(A
mio padre, in memoriam)
"S'io
era corpo, e qui non si concepe ... "
Dante, Par., II, 38.
"Ed io intorno
/ a te lo spazio per esser l'unica / ad accoglierti, al transito"
(1). Così si chiude l'inedito canzoniere (2) di Michele Pierri,
diffuso in "pochissime copie" fra "familiari ed amici"
dalla pietas del figlio Giuseppe, nel dicembre del 1996. Si tratta
di ventiquattro epigrammi disposti in forma amebea, l'uno a fronte
dell'altro, dove si incontrano due voci: nella pagina a sinistra,
quella dell'uomo (il poeta), nella pagina a destra, virgolettata,
quella della donna (la moglie Aminta).
Separate e parallele all'interno della finzione mitica, ambedue appartengono,
nella realtà del canto, a Pierri che queste liriche vergò
fra il 1981 e il 1984, ossia dopo la morte di lei e quattro anni prima
della sua, avvenuta in Taranto nel 1988. A sé stante Noi due
su un prato: enunciato liminare nella cui circolarità èracchiusa
la cifra tematica che schiude l'accesso al meandro morte-vita (3),
metafisico collante delle liriche successive, segno iconico di arcaica
tradizione orfico-pitagorea-magnogreca sussunta nella primordiale
tetriade degli elementi terra-acqua ("mare") - aria ("cielo")
- fuoco ("fiamma"):
Noi due su
un prato, anzi eravamo
il prato sulla terra.
Ma perché questa non - scienza
se eravamo il mare anzi in esso
e ne siamo usciti bramosi
del cielo, e la fiamma fu nostra,
anzi ci siamo dentro, sacra
famiglia delle ceneri.
Natura antinomica,
per inconsunte aporie, ha l'intera raccolta: dannazione-salvezza;
carne-spirito; tempo-eternità; umano-divino, noto-ignoto; finito-infinito;
tormento-beatitudine. A rappresentare il momento tetico è l'uomo;
quello antitetico, la donna. Archetipo biblico: Il Cantico dei Cantici.
Ma qui la drammatizzazione si risolve nel mistero del dolore, lì
della gioia. Dolore connesso alla scelta primeva, ché quotidianamente
si replica nello spazio familiare, fattasi "cenere" la felicità
edenica. In limine mi sembra, infatti, che si annuncino due tempi:
il prima e il dopo. Ne compongono i rispettivi campi semantici: "eravamo
il prato sulla terra", "non-scienza", "eravamo
il mare, anzi in esso", ossia l'indistinto informe ontico atemporale.
Quindi: "ne siamo usciti", sintagma connotatore dell'infra
come esodo nell'esistenza infera "bramosa del cielo" e della
"fiamma" simbolo di Eros, fatta "nostra" per ventura
di fine e di catarsi ("famiglia delle ceneri"). Ritorno,
dunque, per circolarità di vicenda, all'originaria interiorità
("ci siamo dentro") nullificante del Logos, Dio incognito
e naturante.
Similati preliminarmente Adamo-Eva Michele-Aminta nel comune destino
del dolore eterno-quotidiano, si apre il canto a due voci, il quale
si invera nella comune esperienza iugale di una vita inscindibile,
nonostante lo iato fra trascendente ed umano.
Considerando gli anni di stesura, queste liriche furono composte quasi
contestualmente a Ritratto di donna (Manduria, Lacaita, 1982), sicché
ne reiterano temi e figure, ferma restando la struttura tonale e metrica
dai "tropi vorticosi e rotti", medesimi nei "sintagmi
scorciati e fulminei" (4) della sintassi spesso franta nel ritmo,
prosciugata, ellittica, iperbatica di Pierri, speculare alla tormentata
enquête interiore, antimelica epperò lirica, fino all'autoreferenzialità
che qui coincide, invece, col dialogo del poeta con se stesso, finalmente
risarcito dalla funzione salvifica della Parola doppiata nel circuito
amebeo. Anche qui "carne, corpo, sostanza santificati, ma reali"
(5).
Iscritte nel contesto di quegli anni, ne assicurano continuità
ed esito sul piano della situazione emotiva nonché della gnosi
sacrale, ma sembrano avere struttura nuova intimamente organizzata
intorno alla bipolarità della voce. Non sapremo mai quale disposizione
bipartita avrebbe dato Pierri.
