CATEGORIE E DINTORNI




Gennaro Pistolese



Il nostro pensiero è, come si sa, il grande contenitore di cui ciascuno dispone. Lasciamo in disparte (perché la giudicano gli altri meglio di noi) la qualità di questo contenitore. Nondimeno c'è un tasso che per conto suo ha una valenza - non primaria, ma in qualche modo indicativa - ed è quella anagrafica.
Per quanto mi riguarda - e i miei eventuali lettori lo sanno - c'è quasi un novantennio di esistenza in questo XX secolo; c'è un'attività professionale giornalistica iniziata a 19 anni nel 1928, già da studente universitario alla Sapienza di Roma; c'è un luogo di nascita, che si chiama Melfi, che allora certamente rientrava nel profondo Sud; c'è un trasferimento di residenza a Roma, che coincide con l'inizio della marcia su Roma: 28 ottobre 1922, visto alla stazione di Foggia e l'indomani sul ponte Cavour nella Capitale, con i cavalli di Frisia in trasloco poco dopo che vi erano stati apposti per il rientro del proclama di stato d'assedio.
Se vi sono altri motivi di credibilità - e mi lusingo di credere vi siano almeno quelli fin qui ricordati - al riparo da ogni nostalgia, mi sembrano avere un certo spessore.
Ciò che ha significato, significa e significherà questo secolo che sta per concludersi riflette una crescente accelerazione. Due grandi guerre, una dittatura, una liberazione, un cinquantennio di cosiddetta Prima Repubblica, l'iniziato risveglio non solo italiano (ma globale, come si dice oggi) per l'instaurazione e funzionalità di una nuova identità, costituiscono altrettanti formidabili tasselli di un'evoluzione che ora sta già precorrendo l'avvenire.
E qui si inseriscono ricordi, che sono motivi: conferme o smentite; intuizioni ed errori; frequenti pentimenti, compiacimenti quasi sempre saltuari. Avendo a che fare con la storia, nessuno facendola, ma ognuno concorrendo a farla con le sue vicende, che per lo meno determinano le medie statistiche.
La storia comporta sempre attente riletture. Il più delle volte rispetta ma comunque riflette le date. Quanto alle interpretazioni, invece, il compromesso fra l'obiettivo e il subiettivo è il suo inalienabile punto di forza, con il ricorrente rifugio dietro maestri, scuole, ideologie. La storia ha un po' la stessa sorte della giustizia: penso che anch'essa debba esprimere e amministrare giustizia per essere vera, ma Giolitti diceva che la legge si applica (e perciò leggiamo, aggiungo lo, che la giustizia è uguale per tutti), ma per gli amici si interpreta.
Il mio discorso con queste premesse potrebbe ovviamente continuare a lungo. Preme invece a me e agli altri soprattutto un pronto rientro in orbita, che sta a significare in effetti quale "contenitore" anche a me come agli altri è consentito di conferire all'ammasso, ecc.
Si tratta di testimonianze, di fermenti, di conferme o di smentite di ambienti e persone, valutati da vicino o da lontano, nell'analisi e nella sintesi, di cui nelle infinite rilevazioni individuali (a parte quelle che hanno a che fare con passaggi di epoche, di eventi al quali è stato più o meno rettamente impresso un segno perennemente emblematico, ecc.) c'è la speranza che talune riescano a dire qualcosa.
Avendo la ventura di essere cronista (per combinazione anche professionale) di me stesso, mi limito a trattare di un "clima" del mio tempo. Un clima riferito alle categorie professionali inserite nei loro ceti: del Sud degli anni '10; nazionali dopo di allora e a due anni circa dalla fine del secolo.

Una Camera del Lavoro anni '10 nel "profondo" Sud
La mia chiave è con monotona convinzione quella dell'intreccio fra contesto e tentativi di "medaglioncini" e, questa volta, è impiegata nel tentativo di concorrere al riconoscimento di quattro itinerari. E cioè quello dei rapporti sociali in un'area del profondo Sud di cui prima ho detto, come potevano essere rilevati da un adolescente; quello delle organizzazioni sindacali dei lavoratori (nella fattispecie, quelli del commercio, una categoria alla quale la mia esperienza orgogliosamente mi induce alla convinzione di poterle attribuire che ha qualcosa in più, e dirò perché); quello dell'Artigianato, che per ora mi limito a definire dalle tante vite; quello dell'industria: azienda.
