"Egregio
dr. Barbieri, leggo con interesse i suoi articoli sulla fotografia.
Ma ora ho un riscontro opposto rispetto a quanto, in estrema sintesi,
mi sembra che lei sostenga. Ed è questo: sull'Espresso del 10
ottobre '96, recensendo un libro di narrativa memorialistica, Angelo
Guglielmo afferma che una delle difficoltà in cui si scontrava
(e si scontra) la narrativa di oggi era (e continua ad essere) nella
perdita di quel ruolo cui il romanzo ottocentesco aveva affidato una
parte delle sue fortune: il ruolo di essere testimone di un'epoca di
cui sapeva offrire una preziosa documentazione. E prosegue: "Poi
era arrivata la fotografia e più ancora il cinema e infine l'informazione
di massa, e quel ruolo era andato perduto e con esso era andato perduto
il romanzo. E continuo a credere che così - con buona pace di
chi pensa che il tempo passa e nulla cambia - sia accaduto. Ciò
di cui tuttavia oggi dubito è che fotografia, cinema e giornalismo
di massa siano capaci di svolgere, con uguale autorità e completezza,
quella funzione di riconoscimento di un'epoca cui una volta provvedeva
la narrativa scritta. Cinema e giornalismo, strutturalmente costretti
a forme immediate e semplificate, non sfuggono a una certa inevitabile)
approssimazione o comunque a restituzioni generiche". Dunque, è
solo alla scrittura narrativa, e più precisamente memorialistica,
che la Storia affida il dovere di testimoniare, cioè il compito
di dare del passato un'immagine particolareggiata, soprattutto in un
affresco generale. Alla fotografia (come al cinema e al giornalismo),
resterebbero territori parziali, insufficienti e in ultima analisi inaffidabili,
per la conoscenza autentica di quella Storia. Ma è proprio così?
Che ne pensa in merito? La ringrazio per l'attenzione che vorrà
dedicare al tema e la saluto cordialmente.
Roberto Apolloni".
Il signor Apolloni,
con le considerazioni a lato esposte, offre l'occasione per riprendere
il discorso riguardo al rapporto tra l'immagine (fotografica o cinematografica)
e la storia.
Un'interessante risposta e approfondita analisi sul binomio cinema-storia
può trovarsi nel saggio di Giuseppe Gubitosi, Rossellini dal
cinema alla storia - Studi in onore di Paolo Alatri II - L'Italia
contemporanea, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991. Egli
rileva che negli anni Sessanta, in effetti, l'opinione diffusa tra
gli storici sosteneva che "il mezzo cinematografico non potesse
essere utilizzato per ricostruire il passato" riconoscendo ai
film il valore di fonti per la conoscenza storica. Vent'anni dopo,
e tuttora, il convincimento è mutato e, a proposito, egli cita
Carlo Ginzburg, Bernardino Farolfi, Lucio Villari, Piero Melograni
e Duby.
L'invenzione poetica, che si incontra con i dati, i documenti e le
informazioni frutto di una ricerca storica, realizza e manifesta l'attrazione
reciproca tra storia e cinema. La fotografia è, non solo a
mio parere, già per sua natura documento e, quale traccia dell'esistito,
segno della storia. Si deve inoltre considerare che un insieme di
"segni", dalla scrittura al computer, è sempre stato
la forma della rappresentazione e della comunicazione, ed ogni comunicazione,
compresa quella orale, avviene tramite "immagini" (nel senso
ad esse attribuito dalle note sull'immagine fotografica in questa
Rassegna), persino a formare concetti astratti i quali presuppongono,
si spiegano e si espongono dalla, e sulla, base di esperienze, di
vissuto, di "visto".
Ma, nell'insieme delle narrazioni, una forma di comunicazione può
prevalere sulle altre a seconda della cultura, del costume, della
capacità ed efficacia espressiva, dello sviluppo temporale;
la Storia, cioè la testimonianza, può tramandarsi con
i "segni" e nelle forme ponderalmente più opportune
e adeguate ai tempi e alle società. Ogni distinzione gerarchica
delle espressioni serve, ormai, solo a superflue ed interessate polemiche.