Postume quali sono, devono la loro adespota reciprocità alla
discrezione tutta soggettiva del figlio Giuseppe. Nonostante questo
limite di ordine strutturale e qualche altro sotteso alla necessità
di un'edizione critica, il Canzoniere ha una sua anima che lo compagina
ex interiore nell'unità sovrastrutturale del dramma "salvezza-dannazione",
dove l'umano resta umano, pur "sacralizzandosi" nell'assurdo
del peccato. E se dal peccato Aminta è immune, non lo è
dall'esperienza del dolore. Pareggiabile alla Madre di Ungaretti,
all'Annina di Caproni, garante del transito del poeta dalla cattività
alla liberazione ("Tu m'hai di servo tratto a libertate",
Dante, Par. XXXI, 85), non ha nulla dell'asettico splendore di Beatrice
("Poté, Dante, riconoscere / Beatrice senza corpo / [
... ] l'anima nuda e non altro. / Non così di te per me [ ...
] / entro in angoscia sognando di trascrivere, ponendo / il tuo nome,
la Commedia, / una bolgia indecifrabile" (6)). Resta corporea
nella luce, come Piccarda, segnata dalle stimmate del sangue vaginale
e dalla carne, epperò vergine "dal vel del cor giammai
disciolta".
In questa singolarità di figura si epifanizza la primaria qualità
del sacro interna alla poesia di Pierri, nutrita di neognosticismo
esclusivamente funzionale (si badi) alle ragioni del canto e destinato,
come vedremo, a dissolversi nella visione trinitaria di Dio. Allora
il poeta ci apparirà come un mistico sui generis il quale "[
... ]concepe / com'una dimensione altra patìo, / ch'esser convien
se corpo in corpo repe" (Dante, Par., II, 38-40). Nella fattispecie
spirito e carne, dolore e beatitudine. Misticismo che si congeda,
proprio perché tale, da ogni orizzonte di senso, ma non da
quell'"ospite inquietante" qual è l'angoscia, discrimine
metafisico fra le cose di "lassù" e quelle di "quaggiù",
come voleva la "cosmografia" di Platone.
Orfico mi sembra, in questa operazione di richiamo dell'Aminta da
un Ade-Paradiso (si ricordi la "Commedia-bolgia") alle regioni
della vita, il Pierri del canzoniere amebeo. Anabasi della donna per
assistere nel transito il suo uomo. Aminta è ossimoricamente
viva e morta ("siamo in vita in morte", Come la forma più
nostra, f. 19), ctonia e celeste, assurta in un sovramondo (qui la
qualità del sacro) nella cui luce non si estinguono le macchie
del sangue e della carne (Tra le valve, f. 7). Umana creatura celeste,
viva nella morte non nella surrealtà del sogno o dell'imago;
anima corporea nutrita di succhi terrestri. Ma è anche la superna
coscienza del poeta ("Guarda tu il male / imperante / nel mondo
come la potenza / in fieri che a morte feconderà / quegli anemoni
del bene", f. 11), figura impleta, simbolo concreto della Rivelazione
oscura di un Dio misterioso, silente; medium fra verità ed
errore dovuto alla caduta edenica. Questa medietà di Aminta
o del simbolo da lei incarnato (di fatto, il doppio del poeta nella
finzione mitico-soteriologica dell'arte) mi sembra una "forma"
trascendentale di conoscenza. E conoscenza per Pierri - come per Maritain,
Comi, Bo - vuol dire poesia.
Aminta è, forse, essa stessa il simbolo della poesia come rivelazione
espressa in forma di mito dentro un duplice ordine di confini: l'inattingibile
perfezione divina e il mondo. Con tutto il male (errore-dolore) che
lo informa. Questo dualismo tragico qui si oggettiva nella simulazione
amebea che, di fatto, è figura di due piani etici (il bene-il
male) entro i quali si consuma l'esperienza vitale del poeta. Aminta
èil miraggio della salvezza possibile, la sua parola è
viatico per il transito nell'imminente Infinito. In questa dinamica
della metamorfosi, la terra promessa si fa promessa della terra conservata
in un "ripostiglio celeste".