Quattro itinerari, dunque, lungo i quali mi è occorso di camminare, essendo in ognuno di essi il più possibile con gli occhi spalancati, avendo indelebilmente fissati in me i segni passati ed avendo contemporaneamente l'ansia dell'altrove. In conseguenza, gli orologi del secolo con quello che si sa o si immagina abbiano segnato sono stati, non di rado anche con i rintocchi, con me.
Ci sono i libri che fanno meglio, i diari diretti a contentare se stessi e che talvolta servono alla storia, i documenti con i relativi archivi, i dossiers che però vengono ricercati e utilizzati solo quando sono punitivi, gli appunti che quando sopravvivono determinano il più delle volte vaghezza e incertezza, ecc.
Particolarmente radicate sono dal canto loro le tradizioni non scritte, ma vitali in forza delle testimonianze tramandate nel succedersi dei sopravvenuti "testimonial". E singolarmente oggi, per quanto "residuati anagrafici" - quelli per intenderci di età avanzatissima - riescono a ricordare, spesso per ammonire, nelle loro cerchie familiari, ma qualche volta, per i cosiddetti decani, in cerchie più ampie. A me capita di avere e di vivere in questi ricordi, quanto mai rigorosamente vivi e reali, al punto che la mia deontologica verifica della fonte prima di indurmi a scriverli non abbia escluso ogni tasso di immaginazione. Anche qui un discorso lungo da troncare.
Quanto mi accingo ad esprimere si ritiene certamente detto meglio di me dalle cifre.
La mia vita di giornalista economico ha vissuto di esse. Penso tuttavia che esse non dicano tutto ed in parte notevole, soprattutto oggi, pure con l'ingegneria statistica, il maquillage di numeri, ecc. Ecco perciò quanto vi propongo, con le noiose, ma da me sentite confessioni di prima: di metodo pure.
Il primo itinerario, dunque: quello di un adolescente, che si può dire abbia disertato largamente ed inavvertitamente, senza necessità né meriti, dalla propria infanzia, andando certo a scuola ma strettamente legato allo studio di avvocato di suo padre.
Ciò avveniva a Melfi: un paese sorto almeno all'inizio dell'età del ferro e non è necessario aggiungere altro. Un centro rappresentativo nella provincia e che naturalmente ha una sua storia sociale, concernente ambiente, ceti, rapporti, strutture. Il tutto negli anni '10 in evoluzione, come ovunque, con accelerazioni e resistenze, con nostalgie e per contro con ansie generazionali, con l'individuale e collettiva ricerca e lotta per il migliore posto al sole. Un richiamo o punto di riferimento per siffatto processo organizzativo è - com'è noto -rappresentato dalla nascita a Milano nel 1892 del partito operaio italiano (poi: una sigla che inconsapevolmente annunciava avvenire per quel sole di cui ora abbiamo detto).
In questo solco agli inizi del secolo è sorta a Melfi la Camera del Lavoro, che ha avuto una stretta coabitazione con il partito socialista: l'unico partito allora radicato nel territorio.
Un'organizzazione pertanto solo di lavoratori agricoli: braccianti, fittavoli anche di meno di un ettaro, pastori di allevamenti altrui. Altre attività rientravano nel lavoro autonomo allora non organizzato dell'artigianato e del commercio. Sindacato e socialismo erano gestiti da un avvocato, confermando sin da allora che le radici dirigenziali, frutto pure di elaborazioni ideologiche e culturali, del movimento operaio sono da ricercarsi in differenziate stratificazioni del ceto medio.
Il sindacato anche qui si faceva le ossa, si differenziava nella stessa provincia per le scelte integraliste o cosiddette riformiste socialiste, aveva la sua lotta di classe da combattere, che era permanente nella simbologia, qualche volta minacciosa nella giornata del P Maggio e talora - mi sembra nel '22 - con l'impiego di enormi sassi, fonti anche di eccidi, di missioni e di interventi parlamentari.
Le sollecitazioni e i modelli che venivano dalle Puglie e dalla vicina Cerignola erano ben maggiori (pure con l'esempio di un Di Vittorio allora alle prime armi), il cui ambito era certamente più articolato di quanto non fosse quello del circondario di Melfi, fra l'altro senza parvenze o speranze di industrie.
C'era l'imbottigliamento di un'acqua minerale, c'era un'industria elettrica avviata da un privato, si erano costruiti anche palazzi di una certa rilevanza, ma essi più che un avvenire avevano una tradizione alle spalle, e poi c'era il professionismo dei laureati: degli avvocati, del notaio, dei due farmacisti, di taluni medici, ecc. Era il ceto medio: con le sue irradiazioni familiari e clientelari, con una modesta proprietà agricola per reddito del tutto complementare, con la sua interna scala di valori che era quanto mai autocritica e severa e faceva a meno di esprimere e riconoscere leaders residenti.