Riprendendo il filo delle riflessioni, occorre premettere che la permanenza
delle immagini, che come si è visto ha richiesto tanto tempo
e ha impegnato tanti ricercatori, richiede, innanzi tutto, un supporto
fisico sul quale le immagini vengano impresse e, quindi, la loro conservazione.
I luoghi e i modi in cui avviene questa conservazione sono rappresentati
dagli archivi, ovviamente, nel nostro caso, fotografici; essi formano
la raccolta dei prodotti nel tempo e cioè divengono il luogo
della memoria e in molti casi della storia.
Abbiamo visto come la fotografia, al contrarlo di tutte le altre rappresentazioni,
sia la traccia della realtà, l'indizio di ciò che esiste,
seppure sentito, elaborato, interpretato, "vissuto" e mediato
dal fotografo. Riguardo a diversi aspetti, quali per esempio i luoghi,
gli eventi, i costumi, l'immagine fotografica assume l'importanza
anche del documento, con la prerogativa di mostrare, per così
dire, direttamente ciò che rappresenta.
Idealmente, se fosse possibile raccogliere in un solo posto tutte
le fotografie scattate nel mondo, da quando è nato il primo
fotogramma, e fosse inoltre disponibile un mezzo che con rapidità
consentisse di poterle visionare, avremmo probabilmente una rappresentazione
analitica e insieme globale della nostra storia. Ma già da
diverso tempo la nostra memoria viene sollecitata dal recupero, attraverso
le foto conservate e archiviate, di immagini che ci mostrano eventi,
personaggi e atmosfere dei giorni passati, richiamando alla coscienza
quella che abbiamo chiamato "la presenza dell'assenza",
senza la quale ci parrebbe altrimenti di essere privi di parte della
vita, quella trascorsa e quella immaginata, cioè costruita
dalla cultura e dalla sensibilità.
Non possiamo essere certi che l'uomo nel passato abbia sentito così
viva e impellente la necessità di formarsi una materiale rappresentazione
di quanto avveniva intorno a lui, vicino o lontano che fosse, quanto
invece lo è per il contemporaneo, per il quale forse è
non solo rilevante, ma essenziale al punto di temere, più di
ogni altra cosa, la perdita della vista. Si potrebbe affermare che
la comunicazione, oggi, è soprattutto trasmissione di immagini,
di icone che tendono a sintetizzare notizie, racconti e molte volte
persino concetti, giovandosi di quella capacità rievocativa
e simbolica propria di qualsiasi rappresentazione.
Le riflessioni già svolte nelle pagine di Apulia sono naturalmente
applicabili anche all'immagine-documento, che tale è alla condizione
di essere disponibile e rintracciabile agevolmente grazie all'opera
di quanti si sono dedicati all'ingrato e molte volte noioso compito
di raccogliere, catalogare e conservare le fotografie.
Ebbene, con l'ausilio di un altro mezzo tecnologico, l'elettronica,
qualcosa che si avvicina alla nostra ideale ipotesi si sta avverando
nel mondo ma anche in Italia; infatti la "Fratelli Alinari"
di Firenze sta informatizzando il proprio archivio che nel tempo si
è arricchito di prestigiosi archivi, alcuni "storici"
(come Anderson, Brogi, Chauffourier, Fiorentini, Mannelli), altri
più recenti (come Wulz, Michetti, Nunes Vais, Bombelli, Mollino,
Betti Borral, Zannier, Pozzar, Balocchi, Vannucci Zauli, Unterverger),
altri ancora recentissimi e ricchissimi, quali quelli dell'Istituto
Luce e del Touring Club Italiano.
Nel 1852 Leopoldo Alinari (1832-1865), sovvenzionato dal calcografo
Luigi Bardi che aveva compreso l'interesse che il nuovo mezzo rappresentava
rispetto alla riproduzione di incisioni generalmente paesaggistiche,
apre una bottega di vendita in Via Cornina.
Le riproduzioni fotografiche trovano un grande consenso tanto da indurre
Leopoldo a fondare, nel 1854, insieme ai fratelli Giuseppe (1836-1891)
e Romualdo (1830-1891), la "Alinari Photographes Editeurs",
azienda specializzata nella riproduzione, in particolare, di disegni
e opere d'arte; la bottega di Via Cornina diviene l'atelier fotografico.