Semantizzano questo assunto le liriche Anacoreta e Tra le valve, dove
coesistono, mi sembra, totalità dell'Essere e sua implosione:
"[ ... ] e dei panni mi spoglio / per non indurli nella corruzione,
/ e spero come un verme riuscire / a entrare in una tua segreta /
pienezza di mela (7), farmi un nido / finché io non passi indenne
nella gola / felice del Signore dell'Eden" (Anacoreta, f. 6).
Si osservino i segni della clausura sepolcrale della carne "sacralizzata"
nella totalità ("Eden") e votata ad ascesa clandestina
come essenza ("verme" (8)) nella "gola felice"
del divino. Semantici del recinto che racchiude l'implosa scintilla
cosmica della carne: "segreta pienezza", "nido",
"gola", cui corrispondono, nel controcanto aminteo, "valve",
"unità", "interno", "ripostiglio".
L'ora del transito trafughi, sembra dirci il poeta, almeno un atomo
di noi, della nostra carne, del nostro quotidiano, perché viva
"quando i nostri corpi sicuri / si congiungeranno liberi / da
mutamenti nel nuovo divenire" (Tra le valve, f. 7).
L'"eresia" di Pierri è in questa parasceve dell'erranza
(il "divenire") escatologica, non iscritta nella prospettiva
del Paradiso ortodosso (e dantesco). Ne è simbolo la "perla
d'amore" (ibid.) "portata [da Aminta] nell'interno dell'anima"
oltre la frontiera del tempo e dell'umano. L'eresia si incorpora nel
segno del grembo (sepolcro-scrigno) muliebre celeste.
Della confusione e continuità terra-cielo si offre a segno
Fidanzamento d'anima (f. 8), dove il poeta vagheggia una mistica,
neoplatonica unione con la sua donna sull'"esempio di tanti matrimoni
/ tra i celesti e i terrestri / confusi all'orizzonte", ossia
sfumati nella memoria di antichi miti (es. Venere-Anchise). Ed ancora
Da qualcuno qualcosa (f. 10): "la realtà di morte ci accomuna".
Donde il corteggiamento di lei "nascosta [invisibile] nel bosco
[ ... ] dietro un tronco / non vista nel suo (9) primo splendore",
ma interna ("sei tanto dentro di me / che rotoli nella gola /
della mia bestia") fino ad annullare le distanze fissate dalla
morte ("non è allora essa il mostro"), prodigio inane
similato all'altrettanto inane "principe azzurro [il poeta]"
che non può "sciogliere" Aminta ormai crisalide "dallo
spesso cristallo della creazione", simbolo della purezza inconsunta
di lei, ab ovo creata senza macchia. Ritorna qui "l'archetipo
materno cristianamente storicizzato" (10), incarnato in Ritratto
di donna, confuse la Venere terrena e la Venere celeste, l'edoné
cinetica e catastematica, in una figura di Vergine tutta domestica
ed esclusivo nume del poeta.
Ne è semantica la "risposta" di Aminta (Incontri,
f. 13) alla domanda di lui ("E perché non rinnovare /
dopo tanta vita insieme / un fidanzamento d'anima / [...] senza visibile
/ meta finché sarò in vita?" f. 8):
Dopo io vorrò
offrirti un amore
pari a quello tra le persone
di Dio che nella compiutezza
delle loro doti di nulla
hanno bisogno.
Amore perfetto
e assoluto come quello che lega trinitariamente "le persone di
Dio". Ma significativo è il dopo: Aldilà che purifica
quanto sulla terra fu solo "annunciazione" (f. 13), ossia
la vita coniugale, vestibolo e "primo nostro incontro",
sicché non v'è frattura fra i due tempi (terreno-celeste)
confusi nell'acronia o metatempo di un'unica realtà: "Il
primo nostro / incontro [il matrimonio] ne fu l'annunciazione, / non
ad altro portava, già eravamo / nella gioia di Dio senza timore
/ delle distanze, un'anticipazione [ ... ]". Unico iato: l'irrompere
del dolore e del senso
e del patire
presto insinuatosi
della carne venne incrinata
quell'unità superba.