C'era l'intelligenza e la pratica della graduazione delle capacità individuali, ma non c'erano i cori. Le stesse elezioni comunali non erano facili, ed anche allora il ricorso al commissario prefettizio non era insolito per quel municipio.
Il circondario, che in Melfi aveva una sottoprefettura - istituzione eliminata nel 1922 aveva grandi figure di riferimento ed in un certo - senso di convogliamento pure ideale: uno era Francesco Saverio Nitti, l'altro Giustino Fortunato, il primo nato a Melfi, ma poi trasferitosi a Napoli e quindi a Roma: grande statista in questo secolo; il secondo nato a Rionero in Vulture, trasferitosi a Napoli: il più grande meridionalista dei nostri tempi.
Indipendentemente da queste figure, che hanno condizionato politicamente la provincia di cui vengo parlando, altre se ne sono avute a livello inferiore, e fra queste per il socialismo due avvocati, uno a Melfi, Di Napoli, divenuto ministro dell'Interno del primo Governo Badoglio di Brindisi, e l'altro Pignataro, a Potenza.
I fasci hanno fatto la prima comparizione a Melfi solo nel luglio 1922, trovando come promotori un reduce di guerra, figlio d'avvocato, e un laureato che si avviava a fare come il padre il notaio. A quest'ultimo spettava anche il compito di squadrista.
Con la Camera del Lavoro allora coesistevano a pochi passi di distanza, sulla piazza municipale, da una parte il Circolo Sociale, e dall'altra la Società Operaia. Due denominazioni, entrambe emblematiche di qualcosa che nulla aveva a che fare con la denominazione stessa.
I soci del primo erano unicamente esponenti di quella che una volta si chiamava borghesia professionistica. Esercitava e subiva un gratuito clientelismo politico. Era acculturata per doverosa tradizione familiare. Un esempio per me, senza miei meriti gratificanti, mio nonno paterno, con due matrimoni, morto settantaquattrenne, avvocato, dieci figli (quattro femmine, sei maschi), sei laureati. E si tratta solo di un esempio (personale) soltanto perché a mia portata di mano.
In queste condizioni, in quel Circolo si discuteva, si leggeva, si confrontavano i propri aggiornamenti con libri e riviste che circolavano e si scambiavano senza che vi fossero le librerie, ed ancora spesso il lume a petrolio era restio a cedere il posto alla lampada elettrica.
Sull'altra parte della piazza c'era la Società Operaia. Si chiamava così. Ma gli operai non c'erano. C'erano invece quelli che avevano fatto i loro studi medi, alle scuole tecniche di allora; che non erano analfabeti; che erano geometri o commercianti, che avevano anch'essi le loro idee politiche, che in sostanza erano anch'essi da ceto medio, anche se facevano riferimento ad un generico operaismo. Accolsero fra l'altro il discorso di un comandante di vascello (i cui genitori mai avevano visto il mare, genero di D'Annunzio) di resistenza nazionale alla disfatta di Caporetto. Era uno di Melfi, figlio di un tabaccaio, che parlava ed erano della Melfi di allora quelli che lo ascoltavano. Di una Melfi con una lapide municipale dedicata ai suoi caduti in quella guerra fra le più lunghe dei comuni di tutta l'Italia.
Ma il mio paese è anche quello che oltre ad aver avuto questi caduti ha dato - come ho detto - i natali a Nitti, al quale risale l'amnistia dei disertori, che naturalmente ha la sua data: che ne implica le valutazioni (perché la storia così si spiega e si piega).
Questo tratto del mio itinerario si ferma qui. Forse si saranno potuti trarre alcuni germi del modo di essere, di sentirsi, di radicarsi, di organizzarsi, di venire rappresentati, delle categorie, dei ceti, degli ambienti di allora.
Le stesse terminologie allora erano molto semplici, talvolta solo rudimentali. L'italianese non c'era, come non c'erano il politichese, il burocratese (oggi al massimo vertice ne viene denunciata la "palude"), la selezione delle parole fra le settemila e forse le diecimila dei vocabolari. Non erano definite "muscolari" le affermazioni degli avversari. Non c'era lo "sciopero virtuale", che prospettato non si ha il coraggio di far capire cos'è e tanto meno di proclamare, ecc. C'è invece l'inderogabile impegno di rinnovamento, pure verbalistico. Che però è questo.

