GLI ANNI DEL REAME




Ada Provenzano, Gianna Dobici



Si crede comunemente che il primo sovrano borbonico a regnare su Napoli sia stato Carlo, dal 1734 in poi. Non è così. Fu invece suo padre, Filippo, nipote di Luigi XIV di Francia e pronipote di Filippo IV di Spagna. Carlo II, figlio dello stesso Filippo IV, era morto di morte annunciata in giovane età, il primo novembre 1701, senza lasciare eredi. Lo si prevedeva da almeno una decina di anni, per la sua gracile costituzione fisica. Fu Carlo II a designare suo erede e successore nella corona di Spagna il diciassettenne Filippo di Borbone: designazione che scatenò quella guerra di successione che insanguinò l'Europa per tre lustri e ne mutò la geografia politica e la gerarchia di potenza. Il nuovo re di Spagna (col nome di Filippo V) fece anche un breve viaggio a Napoli, dal 17 aprile al 2 giugno del 1702. Era la prima volta che un sovrano spagnolo si recava a Napoli, dopo il soggiorno di Carlo V nel lontano 1536. In seguito, le vicende della guerra portarono nel 1707 alla fine dell'appartenenza di Napoli, dopo ben 204 anni, alla corona spagnola. Fino al 1734 vi regnò l'altro ramo degli Absburgo, quello viennese, che dovette allora cedere il regno a Carlo di Borbone, primogenito di Filippo V e della sua seconda moglie, Elisabetta Farnese.
A sua volta, Carlo restò re di Napoli e di Sicilia fino al 1759, quando, venuta a mancare una discendenza di primo letto di Filippo V, divenne a sua volta re di Spagna (col nome di Carlo III, lo stesso con cui si è soliti ricordarlo a Napoli). Nei primi anni del suo regno a Napoli era rimasto completamente sotto l'influenza e la tutela del padre. Persino le trattative per le sue nozze con Maria Amalia di Sassonia erano state condotte da diplomatici spagnoli, come spagnoli erano stati gli uomini più potenti a corte, dal Marchese di Montealegre al Conte di Santo Stefano. Dalla Spagna erano pervenute anche le istruzioni per avviare la gestione delle finanze da parte del nuovo sovrano il quale, del resto, nel 1734 aveva soltanto diciotto anni. Solo a partire dalla metà degli anni '40 Carlo cominciò a sottrarsi alla direzione di Madrid, determinando la nomina del Marchese Fogliani, di Parma, alla direzione del governo, e quella di Leopoldo de Gregorio, poi Marchese di Squillace, a quella delle Finanze, al posto di Giovanni Brancaccio, altro uomo di fiducia della corte madrilena.
Passato Carlo in Spagna, gli successe il secondogenito (il primogenito essendo sempre destinato al trono spagnolo), Ferdinando IV. Su di lui e sul regno Carlo ripristinò da Madrid l'invadente tutela spagnola attraverso un abile quanto fidato ministro, il toscano Bernardo Tanucci. Poi il matrimonio di Ferdinando con Maria Carolina, una delle varie figlie di Maria Teresa d'Austria, divenne anche uno stimolo a crearsi una personale autonomia. Nel 1776 Tanucci fu licenziato. Ma con gli anni '80, anche quando venne nominato ministro il napoletano Domenico Caracciolo, il sopravvento nel governo restò in pugno ad un altro straniero, l'inglese John Acton, fortemente appoggiato dalla regina, che a sua volta aveva acquistato un'influenza decisiva sul marito e di conseguenza un peso considerevole negli affari dello Stato.
Questa breve cronistoria dimostra alcuni importanti dati di fatto: i Borbone capitarono a Napoli perché ve li destinò il gioco della grande politica europea, (anzi, fino al 1748 la loro permanenza sul trono partenopeo restò alquanto aleatoria); il ramo borbonico napoletano fu tenuto a lungo in soggezione da quello spagnolo, e sotto Carlo e Ferdinando fu costretto per due volte a guadagnarsi una sua autonomia (persino il ramo principale della Dinastia, quello francese, considerava quello di Napoli con degnazione, quasi si trattasse di parenti "a parte", cadetti e minori, da proteggere); i più influenti ministri della monarchia per sei o sette decenni non furono napoletani, ma stranieri o provenienti da altre aree italiane.