In un'immagine del 1855 tutti e tre i fratelli sono ritratti in un
ovale che li mostra elegantemente vestiti e con i volti ornati di
baffi e barba, fronte larga ed un'incipiente calvizie. Giuseppe appare
tra i tre il più scanzonato, Leopoldo il più serio con
una espressione alquanto dura, Romualdo ha uno sguardo molto romantico
con i pochi capelli sapientemente arruffati: un'immagine che li mostra
uniti sebbene renda ciascuno così diverso dagli altri.
Il principe Alberto di Inghilterra affida ad essi l'incarico di riprodurre
i disegni di Raffaello, il Vaticano commissiona il rilievo fotografico
dei soffitti della Cappella Sistina e la Diocesi di Firenze gli affreschi
di Santa Croce; già nel 1856 esce il primo catalogo dell'azienda
con le foto non solo di Firenze ma della Toscana e dell'Umbria.
Quando diviene la Capitale d'Italia, Firenze, ove la fotografia aveva
trovato estimatori e autori, tant'è che vi erano numerosi studi
fotografici, risulta frequentata da uomini politici, intellettuali,
scienziati e artisti, i quali trovano naturale, utile e comodo essere
ritratti dai giovani fratelli. Dopo la breccia di Porta Pia, nel 1872,
viene aperta a Roma una succursale in Via del Corso 90 e un negozio
di vendita inizia la sua attività a Napoli.
Essere innanzitutto editori, cioè imprenditori, consente ai
fratelli Alinari di poter divenire punto di riferimento di tanti oscuri
autori che, a causa delle non indifferenti spese che la produzione
fotografica comportava e comporta, trovavano in essi alimentazione
e supporto al proprio lavoro.
Leopoldo muore nel 1865 e gli altri due fratelli nel 1891, ma l'azienda,
ormai nelle mani di Vittorio, figlio di Leopoldo, continua e amplifica
il suo ruolo nel mondo fotografico italiano, e non solo italiano,
al punto che le immagini "Alinari" dei luoghi e della storia
d'Italia vengono sistematicamente ad arricchire libri, enciclopedie,
giornali, cartoline diventando la memoria fotografica del Paese. Pur
non essendo le sole e uniche immagini, giacché molti si cimentano
in questo compito, come per esempio il conte Primoli e Michelini,
esse formano un corpus vasto e completo di quanto era nel Paese, e
di ciò che si andava trasformando.
L'affidabilità di cui Alinari dava prova invogliava particolarmente
le istituzioni pubbliche e dilettanti celebri, come il re Vittorio
Emanuele 111 e la regina Elena, ad utilizzarne l'opera sia di editore
che di produttore e fornitore. Affermare che quello Alinari sia il
più prestigioso archivio di storia della fotografia italiana
non è correttamente esatto, mentre di certo è quello
più ricco e completo di storia fotografica d'Italia.
Il richiamo alla storia fotografica riapre la questione del rapporto
tra fotografia e storia di cui alla riportata lettera del lettore.
La massa di materiale fotografico esistente e archiviato (tralasciando
peraltro quello cinematografico) già consentirebbe una descrizione
dei fatti accaduti qualora fosse accessibile ad una visione globale,
con ciò per lo meno consentendo risparmio di tempo alla conoscenza
e minima necessità dello scritto.
L'immagine procura immediati effetti: mostra l'umanità dei
protagonisti, più o meno celebrati dalle rievocazioni, e la
diversità degli ambienti e dei luoghi rispetto ai racconti
del tempo e alle ricostruzioni in epoche successive. E' la stessa
sensazione che si avverte quando si confronta un documento originale,
carta e scrittura dell'epoca, con una copia scritta su carta dei nostri
tempi.
La fotografia è rappresentazione, diviene documento nel momento
in cui ciò che rappresenta è connesso alla ricostruzione
di eventi e personaggi dai quali scaturiscono, per la loro importante
influenza, altri fatti; questa catena spiega l'origine e il perché
della nostra esistenza, cioè rappresenta la "storia".
