoni, l'implosione audacissima di codici cristallizzati e obsoleti, se "l'alba ènuova... ".
Raffaele Spada, sviando da mode reificanti, ha spinto le sue antenne dentro il cuore malato della modernità, captandone il disagio, il malessere e le inedite sofferenze. Egli ha compreso, mi pare, che le nicchie ideologiche (vale a dire i rassicuranti apparati categoriali tradizionali) sono inadeguati ad inquadrare il nuovo: sagome refrattarie a comprendere un presente complesso. Perciò è cresciuto cambiando ed ha impresso una torsione epistemica alla sua epopea narrativa, reinterpretandone le mitiche figurazioni espressive.
Nell'ordine estetico classico (misurato) e nella strutturazione cromatica e spaziale, prima inquietati solo di straforo, s'insidia e irrompe l'anomìa dissociativa del presente: contorni e distinzioni slabbrano in una densità materica rappresa, gelatinosa; resa dall'Autore caparbiamente in-significante, irredimibile da soccorrenti nostalgie, proprio al fine di recuperarne lo stato creaturale del genesi.
Il vecchio, gratificante Cosmos (anche valoriale) precipita in un Kaos ineluttabile, che non assegna centralità e salvezze a quei brandelli cellulari e denudati di umanità disorientata, attonita (Sogno di Ar, Fuga dal metrò ... ). Neppure l'elusivo risarcimento d'un fascio di breve luce (Programma conclusivo).
Tutto sembra gettato ad una fatale, irreparabile perdizione.
E' qui, però, che espressione formale e contenuto empirico nuovamente s'accordano; che, paradossalmente, l'apice catastrofico avvia impensati superamenti. L'intenzione artistica, tecnicamente corroborata, riscatta scorie di giustapposizione estrinseca, conciliando in un tutt'uno compatto e spiritualmente compiuto l'alogicità materica con la razionalità estetica. Mestiere e risultato trovano quella tregua avventurosamente agognata, quanto fecondamente provvisoria: l'innocenza colpevole (la felix culpa mefistofelica) s'acquieta in quella Itaca insediata, ma da cui balugina un raggio d'avvenire.
Flebile riappare quel fiabesco trattenuto: la favola del mondo e della vita continua. Più adulte, anche se spietate Cosmogonie s'affacciano, magiche di fluorescenze, all'occhio stupito dell'uomo che guarda.
Per la mano capace di Spada, Chimera ci trascina verso un sogno diverso.
paolo protopapa

 

Trecento anni, l'amano in pochi

A monte di qualsiasi prodotto dell'ingegno e della fatica dell'uomo c'è sempre una "storia nascosta", uno o più eventi che, solo se decifrati e collocati nel contesto socio-spaziale coevo, consentono di comprendere le ragioni e l'anima più profonda dell'opera stessa.
A Galatone, cittadina natale dell'umanista Antonio De Ferrariis Galateo, sita tra Lecce e Gallipoli, la tricentenaria chiesa del Crocefisso ha dietro di sé una serie di eventi che ne spiegano, significativamente, la genesi. Il Crocefisso galateo è uno dei monumenti più significativi del tardo barocco salentino nel quale l'arte si esprime in classiche strutture architettoniche ornate di una scenografia sontuosa ed esuberante. La chiesa ha compiuto in questi giorni i suoi trecento anni, festeggiati con sfarzo di luminarie, bande musicali, artiglierie scoppiettanti, e con la sacra rappresentazione del carro eleniano che commemora il ritrovamento della Croce. Ma non ci si è data alcuna pena delle sue strutture degradate e corrose, della sua affumicata quadreria, dei suoi splendidi manufatti lignei che denunciano l'impietosa erosione dei secoli.
Il Crocefisso - come imago pietatis oltre che come fabbrica sacra - è nel DNA dei galatei da sempre, costituisce anima e cuore della città, il suo miglior biglietto di presentazione.
