MACERIE D'ITALIA




Aldo Bello



Una recente statistica ministeriale ha rivelato che il 48,10 per cento dei trattamenti previdenziali per invalidità erogati dal Tesoro, dall'Inps e dall'Inail è stato revocato perché "non sussistono i requisiti". Dove: a Napoli, a Palermo, a Reggio Calabria, a Foggia? No. La graduatoria nazionale vede ai primi posti, nell'ordine, Pisa, Rovigo e Pavia. Tra il Po e l'Oltrepò, dove c'è l'area in assoluto più popolata d'Italia, è stata abolita una pensione su due. Pudicamente, il Corriere della Sera ha riportato la notizia in 42a e terzultima pagina, fra le cronache regionali. Si fosse trattato di Napoli, di Palermo, di Reggio Calabria o di Foggia, molto probabilmente l'avrebbe "sparata" in prima, perché il Sud assistenziale e assistito fa sempre notizia e alimenta il feroce secessionismo degli impresentabili (politicamente, intellettualmente, e in molti casi persino fisicamente) leghisti dello "zoccolo duro".
E poco importa che la più gigantesca operazione assistenziale italiana, quella delle cosiddette "rottamazioni", riguardi Torino e quel romanzo nazionale dell'orrore secondo il quale "ciò che è bene per la Fiat è bene per l'Italia". Come poco importa che gli sciacalli che sovrappopolano il Comasco e la Brianza e che una volta si chiamavano "spalloni", oggi, col nome e con l'attività di "passatori", lucrino ogni giorno somme milionarie con la tratta dei disperati dell'Albania e dell'Est europeo dall'Italia alla Svizzera (stesso quotidiano, identica pagina, 14 agosto 1997). Il fatto è che, nell'accezione semantico-pragmatica dei termini, ciò che per il Sud mafioso è assistenzialismo, protezione, corruzione, per il Nord dall'anima candida e dalle mani pulite è business. Qualche tempo fa un quotidiano meridionale riportò un titolo, forse non proprio elegante (per via del vernacolo), ma realistico e di sicuro effetto: il Nord, scrisse, "chiagne e fotte". Nel senso che bertoldescamente si lamenta l'altrui voracità, mentre rastrella le proprie risorse e rapina a mano disarmata quelle altrui, con la complicità di una classe dirigente e amministrativa che ha dilaniato l'Italia, dalla cosiddetta Unità ad oggi.
Non è il caso di ripercorrere la storia delle storie nostrane, per rendersi conto di tutto questo. E' però il caso di esplorare una di quelle storie, che riguarda la Pubblica Amministrazione. Anche perché ad essa sono legate le due categorie dello spirito che più e meglio identificano i nostri e gli universali comportamenti civili e morali: la politica e l'etica.
La crisi della nostra Pubblica Amministrazione, che è sotto gli occhi di tutti, si accompagna ad una ricchezza di analisi sulle sue cause e di idee precise su come risolverla. Apparentemente manca solo la volontà politica di scegliere una strada e di percorrerla con continuità e coerenza. Ma proprio questa scelta è difficile, perché in realtà implicherebbe la risoluzione di vecchie e nuove questioni, sedimentate nel tempo e rimaste irrisolte. La nostra classe dirigente e amministrativa è piuttosto una sovrapposizione di diversi modelli organizzativi, la cui reciproca convivenza è derivata, più che da una logica intrinseca, dalla necessità di un continuo adeguamento allo sviluppo economico e sociale del Paese. E meglio ancora: di una parte del Paese. Quando questo processo di adeguamento si è arrestato e la qualità delle élites burocratiche si è abissalmente impoverita, la crisi si è trasformata in un vortice pericoloso. Eppure, la nostra amministrazione ha avuto alcune grandi stagioni, caratterizzate proprio dal fiorire di élites politico-burocratiche. Così fu la Destra Storica, che guidò il Paese fino al 1876. Un giudizio sostanzialmente positivo va riconosciuto alla riforma di Crispi: lo statista siciliano ne emerge come uomo, anche se non prossimo all'amministrazione nella sua azione di governo, tuttavia consapevole dei compiti nuovi che su di essa incombevano con i mutamenti socio-economici di fine secolo, che pure culminarono nella crisi politico-istituzionale più grave dopo l'Unità.
L'età giolittiana, che rappresentò tra l'altro il superamento di questa crisi, pose proprio la classe dirigente e amministrativa come snodo fondamentale della mediazione socio-economica, con l'ausilio di una rinnovata élite burocratica, assai varia nelle sue articolazioni e competenze.