Se si guarda alla propria immagine da fanciullo, con l'occhio dell'osservatore
distaccato, non si è portati a quel coinvolgimento che, invece,
prende quando quell'immagine contiene informazioni e significati che
possono dar ragione del proprio attuale stato: in quella immagine
ciascuno scopre un tassello rivelatore della propria vita. Le foto
dell'archivio "Alinari" hanno questa caratteristica, seppure,
al fine della ricostruzione storica, necessitino anche di altri riferimenti,
per esempio temporali, come peraltro avviene per qualunque altra narrazione.
Alcuni accadimenti dei nostri giorni, che suscitano diverse e molte
volte contrastanti opinioni, vengono considerati ed esaminati da innumerevoli
punti di vista, sono commentati e spiegati secondo le più ampie
angolazioni, ma stranamente non richiamano altri più ovvii
ma non per questo meno rilevanti elementi e considerazioni.
E' il caso che riguarda la Sacra Sindone. Senza entrare nel merito
dei tanti quesiti e problemi affrontati da schiere di valenti studiosi,
di certo quel telo di lino configura l'immagine impressa di un corpo
umano che, mediante delle sostanze applicate, ha sensibilizzato il
tessuto-supporto, secondo processi chimico-fisici né più
né meno di quanto avviene nel processi fotografici; tant'è
che si parla comunemente della rappresentazione in negativo di un
corpo umano.
In tempi recenti, lo studioso della Sindone Sebastiano Rodante, presentando
a Roma nel 1993, in occasione del "Symposium Scientifique International
sur le Linceul de Turin", la dimostrazione che le tele imbevute
in una soluzione di aloe e mirra sono sensibili alla luce solare,
poté affermare che "le tele si comportano come un'emulsione
fotografica". Se così è, si può avere l'ardire
di riconoscere che la Sindone è una delle prime fotografie.
Già questa evidente constatazione suscita alcune riflessioni.
Se infatti si fosse trattato di una rappresentazione pittorica funeraria,
sarebbe stata alla pari, quale documento, con quanto scritto e descritto
dall'Evangelo e non aggiungendo alcunché di diverso sarebbe
stata anch'essa oggetto di fede; in definitiva, chiunque avrebbe potuto
credere o meno. Ma trattandosi invece della "traccia" di
una realtà dell'anno 30 d.C. secondo alcuni, o del XIII secolo
secondo altri, essa diviene oggetto di ricerca profonda, contrastata,
sofisticata, appassionata in quanto la sua datazione e la sua veridicità
possono inverare l'evento di cui è rappresentazione.
Quando nel 1898 Secondo Pia, il primo che fotografò la Sindone,
sviluppò il negativo di quella immagine vide perciò
il positivo, cioè l'immagine "vera", del corpo e
del volto umano che avevano impressionato il telo. Fu in quel momento
che il portato simbolico del segno impresso, divenendo lampante e
trasparente, assunse quel rilievo che ancora oggi ha, poiché
il segno, se è vero, farà vero anche chi il segno ha
lasciato, ridando forza al significato simbolico.
Le innumerevoli testimonianze e fonti storiche portate a sostegno
della reale esistenza di tutti i fatti allora accaduti, di tutto quanto
da essi scaturito e derivato, finalmente trovavano un'inquietante
verifica. Dunque una semplice traccia (si aggiunga: fotografica) diviene
l'oggetto della ricerca "storica" e può inverare
quanto riportato da tutte le altre fonti documentali.
Moholy-Nagy, negli anni '20, affermava che "l'illetterato del
futuro non sarà quello che non sa leggere ma quello che non
saprà fotografare". E Molzahn dichiarava che "l'immagine
fotografica sarà una delle armi più efficaci contro
l'intellettualizzazione, contro la meccanizzazione dello spirito.
Dimentica la lettura! Guarda! Questa sarà la parola d'ordine
dell'educazione. Questa sarà la linea di condotta fondamentale
della stampa".
Freud nel Disagio della Civiltà del 1929, nel descrivere i
mezzi (che egli chiama "utensili") messi a disposizione
dal progresso per estendere le capacità e i poteri del corpo
umano, definisce la macchina fotografica "strumento che fissa
le impressioni fuggevoli della vista". Rosalind Krauss ricorda
che la scrittura operava e opera, tramite la penna, il trasferimento
della parola in altro tempo e in altro spazio, cioè quale strumento
della memoria; così la fotografia provoca il trasferimento
della funzione dell'occhio a quella della mano che usa la macchina.