Per onorarlo degnamente i galatei si sono tolto perfino il pane di bocca, ed ancor oggi, a prescindere dall'aspetto dissacratorio e negoziale, se ne contendono ad oltranza l'onore di portarne a spalla la statua in processione.
Occorre allora scavare nelle pieghe buie dell'età spagnola per rintracciare le radici di così profonda devozione.
Da quando la taumaturgica icona le si manifestò con prodigi, ma specialmente dagli inizi del Seicento, quella varia umanità galatea di circa tremila anime (contadini, artigiani, commercianti) che viveva i suoi giorni di stenti e di dolori, di torti e vessazioni, ricorse a quella pietosa effigie con fiducia e speranza, chiedendoLe sostegno nella battaglia quotidiana per la sussistenza, resa intollerabile dai rapaci prelievi baronali e dalle franchige ecclesiastiche. Lo stesso abbattersi di carestie e calamità, con conseguente peggioramento di un'economia già miserrima, viene attribuito, collettivamente, ai propri peccati per i quali i maggiorenti, il 1612, chiedono l'assoluzione e la remissione plenaria che il papa Paolo V concede con breve del 25 giugno.
La comunità ritiene, in tal modo, di esorcizzare la perdurante iattura con tre giorni di digiuno, confessione e comunione collettiva, e con oblazioni ai più indigenti del paese.
Ci si rivolge alla sacra Icona, anzitutto, per chiedere la grazia di stare bene; molti vengono anche da lontano.
Pertanto comincia a riversarsi a Galatone gente con caratteristiche specifiche identificabili con quella "cultura della miseria" di cui si legge in Oscar Lewis. Si trattava di povera gente con forte religiosità modellata su "criteri magico-popolari spesso del tutto pagani", alla stessa maniera di quanto avviene per il San Rocco di Torre Paduli (Montinaro).
Già nel 1625 il sac. Francescantonio Core registrò e pubblicò una lunga serie di prodigi dell'Icona galatea.
Su queste premesse nel 1623 sorge una chiesa ad opera degli artefici Sansone e Pietrantonio Pugliese, ma questa crolla rovinosamente appena sessant'anni dopo.
Il clero, a questo punto, attiva una vasta mobilitazione popolare gestendo con sagacia l'entusiasmo della gente. Lo stesso rapido rimontaggio dell'Icona ridotta in frantumi è spia di una "urgenza della ricostruzione" che mentre punta a dirottare anche i più svegli da legittimi dubbi circa le responsabilità del clero in ordine al crollo, ha il chiaro obiettivo di rivitalizzare il culto dell'lmmagine mediante la costruzione di un centro di spiritualità che attragga molti pellegrini con gli annessi vantaggi economici.
Col 1696, quando la splendida fabbrica viene terminata, i pellegrini affluiscono più numerosi e muovono verso la sacra Icona "con la lingua per terra".
Nel sontuoso edificio, pensato per suscitare intensa devozione congiunta a piacere visivo, si realizzano precisamente quelle forme di teatralità e di spettacolo che sono proprie della coeva pietà popolare.
Il suo interno è concepito in funzione della folla salmodiante che procede verso l'Immagine e deve vedere intorno a sé "ciò che può colpire, anche visivamente, la sensibilità" (Fonseca).
In seguito avviene a Galatone quel che viene osservato per Torre Paduli.
Folle di pellegrini-turisti di ogni livello culturale vengono al Crocefisso, spesso guidati dal bisogno di rifugiarsi "nell'irrazionale, nel miracoloso, nel magico, per mancanza di sicurezza e fiducia nelle strutture dell'attuale società" (Montinaro).
Così la fama del Crocefisso-icona e della sua insigne dimora si è diffusa ovunque.
Il Crocefisso, del quale si commemora il terzo centenario, è uno dei luoghi di culto più sontuosi della Terra d'Otranto.