Come si spiega, allora, che proprio questo primo periodo dei Borbone di Napoli sia rimasto nella storia della città e dell'intero Mezzogiorno della penisola come un'età luminosa e importante? La risposta, sostiene lo storico Giuseppe Galasso, non è poi così difficile, se si pensa che i Borbone arrivarono a Napoli in un'epoca in cui già da tempo, già da prima che andassero via gli spagnoli, nel Sud era iniziato un grande moto di rinnovamento intellettuale e sociale. Perciò, i nuovi sovrani poterono avvalersi delle energie di un Paese che andava crescendo nelle sue possibilità e nelle sue capacità, nella sua volontà di conoscersi e dunque di migliorare, nella sua considerazione di sé e nella fiducia in se stesso. Correndo il rischio dello schematismo, ma pur sempre con un fondo di verità, si può dire che non furono i sovrani borbonici a rendere grande la Napoli del Settecento, ma, al contrario, fu questa Napoli a dare loro la possibilità di giocare un ruolo anche superiore alle loro capacità e a conseguire una fama superiore ai loro meriti. Fuori dallo schematismo, si può affermare che non è un caso che la cultura e la società poterono facilmente legarsi ai nuovi sovrani, riconoscerli come proprio sostegno e come proprio riferimento ad ogni effetto, nutrire a lungo per essi sentimenti di devozione e di affetto.
Tra la nuova Dinastia e il Paese si saldò, infatti, e rapidamente, un forte circuito di cooperazione e di sinergia. Imponente fu il patrimonio delle opere pubbliche e delle "reali delizie" che nella capitale e intorno ad essa soltanto annoverò il Teatro di San Carlo, i palazzi reali di Caserta, di Capodimonte e di Portici, l'Albergo dei Poveri, il Foro Carolino (oggi Piazza Dante), i grandi edifici dei Granili, l'abbellimento della prima e maggiore parte dell'attuale Villa Comunale. Né meno grandiosa fu l'attività di riforma legislativa, amministrativa, istituzionale, sia nel campo culturale che in quello economico, politico, sociale. L'Università, massimo luogo di formazione della classe dirigente meridionale, venne riformata due volte, e nel 1754 vi fu istituita la prima cattedra europea di Economia Politica. Venne creato un Orto Botanico, furono promossi gli scavi di Pompei e di Ercolano, che diedero a Napoli un rilievo scientifico e turistico più unico che raro. In connessione con essi, furono istituiti l'Accademia Ercolanese e ]'Officina dei Papiri, altra e non piccola gloria tutta napoletana. Furono costituiti i primi nuclei della Biblioteca Borbonica, poi Nazionale. Come eredi dei Farnese, i sovrani portarono a Napoli una gran parte delle eccezionali collezioni di quell'illustre casa italiana, e in questo modo, con i bronzi ercolanesi, furono formati quelli che poi sono diventati, con successive acquisizioni, la Galleria di Capodimonte e il Museo Nazionale. Fu ugualmente fondata un'Accademia delle Scienze; nacque, ed ebbe un successo che perdura, il Collegio Militare della Nunziatella. Curatissima fu l'attività musicale, grazie alla quale Napoli eguagliò i fasti di Vienna e delle maggiori città europee.
Non minore fu l'incoraggiamento alle attività economiche, con trattati di commercio, con la nascita del Banco di San Carlo, con il nuovo Tribunale di Commercio, con un inizio di riscatto del debito pubblico attraverso l'aumento delle entrate senza aggravio di nuove tasse, con iniziative del tutto particolari, come la fabbrica di porcellane a Capodimonte e il setificio di San Leucio. Si attivarono un esercito e una marina, piccoli l'uno e l'altra, ma entrambi, e soprattutto la marina, molto apprezzati. Si cercò di innovare e soprattutto di codificare la legislazione, costringendo i magistrati a motivare le sentenze, mentre venne di fatto omesso il ricorso alla tortura, così come si fece per la censura al fini della libertà di stampa. Nel 1741 con la Chiesa si ebbe un famoso Concordato, con il quale fra l'altro venne fissato in un millesimo il rapporto del numero dei chierici sul totale della popolazione. La struttura del governo venne riformata, avviando il sistema ministeriale moderno.