Insieme con i lavoratori
Una categoria, le categorie. Un settore, i settori. Il sistema e il suo tempo. Il tutto con l'occasione di averlo vissuto da dentro, e fra l'altro prima ancora che come osservatore, per generale definizione professionale, anche operatore, che alla rilevanza o meno delle qualifiche che gli possono essere attribuite antepone anche qui unicamente la possibilità che ha avuto di riferire solo tratti constatati, e cioè testimonianze. Inadeguate e insoddisfacenti quanto si vuole, ma reali.
Il mio primo incontro con i lavoratori è avvenuto nel gennaio 1935. Erano i lavoratori del commercio, e cioè allora quelli del commercio alimentare, dell'abbigliamento, del turismo, dei dipendenti da studi professionali (quasi esclusivamente le dattilografe di una volta), dei portieri. Sei categorie, con livelli ed allocazioni, generatori di un chiaro indotto pure comunicativo, enucleate l'anno prima dalla Confederazione Generale e quindi parte del sistema definito corporativo.
Il mio accesso derivò da un generico invito ai giovani a disimpegnare compiti di studi economico-sociali e di rappresentanza.
Questa Confederazione era allora surclassata notevolmente da quelle dell'agricoltura, dell'industria, del credito. Lo stesso presidente, pur essendo fra i suoi colleghi uno dei più dotati culturalmente, si era imposto un costume e un modo di essere di estrema parsimonia, che quanti con lui hanno collaborato hanno condiviso, per lo meno con i loro stipendi. C'è perciò fra i miei "medaglioncini" uno che dedico a lui, a quanto ha saputo insegnare (e di ciò purtroppo ci si accorge quasi sempre quando la partita è finita da tempo).
Ma ai vertici allora c'erano altri personaggi riconducibili a medaglioncini.
C'era soprattutto un ragioniere, che nove anni dopo da membro del Gran Consiglio per il suo voto contrario al regime veniva fucilato a Verona. Era un pluricompetente, in quanto tali allora si ritenevano così qualificati, se si era ragioniere. Ne ho conosciuti diversi con tale qualità o tale pretesa e numerosi allora erano i consiglieri della Camera dei Fasci e delle Corporazioni con tale titolo di studio.
Questo mio medaglioncino si riferisce a persona "competente" e disponibile con lunghi appunti sui vari temi agricoli: macellazione, latte, conserve alimentari, ecc., perché partecipazioni e presenze personali, familiari, di amicizie gli consentivano - era la sua convinzione - non solo di essere documentato, ma di poter documentare anche gli altri. Da una parte e dall'altra ci contentavamo così, anche per conto dei lavoratori che rispetto a tante materie in esame non avevano alcun interesse di categoria, però avevano anche l'obbligo di rappresentare i consumatori.
C'era un altro, ragioniere, che dirigeva i dipendenti del turismo. Un ingegnere, per i portieri. Due laureati: per l'abbigliamento uno e per gli studi professionali l'altro. Erano personaggi in fieri, che facevano ambiente e che dovevano preparare un domani, che non c'è stato o che non conosco. Il tutto era riconducibile a quella che da più parti, ma per altri settori, è stata definita "categoria silenziosa".
L'intero sistema era allora profondamente diverso non solo per ragioni di regime, ma anche per semplice cronologia. Il terziario era terziario anche allora, ma non era stato ancora inventato il terziario avanzato. Oggi si sono spostate certe orbite, per cui una prima di spettanza commerciale ora lo è divenuta dell'industria, per il sopravvento di tecnologie, sinergie, integrazioni, dimensioni, compatibilità, ecc., che stanno differenziando sempre più un giorno dall'altro.
Ma tutto si viene riassumendo nel prodotto da una parte - categoria nella quale c'è tutto, a cominciare da quello del pensiero - e nella circolazione e comunicazione dall'altra. Il mercato dal canto suo non è mai all'ultimo anello, avendo confini e identità continuamente in laboratorio.
Perciò quando oggi si dice "fare sindacato", realizzare l'etica del lavoro, flessibilità contrattuale, smitizzazione del posto fisso (negli USA sanno che ogni lavoratore nella sua esistenza cambia mediamente tre posti di lavoro), e per contro mitizzazione della rigidità del rapporto di lavoro, concertazione da mano di ferro o da mano di velluto, realizzare l'unificazione, dire o fare "Welfare", si manifesta una fibrillazione, ma ci si affida alla creatività del sillabario. Un sillabario, bisogna aggiungere, che purtroppo per quanto concerne il vissuto che veniamo qui considerando non ha ancora la sua esauriente biblioteca, e cioè la sua bibliografia.