Con ciò si spiega la ricorrente e quasi ossessiva rappresentazione
da parte di tanti autori degli anni Venti e Trenta - come Man Ray,
Moholy-Nagy, Bayer, Lissitzky, Tabard, Parry, Umbo -delle parti del
corpo, occhio e mano, degli "strumenti", penna e macchina,
e dei loro prodotti, scrittura e foto.
La diffusione e l'universalità della conoscenza sono strettamente
collegate allo sviluppo della tecnologia e al progresso industriale.
Il paradosso è che quanto più si vuole che l'individuo
cresca nella consapevolezza e nella conoscenza, tanto più occorre
sviluppare processi industriali che richiedono, al contrario, un ruolo
specifico e limitato, quindi alienante, per lo stesso individuo. Il
processo industriale infatti si fonda sulla "ripetibilità",
la quale, sola, consente la diffusione vasta e profonda dei suoi prodotti.
Cosicché le vere rivoluzioni sono quelle frutto delle invenzioni
e dei relativi processi di ripetibilità.
E fu un processo tecnologico - la stampa - che rese possibile la "ripetibilità'
dello scritto consentendo così il raggiungimento di una grande
massa di individui, allargando la sfera della comunicazione non solo
in altro tempo e in altro spazio (criterio di qualità) ma anche
in vastità, in numero (criterio di quantità). Il trasferimento
della funzione della bocca (parola) a quella della mano che usa la
penna (scritto -registrazione della memoria -) con la procedura di
stampa raggiunge un numero di individui illimitato; il mezzo rende
possibile la diffusione del pensiero.
Analogamente, la fotografia trasferisce la funzione dell'occhio alla
mano che stringe la macchina; la pellicola registra la "visione"
e, con la stessa procedura, si rende l'immagine ripetibile tramite
le copie. L'invenzione della fotografia è insieme trasferimento
della funzione e condizione di ripetibilità; quindi, è
come se insieme alla penna fosse nata la stampa.
La stampa è il mezzo attraverso il quale sia la scrittura sia
la fotografia divengono "pubblici", si sottraggono cioè
dal rimanere diario o album di famiglia; quindi la "pubblicazione"
realizza il connubio con la storia sia dello scritto sia della fotografia.
Michele Giordano nel 1981 in Studi Storici, Fotografia e storia, nel
sostenere tale tesi, afferma che "la fotografia stampata esercita
la propria azione sul corpo sociale, esercita cioè un'azione
media, e perciò si presta meglio all'analisi critica di quanto
non faccia un'immagine maturata, prodotta e circolata in un ambito
relativamente ristretto".
L'integrazione delle varie espressioni, rappresentazioni e linguaggi
fa assumere completezza alla narrazione e, cosa ancora più
importante, nella complementarietà di essi viene recuperata
"l'atmosfera" dell'evento. Questo è il motivo per
cui il cinematografo, documentario o meno, ha raggiunto la sua massima
suggestione e diffusione: l'immagine, il suono e i rumori, la parola,
tutti insieme, replicano le condizioni in cui avviene la normale percezione
e partecipano con le facoltà psichiche ed inconsce proprie
di ciascuno alla formazione dell'immagine mentale. La registrazione
dei segnali da parte dei nostri sensi, e non solo, è l'origine
della percezione e della conoscenza. Ancora non è possibile
(manca l'invenzione?!) registrare gli odori, le sensazioni tattili
e i segnali della psiche, ma l'elettronica, invenzione del nostro
secolo, sembra poter soddisfare l'insieme delle esigenze sia di totale
rappresentazione sia di globale diffusione e trasmissione.
Attraverso il linguaggio e gli strumenti dell'elettronica, che consentono
i primi esperimenti di "realtà virtuale", si tende
al conseguimento di risultati che soddisfino la possibilità
e la capacità della registrazione globale della percezione
ed anche la maggiore diffusione e penetrazione della conoscenza. Se
stimoli "immateriali" (nell'accezione comune) concretizzano
la percezione e consentono la conoscenza, è perché essi
concorrono alla formazione delle "immagini mentali", cellule
prime di tutte le successive costruzioni. La ricerca e la riflessione
sono lontane dall'essere esaurite.
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