Si era anche nell'epoca del pieno fiorire dell'Illuminismo e del riformismo di quel secolo, e Napoli seppe tenere allora il passo con le più generali tendenze della vita e della cultura europea. I suoi intellettuali - da Giannone a Genovesi, da Galiani a Filangieri - furono di ciò la vivente coscienza e un'eloquente dimostrazione. E anche in questo la monarchia si dimostrò sensibile e preziosa.
E tuttavia i problemi del piccolo, povero e arretrato Paese che in Europa era il Mezzogiorno restavano ancora molto lontani da un reale e programmatico avvio a soluzione. Galanti, che descrisse il Regno in un'opera memorabile, consegnò intorno al 1790 un quadro impressionante sia delle sue condizioni sia di ciò che esso attendeva, a partire da una radicale riforma del sempre vigente sistema feudale e dai persistenti privilegi della capitale rispetto alle province.
I mesi intorno al 1790 furono cruciali per il destino del Regno. In quel torno di tempo l'accordo tra monarchia e classe dirigente, e in particolare quella intellettuale, sull'onda del 1789 francese, si incrinò in una maniera che in seguito si sarebbe rivelata irreversibile. La parte più attiva del Paese, infatti, si volse a guardare a Parigi rivoluzionaria, mentre la monarchia borbonica si schierò immediatamente con l'Europa monarchica antirivoluzionaria.
Gli effetti di questa spaccatura si palesarono in tutta la loro gravità nel 1799, quando quella parte più attiva entrò in aperto conflitto con la monarchia, e ne fu tremendamente punita, alla caduta della breve e gloriosa Repubblica di quell'anno, con una repressione sanguinosa che non poteva essere giustificata da nessuna considerazione di diritto e, meno che mai, dal più ovvio senso dell'opportunità e di una sia pur minima lungimiranza politica. Un numero abnorme di esecuzioni capitali macchiarono a pelle di leopardo il Reame, che in questo modo si tagliò testa e pensiero, intelligenza e modernità. Immagine emblematica di questa insopportabile violenza, della quale il Paese pagò il prezzo proporzionalmente più alto in Europa, con conseguenze nefaste protrattesi a lungo, è probabilmente quella della Sanfelice in carcere, di Gioacchino Toma, portata al patibolo senza appello dopo aver simulato per mesi un'inesistente gravidanza: morte inutile, voluta da un Re sordo ad ogni sentimento umano e tutto chiuso nella sfera di una ferrea reazione.
Quando, nel 1806, Napoleone cacciò di nuovo i Borbone e mandò a Napoli come Re dapprima il fratello Giuseppe, e in seguito, nel 1808, il cognato Murat, lo si poté capire anche meglio. I dieci anni dei due francesi operarono una trasformazione giuridica e civile che non solo rese giustizia alle aspirazioni dei rivoluzionari del '99 e le rese storicamente vincitrici, ma fece del Regno un caso importante di ciò che era accaduto e stava accadendo in Europa nel tramonto dei vecchi regimi monarchici. Giuseppe e Murat, tuttavia, non sono ricordati dai napoletani e in genere dai meridionali fuori dagli ambienti più colti e di più aperti spiriti liberali, malgrado i loro meriti (si pensi alla rete stradale realizzata da Murat, che tolse dall'isolamento millenario centinaia di paesi e villaggi), e sebbene anche ad essi Napoli sia debitrice di opere e di iniziative cospicue, eseguite in così poco tempo: in due soli lustri, e con la collaborazione delle intelligenze napoletane scampate alle forche, a partire da Vincenzo Cuoco.