Subito dopo il crollo della fabbrica precedente, il clero convoca uno staff di ingegneri - Angelo da Giuliano, Nicolò Lopes, Vito da Gallipoli, Giuseppe Zimbalo di Lecce - per dare un parere sul "disegno della nuova chiesa" presentato dal minore conventuale Fra Niccolò da Lequile (nome secolare Leonardo Melelli). Il frate godeva, peraltro, la fiducia del clero di Galatone dove il 1676 aveva progettato il convento degli alcantarini adiacente alla chiesa della Grazia. Ma Fra Niccolò si ferma alle sole planimetrie, che la commissione tecnica approva.
Colui che dà l'impronta artistica al Crocefisso è il più rinomato artifex dell'epoca, il leccese Giuseppe Zimbalo, detto "lo Zingarello", il cui nome figura nei registri contabili della chiesa dal 1683 al 1687. Dopo le fabbriche di S. Angelo a Lecce (1663) e di S. Teresa a Brindisi (1671-72) è nel Crocefisso di Galatone che risaltano i caratteri della koiné zimbalesca, qui impressi con accenti inequivocabili.
La chiesa fu aperta al culto il 21 aprile 1694, e completata il 1696.
Ha una facciata divisa in tre ordini da alte trabeazioni e da fregi plasticamente decorati, ed è divisa verticalmente in cinque campate da triplici paraste corinzie.
Nel primo ordine, ai lati dello stupendo portale realizzato il 1696 da Aprile Petrachi di Melendugno, si aprono quattro nicchie ornate con motivi cari al gusto zimbalesco in cui sono ospitate le statue lapidee dei quattro evangelisti. Contornata di cherubini, la statua a mezzo busto del Crocefisso che riproduce la tipologia dell'antica icona è collocata al di sopra del portale, sotto un arcaico ombracolo infiocchettato.
Verticali paraste composite scandiscono il secondo ordine: s'inseriscono, al centro una fastosa loggia centinata e chiusa da transenne, e, in nicchie laterali, le statue di S. Giovanni Battista e di S. Sebastiano. Brevi volute increspate di riccioli raccordano i primi due ordini e si concludono in stilobate reggenti le statue vigorose degli apostoli Pietro e Paolo.
Sobrio ed elegante, il terz'ordine culmina nello svettante fastigio spezzato; sui lati le capricciose volute di raccordo sopportano le statue degli arcangeli Michele e Gabriele; ingentilisce la campata centrale un'ornata finestra quadrata. Tanta generosa ornamentazione si giova degli effetti luminosi e cromatici rimandati dal carparo biondo che, sposandosi alla mielata pietra leccese, amoreggia col sole.
Complessivamente la facciata del Crocefisso, con la distinzione degli ordini, l'equilibrio distributivo delle campate, l'estro dell'invenzione decorativa, assembla tutto il composito repertorio lessicale dello Zimbalo: le punte lanceolate, i riccioli fioreali delle volute di raccordo, le volute flessuose soprastanti alle nicchie, e tutta la gamma di motivi che da oltre vent'anni rendevano caro lo Zingarello ad un clero e ad un patriziato di provincia totalmente omologato alla Spagna del Viceregno del Sud d'Italia. Ne esprimeranno convinti elogi il cardinale Orsini nel 1699 ("non si può dir quanto li piacque, et ammirò la manifattura della fabrica di detta chiesa") e il vescovo di Nardò Antonio Sanfelice, colto e competente, il quale ne rilevò nel 1711 "il maestoso frontespicio, tutto adorno di pietre scarpellate, con diversi fiorami, nicchie, cornicioni, statue".
L'interno del Crocefisso è un'elegante aula a croce latina scandita da due serie di quattro cappelle comunicanti e intervallate da paraste corinzie le cui trabeazioni ripetono i motivi floreali della facciata. Le prime tre cappelle di sinistra hanno altari e tele rispettivamente dedicati a S. Antonio di Padova, alla Madonna del Carmine e S. Biagio; gli altari delle cappelle dirimpettaie sono intitolati a S. Pietro Apostolo, alla Sacra Famiglia, alla Madonna del Buon Consiglio; il vano che segue su questo lato accoglie una porta laterale ed ha di fronte un basso portico su cui si collocano la cantoria e l'organo.