L'ultima stagione elitaria della nostra burocrazia è legata al nome di un altro meridionale, Francesco Saverio Nitti. Un nucleo consistente di uomini condivise con l'uomo politico lucano l'idea di fare della struttura statuale il veicolo della modernizzazione e della soluzione della crisi del primo dopo guerra. Progetto, questo, che doveva infrangersi per lo stravolgimento del sistema politico e con l'avvento del fascismo. Ma le grandi riforme economico -industriali degli anni Trenta portano tutte il segno ispiratore dell'élite nittiana. E anche alcuni fondamentali lineamenti della ricostruzione degasperiana hanno per protagonista lo stesso personale politico, con un gran bagaglio di idee e di conoscenze.
Poi, negli anni seguenti della vita repubblicana, ogni barlume di progettualità viene meno, se si tolga quel fantasma inquieto e lamentevole che fu l'idea di programmazione. Dagli anni Sessanta riemergono, nel vuoto di regime, mali antichi e problemi nuovi, tutti irrisolti. Classe dirigente e burocrazia si chiudono sempre più in quel circuito corporativo attraverso il quale avevano stabilito insieme la loro condizione e le stesse regole di reciproca difesa e sopravvivenza. Si consolida il sostrato negativo, che il lustro di alcune stagioni luminose non aveva mai sommerso: quello di aver riguardato le fasce dirigenziali, ma non il grosso della piramide, troppo legata a modelli gerarchici rigidi, deresponsabilizzata, deprofessionalizzata, ridotta nelle competenze tecniche e scientifiche; una tara iniziale che non si riesce mai a rimuovere, proprio per le caratteristiche generali del modello storico. Frutto di una stagione politica, negli ultimi trent'anni della Repubblica impropriamente la classe politica tende a prevaricare l'amministrazione anche nelle sue funzioni ordinarie di mediazione economico-sociale, distorcendo il ruolo dei pubblici poteri e rendendoli inadatti a rispondere alla duplice sfida del decentramento regionalistico e dell'inserimento nei nuovi ambiti sovranazionali, generati dall'Europa comunitaria e dai più complessi e generali processi di globalizzazione.
Tutto il contrario, dunque, di quanto è accaduto nei Paesi avanzati: nell'Inghilterra della rivoluzione industriale, nella Francia dell'Illuminismo, nell'America di Lincoln. Il motore di quegli eventi grandiosi che cambiarono la storia del mondo - è stato scritto - non fu la politica dei partiti; i partiti si formarono nel colmo del dibattito e dello scontro di idee e di interessi promosso da una classe dirigente estremamente articolata, composta da mercanti, imprenditori agricoli, economisti, filosofi, giornalisti, letterati, scienziati, leaders religiosi, magistrati. I politici, i partiti, tradussero in concrete attuazioni le proposte che la classe dirigente aveva maturato filtrando i bisogni e le speranze della società. Avrebbero potuto i partiti decidere dell'evoluzione della società se non avessero fatto parte di una classe dirigente molto più vasta e molto più aperta di quanto essi non fossero? Se non avessero avuto ai fianchi e alle spalle una cultura attiva, una moralità predicata e praticata, un ventaglio di interessi articolato, una pubblica opinione avvertita e vigilante? Così, e non altrimenti, è nata ed è cresciuta la società moderna. Tutte le volte che la classe dirigente e amministrativa è decaduta da questa sua grande funzione propulsiva, tutte le volte che ha coinciso con la classe politica, subordinando ad essa la sua ricchezza intellettuale e le sue iniziative, l'evoluzione sociale si è bloccata e ha registrato la regressione dal moderno all'arcaico, determinando il deserto culturale.
Il fatto è che una classe dirigente e amministrativa non nasce per decreto, né si forma per cooptazione. E' frutto di una naturale selezione di talenti che un Paese è in grado di produrre e che una cultura è in grado di individuare e valorizzare. In Italia è accaduto, soprattutto in questo secolo, che la classe dirigente e la burocrazia si siano formate nel coagulo dei partiti e dei movimenti politici, e pertanto non poteva dispiegare una progettualità autonoma di grande respiro nazionale, per paura di cozzare contro gli interessi particolari delle segreterie, dei comitati centrali, delle direzioni e delle leadership politiche, cioè partitiche, cioè ancora di parte.