Era anche questa, sia chiaro, un'opera promossa da circostanze e da forze esterne. Tuttavia, era congruente con l'animo più nobile e dinamico del Paese, ancor più di quanto lo fosse quella dei primi due sovrani borbonici. E di questo ci si accorse subito, quando i Borbone, ritornati, non poterono evitare di tenerne conto, e non soltanto per imposizione delle potenze vincitrici di Napoleone: la forza delle cose e la nuova presa di coscienza del popolo li costrinse a mantenere le riforme introdotte.
E tuttavia era anche questo un compromesso insincero da parte del vecchio Ferdinando, i cui ultimi anni di regno furono il non lieve rovescio dei primi decenni. Per cominciare, al fine di ritirare la Costituzione che era stato costretto a concedere nel 1812 in Sicilia, dove pure si era rifugiato, protetto dalla flotta britannica, trasformò i due regni al di qua e al di là dello Stretto di Messina nell'unico Regno delle Due Sicilie, il che lo fece diventare Ferdinando I da Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia che era stato. Fu l'inizio di un risentimento siciliano molto forte, che non si sarebbe mai più placato. Sia la monarchia nel 1820, nel 1848 e nel 1860, sia i liberali napoletani nel 1820 e nel 1848, avrebbero pagato per questo un prezzo rovinoso. Le possibilità di creare un'unica nazione siculo-napoletana nell'ambito del nuovo Regno inventato dal Re erano già assai scarse, dato il fortissimo senso autonomistico degli isolani, mai venuto meno da quando, nel 1282, con i Vespri famosi, avevano rotto l'unità originaria della monarchia meridionale. Ma, se mai una possibilità vi fosse stata, il vecchio Ferdinando ne provocava, con la sua decisione del 1816, una definitiva aleatorietà. Quando poi nel 1820 i vecchi muratiani e i nuovi liberali insorsero e gli strapparono la Costituzione, non esitò a tradire la parola data e chiamò gli austriaci a ripristinare il suo neoassolutismo. E di qui, nuovi esilii, carceri, e soprattutto un altro divorzio con la parte più viva e creativa del Paese. Peggio accadde sotto il suo successore Francesco I (1825-30). Solo con Ferdinando II, dopo i primi anni del suo regno, le cose parvero poter mutare.
Il nuovo Re aveva un senso dei suoi doveri di sovrano molto più ispirato a senso di responsabilità e a una certa percezione delle esigenze di modernità del Reame che non il nonno e il padre. Dalla fine degli anni '30 si fecero non pochi progressi: prima ferrovia e prima stazione ferroviaria, e prima nave a vapore in Italia; prima illuminazione pubblica a gas al posto di quella ad olio; promozione di imprese industriali meccaniche, tessili, metallurgiche, di cantieri navali, di trasformazione dei prodotti agricoli... L'atmosfera politica restava molto chiusa e l'ortodossia ideologica del regime rimaneva bigotta e assolutista.
Nell'opinione pubblica del tempo il Reame non era considerato così sicuro come appariva. Per i liberali e, ancor più, per i democratici e i repubblicani mazziniani, il Sud appariva addirittura come la terra promessa della rivoluzione, e l'infelice spedizione calabrese dei Fratelli Bandiera nel 1844 lo comprovò. Napoli e il Sud rivelavano, però, una vitalità scientifica e intellettuale straordinaria. Sembrò allora possibile che, prima o poi, tornassero i fausti tempi della Napoli illuministica e napoleonica. Non fu così. Né forse poteva essere. Ferdinando II era, come abbiamo detto, un sovrano energico e coscienzioso, ma la sua indubbia devozione ai doveri del suo mestiere di re, per cui può essere considerato il migliore dei Borbone di Napoli, non si accompagnava ad una piena rinuncia a far prevalere gli interessi di potere del suo assolutismo sugli interessi generali del Paese.