Varcato l'arco centrale, roso dal salmastro, si passa nel transetto dominato da un lunettato tamburo ottagonale che culmina in un cupolino: vi sono ospitati due altari maestosi: di S. Francesco di Paola a destra, con le insegne dei marchesi Pignatelli, e dell'Addolorata, a sinistra, con la civica fiamma galatea. Di sicuro gusto fanzaghesco è l'altare maggiore, che è solenne e fastoso, ingombro di santi, angeli, e figure allegoriche, e sproporzionato rispetto ad un presbiterio assai ridotto, coperto da una voltina lunettata a stucco.
Tutto l'interno brilla di fastose dorature eseguite da maestranze di paesi vicini (Lecce, Copertino, Gallipoli), secondo una concezione scenografica e teatrale, stucchevole e aggressiva anziché raccolta, al servizio della persuasione e dei consenso. Gli interventi decorativi si susseguiranno per tutto il Settecento mediante la acclarata "tecnica fanzaghesca e zimbalesca del montaggio di ricchi elementi decorativi prodotti fuori opera e assemblati secondo tecniche semplici, entro una linguistica accattivante e suscettibile di arricchirsi nel tempo" (Manieri Elia).
Lungo il perimetro della chiesa sono disposti numerosi dipinti di Aniello Letizia, un pittore napoletano della scuola di Luca Giordano, il quale si accasò a Galatone e qui visse fino alla morte, dipingendo per il Crocefisso dal 1716 al 1759; Letizia lasciò dipinti anche a Lecce e Alessano.
Al suo fervido pennello è dovuto, in grandissima parte, l'arredo pittorico della chiesa di Galatone, dalla livida enorme tela effigiante il miracolo dello Zoppo risanato da S. Pietro, alla serie di nove medaglioni ovali che sono sistemati tutto intorno al cornicione della navata e narrano momenti della vita di Cristo, a tre dei quattro medaglioni del transetto - il Primato di S. Pietro, la Samaritana, il Cielo realizzati nel 1759 - racchiusi in cornici di stucco, alla Veronica incastonata nel fastigio del maggiore altare (1742) e, finalmente, alle lunette dello stesso che raccontano l'invenzione e il recupero della Croce, ad opera, rispettivamente, di S. Elena e dell'imperatore Eraclio.
Completano questa ricca quadreria i dipinti di discepoli locali del Letizia, la Passione, la Cena, la Lavanda dei piedi (1758-59) di Felice Megha, e la Cena e la Lavanda (1776) di Vincenzo Prete, futuro genero del Letizia.
In tale affollatissima galleria trovano posto altre opere anonime e di scarso pregio, tranne quell'"opera di gran pennello" di Pietro Picca di Galatina che riproduce l'eclatante miracolo del 1621, del Crocefisso che sposta le tendine, ed è incastonata al centro del soffitto della navata, dal 1705.
Al lessico plurilingue della decorazione del Crocefisso contribuirono pure lo scultore Giovanni Saracino di Martano con le quattro statue che stazionano nelle nicchie dei pilastri angolari del transetto (S. Ambrogio, S. Gregorio, S. Agostino, S. Girolamo) disegnate dal grande Mauro Manieri tra il 1708 e il 1714, e il tarantino Donato Meroda che nel 1747 eseguì la policroma mensa del capoaltare, su progetto di Emanuele Manieri.
Ma la voce più squillante di questo coro di eccelsi artisti, la più vicina alle vedute e alle esigenze della committenza galatea, fu quella dell'intagliatore-scultore Aprile Petrachi di Melendugno (1637-1716), il quale lavorò al cantiere del Crocefisso, unitamente al fratello Titta e al nipote Diego, dal 1695 al 1706.