Quella che stiamo vivendo, dunque, è nient'altro che una desertificazione annunciata. Siamo un Paese prigioniero delle catene della mediocrità: i mediocri sono più numerosi delle persone intelligenti e impegnate, le corporazioni conservatrici sono più forti - numericamente - degli individui coraggiosi e intraprendenti, il produttore monopolista è più protetto del consumatore, gli interessi consolidati sono più tenuti in considerazione degli interessi generali, le lobbies sono più rispettate degli individui. In un sistema che svaluta il merito, scoraggia l'iniziativa, condona le mafie dal Lilibeo al Brenta, un catechismo demagogico-clientelare ha prodotto effetti devastanti.
Ma guardiamoci bene intorno: l'Italia sta uscendo dalla grande scena internazionale, e unica fra le maggiori democrazie economiche del mondo, sembra del tutto inconsapevole di ciò che le sta accadendo. Uomini politici, sindacalisti, giornalisti, uomini d'affari, si smarriscono nell'inutile turbinio delle faccende nazionali, senza rendersi conto che nel mondo, da qualche anno, sta accadendo qualcosa che cambierà la storia dell'umanità. E quale pedagogia offre la classe dirigente italiana?
Nessuna, o molte, microscopiche, contraddittorie, incomprensibili. Con rischio di creare una generazione inetta, incolta, del tutto incapace di affrontare i problemi nuovi proposti dal contesto internazionale, di misurarsi con i grandi problemi, tutta rinserrata nei propri piccoli privilegi e negli egoismi burocratici, geografici, corporativi.
Quello che manca, in Italia, è l'Italia, dice Montanelli. Cioè: manca una coscienza morale e civile: "Questa è una terra di missione. Abbiamo bisogno di missionari: nella società, nella scuola, dovunque. La cultura potrebbe fare qualcosa: invece spinge sul pedale della corruzione, perché è corrotta anch'essa. Qui sono veramente mancati i maestri di pensiero. Anche i cosiddetti grandi nomi sono nomi di accademia. Nessuno ha sentito il dovere dell'apostolato. Anzi: la nostra cultura è piena di una spocchia ignobile, e la classe politica ne è il riflesso ... ".
Da quando si è profilato il tramonto di questo secolo-millennio, si è parlato e scritto molto, e con varie inquietudini, dei valori svaniti o abbattuti dallo spirito conformista del tempo. Ci si è chiesto dove sia andata a finire l'etica; si è frugato negli anfratti dell'Occidente "declinista", con l'idea di ritrovarvi un senso, che si ritiene smarrito. In Italia, in particolare, ci si continua a domandare quale peso abbiano ancora i valori cristiani. In realtà, il fenomeno è europeo, e molto spesso è nato da operazioni di pulizia giudiziaria che hanno disvelato una corruttela pandemica, diffusa nelle classi dirigenti. L'indignazione dell'opinione pubblica è stata imponente, e grande spazio continua ad esser dato, in tutta Europa, alla complicità perversa tra politica e latrocinio. La corruzione economica è percepita come segno clamoroso della marcescenza morale che affligge l'Occidente. Un primo comandamento essenziale è stato disatteso, e meglio ancora, tradito: il settimo, che ordina di Non Rubare. E ciò ha screditato la figura del sovrano democratico.
L'anelito morale nasce anche da qui, da questa esperienza tanto più esterrefatta in tempi di sacrifici economici, e irritata al massimo grado per le ricchezze e i patrimoni borseggiati. Il senso del vuoto ha oltrepassato Mani Pulite, ed è esasperato ormai anche dal declino d'Europa nel mondo e dell'Italia in Europa: declino morale e spirituale, addensato attorno all'ossessione del furto. Di fronte ai nostri occhi si accampano, fumanti, le macerie dell'etica, in tal modo offesa, che sembra perduta.