Lo si vide con chiarezza nel 1848. Anche Napoli e il Mezzogiorno partecipavano ormai da tempo e largamente ai movimenti nazionali e alle richieste di libertà politica comuni a tutta l'Europa. Il Re, all'avvicinarsi della tempesta di quell'anno, giocò d'astuzia e, primo fra i sovrani italiani, di sua iniziativa concesse la Costituzione, ma fu anche tra i primi a fare marcia indietro, reprimendo nel sangue con i suoi mercenari svizzeri, il 15 maggio, l'agitazione liberale e nazionale, dopo aver ritirato le sue truppe dalla guerra contro l'Austria, alla quale aveva aderito.
Fu un grandioso regalo ai Savoia, che rimasero allora i soli campioni della causa nazionale e liberale in Italia. Soprattutto, poi, fu la causa della separazione confliggente e definitiva tra la monarchia e la più avanzata coscienza civile del Reame. Prese piede da allora la convinzione che un accordo sincero per la libertà, se non per la causa italiana, non fosse assolutamente possibile con una Dinastia che per la terza volta in mezzo secolo marciava contro il meglio del Paese e per la seconda volta (ma terza, contando il caso siciliano del 1812) tradiva la parola data e la Costituzione convenuta. E fu allora che personalità napoletanissime si misero sulla via di una conversione della plurisecolare sovranità napoletana in elemento partecipe e costitutivo della più grande nazione italiana, nel cui seno Napoli era, del resto, sempre vissuta. Fu un travaglio profondo, e per molti anche doloroso, ma riscattato e illuminato dalle grandi idee nel cui segno si svolgeva.
Questa volta Ferdinando II non percepì la profondità della crisi e la radicalità dei suoi sbocchi potenziali. Continuò a governare dopo il '48 con la consueta energia e applicazione, dando luogo ancora a varie iniziative e opere pubbliche, ma senza più l'implicita apertura dei momenti più felici. Certo, la sua politica negli anni '50 non trovò più il credito di vent'anni prima, neanche a livello internazionale, e soprattutto in Inghilterra, il cui atteggiamento era allora decisivo in Europa. Inoltre, il Re si lasciò ulteriormente inasprire dall'attentato di Agesilao Milano (1856) e dalla fallita spedizione di Pisacane (1857). Dovevano essere, invece, campanelli d'allarme: significavano che il Reame continuava più che mai ad essere considerato l'anello debole delle resistenze conservatrici e antinazionali in Italia.
E si giunse così al 1859, quando c'era sul trono non più lui, ma il suo giovane figlio Francesco II, certo a lui non pari per esperienza e personalità. In quell'anno i Savoia, con l'aiuto determinante di Napoleone III, conseguirono i successi mancati nel '48. Con essi, si affermava la causa italiana, ancora aperta, tuttavia, a un'eventuale soluzione federale. Invitato a unirsi ai Savoia nell'azione liberale e nazionale, ma diffidando di Torino e di Cavour, Francesco si chiuse in una politica isolazionistica che non aveva la forza di reggere.
Egli guidava un Paese con una buona amministrazione e senza problemi di finanza pubblica, nonché con un buon esercito. Ma era anche un Paese meno sviluppato di altre parti d'Italia; l'ordine delle finanze pubbliche era il corrispettivo dell'assenza di una politica di grandi infrastrutture e di sviluppo; le iniziative di avanzate realizzazioni tecniche ed economiche rimanevano fatti isolati senza capacità, e neppure possibilità, di trascinamento e di induzione di un ulteriore sviluppo; il movimento commerciale e finanziario era dominato dagli stranieri. Chi avesse fatto un bilancio dei problemi di modernizzazione del Sud nel 1860 avrebbe potuto rettificare solo di poco la cruda diagnosi di Galanti del 1790.
Anche con un re come Ferdinando II la preoccupazione della tranquillità dinastica e la renitenza a organiche riforme di struttura erano state le direttive della strategia politica e sociale della monarchia.