La valentia di "Maestro Aprile da Malandugno" è visibile tanto all'esterno quanto all'interno del tempio. La ricordata porta, scandita da cinquantaquattro riquadri rettangolari di diverse misure, esuberante di graziosi intagli a foglie e girali, si integra armoniosamente nella linguistica zimbalesca della facciata, pur con le rughe e le crepe della sua veneranda età che meriterebbero rispetto e amorevoli cure.
Ma è all'interno della chiesa che Petrachi esibisce tutto il ricco repertorio delle sue invenzioni esornative che, in sintonia con molti altri decoratori, realizza quello spartito di sonorità scenografiche che i committenti desideravano. Il suo soffitto-copertura della navata, autografo (1699), è un reticolo di sessantasei forme ottagone dorate e intagliate con fantasia e perizia che piacque così al Sanfelice come al Ricciardi il quale, nel 1901, rilevò compiaciuto "il sottocielo di bellissimo effetto a cassettoni in legno dorato a rilievo".
Il manufatto più accattivante realizzato dal Petrachi è, però, la cantoria con l'organo, ricca di intarsi che, specie nella cimasa datata 1699, assomiglia ad una leziosa scatola filigranata, ad una gentile vetrina floreale.
In sintonia col Petrachi, l'organaro Domenico Montedoro di Poggiardo forgiò i sette registri di canna dell'organo "con suo piede di legno di noce e d'apito perfettamente intagliati e lavorati a diversi fiorami et altre galanterie", siccome lo descrisse il Sanfelice nel 1711.
I candelieri d'argento e il corredo di tessuti liturgici donati dalla Famiglia Pinelli Pignatelli (nel 1633 e nel 1748), la legatura del messale in argento dorato e velluto rosso (1770), l'artistico confessionale del 1781, costituiscono altre tessere di questa esposizione museale proposta quale "tangibile e perenne miracolo da contemplare... quotidiana epifanìa sacra" (Cazzato).
Purtroppo il "bel" Crocefisso galateo presenta da tempo uno stato di degrado che cozza coi secolari suoi rapporti con la città: da anni gli viene negata anche la manutenzione ordinaria e funziona come centro di culto pressoché isolato ed estraneo ai fermenti culturali ed al pulsare economico della vita cittadina. Si assiste passivamente al suo lento declino, dimenticando che gli avi dovettero togliersi perfino il pane di bocca per costruirlo.
Un popolo vivo, pensoso delle proprie memorie, ha il dovere, invece, di lottare per tutelare e conservare il proprio patrimonio, per difendere l'identità delle proprie radici, affinché l'eredità dei millenni non cessi di circolare nelle sue vene.
vittorio zacchino


INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
M. CAZZATO, Architettura e religiosità popolare: osservazioni e documenti in margine alla ricostruzione della chiesa del Crocefisso di Galatone, in "Sallentum", VIII, 1985, n. 15, pp. 33-53.
C.D. FONSECA, L'"Atletica Penitentiale": alle origini della religiosità e della ritualità barocca in Puglia, nel volume La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano, 1982, p. 360.
O. LEWIS, La cultura della povertà, in "Centro Sociale", XIV, 1967, nn. 74-75.
M. MANIERI ELIA, Architettura Barocca, nel volume La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano, 1982, p. 107.
B. MONTINARO, Salento povero, Ravenna, 1976, pp. 89-92.
V. ZACCHINO, Note d'arte e di storia sulla chiesa del Crocefisso in Galatone, nel volume Studi di Storia Pugliese in onore di Nicola Vacca, Galatina, 1971, pp. 557-88.
V. ZACCHINO, Galatone: Società, pietà popolare, e mentalità in epoca barocca. Le vicende del Crocefisso (1621-1696), nel volume Paesi e figure del vecchio Salento, a cura di A. De Bernart, Galatina, 1989, pp. 185-232.
V. ZACCHINO, Per il terzo centenario del "bel" Crocefisso. Pagine documentali di una battaglia solitaria, Galatone, 1996.


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