A guardare le cose da vicino, non sembra del tutto svanita la capacità delle élites europee di produrre e imporre valori dominanti. Ma ne producono d'un certo tipo soltanto. I valori hanno subìto un terremoto che li ha sconnessi, amputati, redistribuiti, ma non collettivamente annientati. Come gli alberi dopo un tifone, restano in piedi alcuni Comandamenti, sotto forma di pensieri dominanti, mentre altri rattrappiscono e svaniscono. O diventano totalmente marginali. Più esplicitamente spariscono le grandi e cruciali questioni della sofferenza e della povertà, della malattia e della morte, che pure sono sempre state a cuore alle persone e che hanno popolato le loro paure. Sono i veri scandali - nel senso cristiano del termine - di questa fine secolo, anche se misteriosamente e silenziosamente messi a tacere. E' lo scandalo della povertà che cresce in Europa e in Italia, e tanto più sembra crescere, quanto più le borse finanziarie si mostrano giubilanti. E' lo scandalo dei milioni di senza tetto, uccisi a centinaia e a migliaia ogni inverno, senza che ci sia piú un Dickens che dia voce a questi derelitti. E' lo scandalo delle grandi epidemie pestilenziali di fine '900, criminosamente trascurate, (Aids, morbo Creutzfeldt-Jakob, sangue infetto, mucche pazze, ormoni estratti da ipofisi di cadaveri e somministrati in strutture ospedaliere pubbliche, avvelenamenti vari, latte altamente sospetto ... ). In nome dell'efficienza economica e dei vantaggi commerciali, non si è esitato a mandare a morte la gente. Questo è omicidio di Stato, che ha fatto svanire un altro Comandamento primario, quello che impone di Non Uccidere. Così gettabili sono diventate le vite umane, tanto trascurabili e offendibili, che torna sulla scena quella che l'antropologo René Girard chiamò "la rappresentazione persecutoria del mondo", il sacrificio della vittima innocente "odiata senza causa".
Il Decalogo è fatto a pezzi, e nel suo crollo trascina prima la morte di Dio, poi quella dell'uomo. L'etica perduta forse si ritroverà, ma ad un prezzo esorbitante: il prezzo del sacrificio umano, che torna ad occupare il centro della cultura d'Europa. C'è l'orrore della cerimonia rituale e delle grida del capro espiatorio. Ma c'è anche lo sgomento per una differenza: il furto è un'autentica ossessione, giacché intacca i propri legittimi interessi, svilisce il sudore della fronte degli onesti, attenta alla proprietà; non così la vita delle persone, quantità negletta, che intacca poca cosa. Lo spirito neo-vittoriano dei nostri tempi non riesce ad offrire niente di meglio.
Dice Claudio Magris: Antigone, l'immortale eroina della tragedia di Sofocle, rifiuta di obbedire alla legge promulgata dalle autorità di Atene, che vieta di dar sepoltura al corpo di suo fratello, considerato traditore e ribelle allo Stato. Antigone trasgredisce quel decreto, provocando così la sua stessa morte, in nome delle "leggi non scritte degli Dei", ossia di comandamenti morali assoluti, che nessuna legge positiva può violare senza rendersi moralmente illegittima e ingiusta. I principii universali dell'etica - da quella evangelica a quella kantiana, che impone di considerare ogni individuo come un fine e mai come un mezzo da utilizzare per altri scopi - non possono essere negati da nessuna legge di nessuno Stato.
Oggi accade che i valori etici nuovi emergano in un'atmosfera culturale che tende spesso a dissolvere o almeno a risolvere la morale nella sociologia e nella politica, mentre dovrebbe farlo nell'ambito della legge. Di qui, la riflessione sul "caso Antigone", vale a dire sull'importanza fondamentale della personalità individuale, e la fondazione di valori comuni in cui credere per orientarsi nella vita e restare uomini liberi. Kipling direbbe che nessuna norma giuridica può fare di lui un uomo, ma oggi crediamo che non ci sia un nesso fra irresolutezza o vuoto morale ed espansione della sfera legislativa e giurisdizionale chiamata ad occuparsi di problemi sempre più complessi che non possono essere lasciati alla spontaneità di comportamento dei singoli. Certo, la legge non può e non deve rincorrere l'evoluzione della realtà per trasformare i principii che la ispirano, come vorrebbe un malinteso sociologismo in base al quale l'etica e il diritto dovrebbero adeguarsi passivamente al mutare della realtà, "termine vago che non dice niente di preciso, perché non si capisce cosa sia questa realtà, cui noi - che saremmo quindi fuori di essa - dovremmo comunque conformarci".
I valori che ispirano etica e diritto (uguale dignità di tutti gli uomini, tutela di ciascuno di essi da ogni tipo di violenza) non devono cambiare con i tempi: se si diffonde l'aggressione razzista, la morale non cessa di condannarla, né il codice di perseguirla. Ma proprio per la fedeltà ai principii che la informano, la legge deve adeguare le sue norme alle nuove forme di violenza che possono manifestarsi, o che si perpetuano, e ai nuovi problemi che si possono creare. Un Paese dicotomo, con un'area ricca e una miserabile, e per di più tutte e due - anche se ciascuna a proprio modo - corrotte, è un Paese violento, che non dà realtà concreta agli imperativi e ai comandamenti dell'etica attraverso leggi giuste e non discriminanti.