Ferdinando, insomma, era un sovrano tutt'altro che aperto alle sfide e ai rischi della modernità. Il figlio Francesco non aveva, come abbiamo rilevato, la personalità del padre; e, oltre a trovarsi di fronte a tutti i problemi strutturali del Reame, ereditava anche una situazione politica molto deteriorata per la forza acquistata nel Paese dal movimento nazionale e liberale, malgrado tutti gli esilii e le repressioni, per l'insanabile questione siciliana, per i clamorosi sviluppi della questione italiana che nell'estate-autunno '59 portavano all'annessione della Lombardia, dei Ducati Padani, dell'Emilia, della Romagna e della Toscana al Piemonte. Il giovane re perseguì nella linea immobilistica del padre, pur trovandosi di fronte a difficoltà crescenti persino con i mercenari svizzeri. Vittorio Emanuele Il lo incitò inutilmente ad agire prima che fosse tardi. Non valsero neppure i consigli della bella e intelligente moglie, Maria Sofia di Baviera, sorella della celebre Sissi, e accanita nemica di Cavour. Il Re concesse la Costituzione quando ormai era più che troppo tardi. In Sicilia, per l'irriducibile renitenza dell'isola ai Borbone, nacque la situazione che portò alla spedizione dei Mille, al fulmineo successo di Garibaldi e alla fine del Reame.
Tutto allora cadde come un castello di carte intorno al giovane Re, che si comportò tuttavia con dignità, e spesso anche con fermezza, sebbene lo avessero lasciato solo anche gli uomini su cui si riteneva che la causa borbonica dovesse più contare, come il vecchio generale Carlo Filangieri, che aveva represso la rivolta siciliana nel '48, e come quel Liborio Romano che, chiamato dal Re nel suo ultimo governo, divenne il liquidatore del Reame. Gli rimase vicino e fino all'ultimo fedele solo il nucleo dell'esercito, che si batté con onore sul Volturno, a Gaeta, a Messina, a Civitella del Tronto: l' "esercito di Francischiello", epiteto idiotamente appioppatogli dagli zelanti storici sabaudi, in realtà espresse sul campo memorabili atti di valore, come già sapevamo dalle pagine dell'Alfiere, di Carlo Alianello, il romanzo che vide la spedizione dei Mille, ma dall'altra parte, quella borbonica; e come ha sostanzialmente confermato Arrigo Petacco, in La regina del Sud, che narra i giorni dell'assedio di Gaeta e della caduta della piazzaforte dopo i massacri compiuti dal cannoni delle navi di Persano con canna rigata, usati in Italia per la prima volta.
Si è detto che aveva vinto una ragione storica superiore, anche se poi il Sud si sarebbe trovato alle prese con la "questione meridionale", tuttora irrisolta, e persino negletta. Si è detto e si ripete anche che non è un caso se ancora nell'Italia contemporanea il Sud si trovi schierato quasi unanimemente sulla linea dei sentimenti unitari più forti e della maggiore renitenza alle spinte secessioniste. Ed è vero. Ma è vero anche che alla memoria dei Borbone una parte del Sud è rimasta; anzi, si può dire che negli ultimi due o tre decenni il filoborbonismo sia stato riscoperto o è nato ex novo, soprattutto come effetto della storia vissuta dal Sud nell'Italia unitaria e di problemi antichi e nuovi inaspritisi in questi anni, per cui il passato diventa anche materia di rivalsa e di giustificazione.
Ed è sintomatico anche che nessuna nostalgia e nessun mito borbonico si ritrovi in Sicilia, che pure era un'importante parte della monarchia. La stessa nostalgia sudcontinentale, fra l'altro, guarda soprattutto ai Borbone del Settecento, più che a quelli del secolo successivo; a Carlo e al giovane Ferdinando IV e, con un salto notevole, a Francesco Il e a Maria Sofia; e, con giudizio critico diverso dal passato, al cosiddetto "brigantaggio" che ora timidamente si riconosce vera e propria guerra civile.
E' giusto che si proceda a una rilettura della storia del Sud in chiave di interpretazioni oggettive, avulse dagli schemi ideologici datati e di parte. Quell'epoca rappresentò un'ora molto bella sia nella storia della monarchia che in quella della Dinastia, e costituì un patrimonio culturale, morale, scientifico che diede modo a Napoli, a Palermo e al Sud di figurare, malgrado gli enormi problemi che incombevano, nelle prime file della storia della moderna civiltà italiana ed europea.


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