Ma l'archetipo
materno (Eva-Maria) si fa ancora più visibile in Tu donna di
sempre (f. 12), inno alla Moglie-Madre che ha tratto il poeta a verità:
"Dopo essere stata, e tante volte, madre / [ ... ] rivedrò
/ ammainare come una bandiera / il tuo vestiario di sera immortale,
/ tu donna di sempre che generato /m'hai prima che tu fossi, o mia
costola, / mia prima patita morte e prima / ch'io morissi". Nell'adynaton
del morire ante mortem, nei sintagmi "tu donna di sempre",
"mia costola" è semanticamente racchiuso un novello
(dopo Comi) canto per Eva, archetipo precristiano destinato a farsi
cristiano (Maria) quando "dal letargo si svicoli dei cieli /
e scenda il Monarca fecondatore". Terribile appare il ritardo
di un Dio (la fede inattinta, ma sperata) assente-dormiente [il "letargo"]
nei vincoli del cielo. Sul piano stilistico si osserveranno l'iperbato
("mia prima patita morte e prima / ch'io morissi") replicato
poco dopo ("dal letargo si svincoli dei cieli") donde la
specularità di tormento fra parola poetica ed epicentro lirico.
A partire dal decimo epigramma (Che cosa eravamo, f. 14), che convoca
il rimpianto con toni da Antologia palatina, compare il topos del
"nido" simbolo della perduta comunione domestica rievocata
nel canto a due voci con duplice prospettiva. Il punto di vista dell'uomo
si colora di orfanezza, privazione, assenza: "al superstite [passero,
è detto sopra] / ridotto un prigioniero, un numero / nella
vita, un augurio è la fine". Perduta è l'identità,
la reciproca appartenenza: "nell'essere / tu mia io sono qualcuno
/ e tu qualcuna, nell'essere / io cosa tua", donde l'ossimoro
"in questa servitù / siamo sovrani" e l'analogia
del "passero quando nidifica" se gli "distruggono,
numi o demoni / che siano, la casa", similati, nello scempio
della gioia, Dio e Satana.
Risponde Aminta, rinverdendo l'immagine di Piccarda: "[ ... ]
Ed alla violenza mi piegai d'obbligo / sicura di rifarmi poi nel nido"
(omologo del dantesco "velo del cuore", intimo ed esclusivo
chiostro verginale, lare nel lare comune) "su palafitte di sogni
e quando / fuori pioveva dentro distesi / da una parete all'altra
il candore / del mio bucato. Era il mio santuario / tra le lenzuola
senza macchia / che ho rimpianto nel letto d'agonia". Si osservi,
a parte la presenza di un sintagma sinestetico-analogico, il ricorrere
della parola chiave nido caricata di ulteriore interiorità:
sancta sanctorum, tabernacolo cordiale; nonché la metafora
del candore di bucato, delle "lenzuola senza macchia" in
cui è traslata la purezza indomabile del cuore, scisso il corpo
obbediente dall'anima compos sui per impossibile esproprio.
Nelle liriche XII e XIII, il dialogo slitta sulla sofferenza di Aminta
e sul possibile riscatto. Nelle parole del poeta la contemplazione
si fa rivolta verso un Dio terribile, signore del dolore e della morte:
"E' per te [Aminta] cosa spontanea / chiedermi [scil.: per me]
il perdono di chi [Dio] a morte / ti ha torturata e non ha / da rendere
conto a nessuno. / Concedo, ma i segni non dimentico / osceni nella
tua carne ad opera / dei suoi addetti alla giustizia", ossia
le penitenze inflitte dai suoi sacerdoti. Poi aggiunge: "Né,
credo, penserà Cristo / di bastare a compensare [scil.: né
presumerà Cristo di poter compensare] / rovine di quell'origine.
/ Sono titoli di credito / che per te serbo gelosamente" (f.
16).
Alla proposizione tutta umana, per logica e linguaggio, di far valere
questa sorta di agostiniano thesaurum fidei, risponde Aminta (ma,
in realtà, lo stesso Pierri con intento palinodico):
[ ... ] E'
moneta scaduta, non paga
neppur la barca in Acheronte. (f. 17).