Quando una parte di popolo (o un individuo, se si vuole) può venire lesa in nome e per conto della protezione di un'altra parte dello stesso popolo, perpetuando antiche strategie, o introducendo nuovi modi e forme di segregazione o separazione, non è questione che riguardi la sola coscienza morale. Anche ogni omicidio è un fatto morale prima che giuridico, un peccato prima che un reato. Ma la legge che lo persegue - che non estingue né assorbe o supera la sua dimensione morale, come insegna il Dostoewskij di Delitto e castigo - non è un arbitrio nei confronti della coscienza. Certo, molta letteratura, grande quanto ingiusta, sotto questo profilo, ha guardato alla legge con risentimento, ritenendola priva della luce della poesia. Don Chisciotte riteneva che gli uomini d'onore non dovessero giudicare altri uomini, e che i deboli andassero difesi con la sua lancia di cavaliere.
Nobilissima, ma fragile arma di difesa. Sfuggiva, all'eroe di Cervantes, il fatto che la legge ha una certa poesia, cioè una profonda malinconia, perché èil tentativo di calare in concreto nella realtà vissuta le esigenze della coscienza, cioè dell'etica.
E' vero anche che la legittimità morale affascina più della fredda legalità. Ma la democrazia, ha sostenuto Norberto Bobbio, si fonda su "valori freddi", quali, appunto, la legalità. Anzi, essa si fonda sulla legittimità solo quando questa si traduce in legalità, altrimenti diventa violenza giustizialista e può trasformarsi in linciaggio.
Il compito delle "leggi non scritte degli Dei", scriveva il giurista Ascarelli, è quello di tradursi in leggi positive sempre più giuste e più capaci di tutelare gli uomini. In questo senso, esse richiedono fantasia, dunque anche poesia. I popoli classici, che avevano capito tutto o moltissimo, sapevano che ci può essere poesia nel legiferare. Molti miti riferiscono che i poeti fondatori sono stati anche i primi legislatori. Che è tutto dire.
Tornando alla cronaca iniziale: alla legge spetta colpire corrotti, ladri e quant'altro, e stabilire pene con poche, oculate deroghe, senza i permissivismi predicati da quella scienza che scienza non è, la sociologia. Chi rompe paghi, purché sia chiaro che, in nome della legge, chi rompe deve pagare tutto e fino in fondo; all'etica spetta il compito di informare di sé le leggi e di cancellare i pregiudizi, di abbattere i disvalori, di negare le emarginazioni, di rifondare principii comuni di dignità, di libertà, di giustizia. E tanto per riprendere la vicenda dei ladri di pensioni: solo una falsa etica può suggerire l'idea che si rubi in una sola parte del Paese, che la corruzione e le mafie siano fenomeni di un'unica area geografica, che il Male sia esclusiva di una latitudine. Comprendiamo lo stato di choc di Po, Oltrepò e altre Padanie: ma ci chiediamo dove siano vissute queste anime candide fino ad oggi; a che cosa e a chi abbiano creduto; o che cosa abbiano chiuso negli scrigni non proprio puliti delle loro anime, come inconfessabili segreti di famiglia o di tribù; o se infine si siano mai interrogate sulla cultura protototalitaria che ispira certi loro capipopolo, con annessi scherani in camicia monocolore.
Non sarà facile venir fuori da questa situazione, perché il Paese è diviso da due filosofie minime, ma in progress: la parte ricca è tutta dentro l'esplosione di un capitalismo vernacolo che tende a trasformarsi sempre più in greediness, in edonistica ingordigia di denaro e di consumi di qualità; quella arretrata sta vivendo la difficile stagione della transizione da un'ideologia statalista e protetta, frutto delle scelte di una classe dirigente miope e di una burocrazia da terzo mondo, ad una (ancora monca) di democrazia di mercato mediamente avanzato. Siamo, comunque, nel bel mezzo di una trasformazione storica, mentre buona parte d'Europa e del mondo sta transitando dall'era industriale a quella digitale. La latitanza di una classe dirigente altamente creativa, autonoma, mediatrice anche in nome delle "non scritte leggi degli Dei", quando queste non siano confliggenti con l'etica, non siano cioè leggi-vendetta tout-court, (ogni legge, è stato scritto, ha sempre in sé "una parte di vendetta"), può lasciarci in mezzo al guado. Altro che macerie, allora. Diventeremo un giacimento archeologico, che in qualche epoca del terzo millennio qualcuno tenterà di scavare, riportando alla luce i resti di una civiltà che meritò di essere sepolta, perché città morta per self fulfilling profecy. Insomma, per suicidio annunciato.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000