L'inanità
della logica terrena (il dolore come prezzo del riscatto) si simbolizza
nei segni concreti, visivi, del linguaggio commerciale: "titoli
di credito", "moneta scaduta", "non paga",
"sanato", come, in altra lirica inedita (11), "è
valido il dolore", "ho già nella borsetta le monete
che occorrono / qui a coprire le spese" (dove ricorre un ipocoristico,
borsetta, già dell'Annina di Caproni in viaggio per l'Aldilà,
cfr. Ad portam inferi, v. 39), "gestione in attivo la nostra
/ mercé il dolore in due". Il dolore resta, dunque, assoluto;
non ha corrispettivo in un impossibile mercimonio con l'Oltre simbolizzato
in una qualità secondaria del sacro: l'obolo per Caronte.
Educato a questa coscienza, rivelata dalla parola di Aminta, il poeta
allora rinuncia alla logica terrena (ivi compreso lo gnosticismo)
per tendere misticamente verso Dio. Garante, e medium del transito,
la donna: "poiché scorrono i tempi / [ ... ] / dovrai
tu di persona / venire [ ... ] / per guidarmi a te la mano, prima
/ che [mi] numerino le ossa" (f. 18). Ma Dio resta avvolto nel
mistero: "Come la forma più nostra [scil.: più
umana] / del pensiero t'offro un amore / che se non è Dio'
è morte./ Tu accoglilo come l'uno / e l'altro - e non temere,
io t'amo / e dunque siamo in vita in morte" (f. 19). Struttura
trinitaria che ha il suo apice nella forza di Amore purificato fino
all'identità con Dio. Altrimenti, è quello stesso che,
in Dante, condusse Paolo e Francesca "ad una morte". Ma
anche in questa prospettiva esso amore è inscindibile:
io t'amo [
... ] in vita in morte.
Segue la rievocazione
(nostalgica nell'uomo, distaccata nella donna) del "fidanzamento"
poi matrimonio terreno. Terra e cielo restano, come ho già
detto, sempre contigui, complementari, reciproci. Banco di prova rimane
la vita realmente vissuta in comunione di anima e di corpo. Aminta
appare come nume salvifico per il poeta fin dal momento in cui gli
tolse "la libertà / di perdersi", ossia l'anarchica
ebbrezza del peccato o dell'errare lontano dall'Italia (nelle Americhe),
"conducendolo (12) / [da Paestum] quaggiù nella sua (13)
[di Aminta] città [Taranto], / fra i suoi (14) cari" (f.
20).
Qui l'ubi consistam, qui la sola "felicità possibile",
dice il poeta, "nell'isola dei tuoi occhi / che ai miei vizi
la superbia / ammansivano". Ma alla presenza succede l'assenza,
alla salvezza il naufragio simbolizzato dalla metafora della falla:
"si è stravolta / ogni cosa alla tua morte, / io la parte
a tutto aperta, / a imbarchi [ ... ] in alto mare o sulla sponda"
(f. 20). Replica Aminta, sfumando i segreti coniugali nel simbolo
dell'argilla archetipo della carne: "Due cocci, tu da Paestum
/ io da più giù, da una fiumana / della sorte un istante
congiunti / siamo all'uscita, presi dall'evento / impossibile solo
possibile / a Dio, se voglia restaurarci in un unico / vaso"
(f. 21), santificati dalla morte.
La metafora del vaso (Graal) ci collega alla lirica successiva, La
tua Terra Santa: "Passo ogni giorno dai luoghi / dove hai vissuto
e sofferto / [ ... ] / e sosto alle stazioni / del tuo Calvario e
Crocefissione [ ... ] / In ognuno di noi / c'è un Cristo sconosciuto
/ da amare che si rivelerà" (f. 22). Al pellegrinaggio
del poeta fa eco il tormento nella beatitudine di Aminta. Aporia che
così si esplicita nei versi di Non resta solo: "mi è
permesso / vederti in casa che stringi il mio niente / e ne patisco
anche nel Paradiso" (f. 23) "[ ... ] e benché / io
nulla possa aggiungervi / brucio dove bruci e nulla / di noi si consuma.
Credimi, / l'amore non ha scampo, / non riuscirà a morire"
(f. 25). Fusione di spirito e di carne, di tempo ed eternità
nel sinolo della dantesca "rosa / senza più polline",
dove "noi puri / nell'originaria sessualità / mai nella
diversità saremo di esseri accoppiati di luce o d'altra / più
insostanziata sostanza" (f. 24).
Il canto amebeo volge all'epilogo, imboccando con più forza
la strada che porta il poeta alla sua donna. E' un canto d'amore,
come invocazione e catarsi, sempre più umano. Aminta, come
Euridice, è prossima al ritorno nel suo Ade-Paradiso. E il
poeta: "Anche se vali nulla e nulla vale / la parola, continuerò
a parlarti" (dove la "parola" è l'energia numinosa
della poesia) "come a scriverti, anche se a nulla / si arrivi,
com'è aggirarsi / nelle tue stanze alla ricerca, / dove nel
vuoto vi farà quadrato / tutto il mio nulla" (f. 26).
Trascolora la gnosi per far posto a un sentimento di tenero abbandono
all'orfico (15) vagheggiamento dell'imago nel "vuoto" larario
che il miracolo della poesia colmerà ("quadrato")
di "nulla". Simbolizzata è la salvezza illusoria-reale
che l'arte (il canto) assicura foscolianamente, fatti "lieti"
(fecondi) "i deserti". Concorda Aminta: "sarà
/ come dirti che tu sia / ancora me che sono / tua rugiada e tuo rovo,
/ balsamo e imbalsamazione / ché saremo insieme un rogo / di
parole" (f. 27), dove si noterà l'ossimorica natura di
un amore che è rugiada fecondatrice e rovo infecondo, VITA
e MORTE fuse nell'aporia possibile solo all'interno della poesia.
E il fuoco ("rogo"), che è charitas e catarsi, ritorna
come segno di speranza e di salvezza "a sciogliere / il ghiaccio"
di "Geenna". Allora (parla il poeta) "libero dal tradimento,
io Giuda / bacerò di nuovo, ma nell'amicizia / del cuore, la
tua guancia" (f. 28). Lavacro del "tradimento" è
Amore, finalmente abile, perché purificato dall'assenza e dalla
prova, a ricondurre Admeto alla sua Alcesti, medesimi i meccanismi
del perdono.
Aminta si congeda (f. 29) e come Piccarda svanisce nella luce.
Quell'angoscia
per il vuoto
che sempre più di me senti,
in gioia dovrà mutarsi.
[ ... ] Ed io intorno
a te lo spazio per esser l'unica
ad accoglierti, al transito.
NOTE
1) Mio il corsivo, qui e all'interno di tutti i passi virgolettati.
2) M. PIERRI, Quaderno di poesie, (2), inedite, "confezionate
pochissime copie in casa per familiari ed amici" da Giuseppe
Pierri, Taranto 1996, ff. 29.
3) Diade già rilevata da O. MACRI', Un ritorno di Michele Pierri,
in "Questa città", II, 1 (1997), p. 7.
4) ID., L'incognita sacrale nella poesia di Michele Pierri, in "L'Albero",
XXXIX, 73-74 (1985), p. 62. Sullo stile di Pierri, mutato, rispetto
alla prima stagione del "linguaggio turgido", in "un
andamento epigrammatico secco", cfr. anche D. Valli, Debito per
Michele Pierri, in Dialoghetti appulo-lucani, Lecce, Milella, 1986,
p. 27.
5) O. MACRI', L'incognita, cit., ibidem.
6) Lirica inedita che leggo in ID., Un ritorno, cit., p. 7.
7) E' uno dei "minimi oggettuali-esistenziali" ricorrenti
nella poesia di Pierri, i quali sono "Portatori del massimo simbolico
e trascendentale", O. MACRI', L'incognita, cit., p. 71. Si veda
anche D. VALLI, Debito, cit., p. 26.
8) Cfr. sopra.
9) "Tuo" nel testo.
10) O. MACRI', L'incognita, cit. p. 71.
11) Anche questa in ID., Un ritorno, cit., ibidem.
12) "Conducendomi" nel testo.
13) "Tua" nel testo.
14) "Tuoi" nel testo.
15) Sull'orfismo di Pierri si veda G. CHIAPPINI, Alcune ipotesi intorno
all'itinerario orfico-cristiano in "De consolatione" di
Michele Pierri, in "L'Albero", XXXIX, 73-74 (1985), pp.
83-92.