Ad ognuno di noi è occorso di vedere o leggere titoli estremamente particolari in queste materie, ma limitate sono le tracce da non dimenticare prima ancora che come tradizione, come insegnamento. In sostanza la vita, l'essenza delle categorie meritano, richiedono una storia che non c'è o è ancora zoppa.
Dicevamo prima delle parole e del linguaggio. In più di 50 anni nessuno, ad esempio, ha avuto il coraggio di pronunciare la parola serrata. Qualcuno solo timidamente ha detto che la Costituzione, prevedendo lo sciopero, consentiva implicitamente la serrata. Altri più o meno timidamente dicono che il loro non è sciopero, ma astensione dal lavoro. Altri affermano ancora che la loro non è cessazione di attività non concordata, ma solo chiusura per inventario e così via con i tanti surrogati, le cui promesse si esauriscono nella denominazione, nella vaghezza, nel contingente, nell'affermazione di diritti inalienabili ma ipotetici, in una creatività che spesso partorisce fantasia, demagogia o pretese per lo meno immature. In sostanza, il ricordo, i ricordi - come tentiamo di riviverli in queste pagine -conducono purtroppo inesorabilmente a questi raffronti, che non fanno altro che sottolineare che i gradini innanzi al nostro avvenire sono tutti ripidissimi.
Il mio coetaneo, ma famoso, Norberto Bobbio, ha testé pubblicato la sua autobiografia, che è quella del secolo e che segue al suo De senectute, promesso come il suo ultimo scritto. Nel commentarla, afferma che per lui non è possibile pensare a gradini da risalire, ma solo a gradini da scendere. L'avvenire comporta tutto l'opposto ed è difatti interamente, urgentemente in salita, con pause e rallentamenti che non sempre la realtà storica registra.
Che dice, infatti, il commercio di questo secolo? Agli inizi degli anni '10 c'erano nel mio paese del Sud un banditore comunale che non dava solo molto rare comunicazioni municipali, ma dava specialmente notizia che al mercato era arrivato il pesce o erano in vendita pomodori e peperoni. C'era un panificio privato, ma c'erano tanti forni in cui affluivano per la cottura le panelle delle famiglie, c'era solo un salumiere, c'era una trattoria albergo che pretendeva di essere l'una e l'altro, c'erano tre caffè con pasticceria o gelateria per festività di ridottissimo dosaggio. Nei grandi centri diversi e naturalmente migliori erano i livelli, ma il treno, pur con i diversi vagoni, si muoveva nel complesso così.

"Fondamentale" della vita umana: l'artigianato
Ed eccomi al terzo mio itinerario: quello dell'Artigianato. 1938. Dal lavoro dipendente al lavoro autonomo.
Ricordo spesso i riscontri suscitati dal quasi mezzo secolo con il quale ho avuto a che fare con l'artigianato, in una veste o nell'altra.
Esso "nel mezzo del cammino" mi ha trovato di fronte, a Piazza Navona in Roma, alla domanda di un artigiano che era riuscito a percepire il sommesso giudizio negativo su un suo manufatto offerto al pubblico che io esprimevo a mia moglie: "secondo lei l'artigianato deve morire?".
Pensavo e penso invece esattamente il contrario, perché l'artigianato rappresenta un "fondamentale" della vita umana, non solo come espressione produttiva in perenne consonanza e spesso anticipazione della vita reale, ma anche quale valore tra i maggiori della sintesi tra mente e mano dell'uomo.
Naturalmente la creatività che ne discende incontra diversi livelli, subisce limiti che non sempre rispetta o rispecchia capacità che non possono essere statiche, sia nelle prestazioni artistiche o parartistiche sia in quelle d'ordine tecnico. Di qui anche la vasta articolazione delle funzioni delle organizzazioni di categoria che l'artigianato si è dato nel tempo, fra l'altro con il primato della formazione e dell'indirizzo.
La mia esperienza risale, come ho detto, al 1938, allorché mi fu offerto di dirigere l'ufficio studi e stampa della federazione artigiani, facente parte allora unitariamente della Confindustria.
Avevo così a che fare con una realtà i cui inizi, come si sa, risalgono alla notte dei tempi: proprio in queste settimane le cronache hanno riferito che quattro ceramisti di 2300 anni fa hanno lasciato i segni delle loro mani sulla creta e sulla vernice di vasi ritrovati da archeologi e studiosi in un'officina di Metaponto, così da rendere riconoscibili le differenti specializzazioni e persino i gesti professionali più tipici degli antichi artigiani.
L'Italia artigiana ha anche questi valori alle spalle: dalla bottega all'impresa (anche alla società a responsabilità limitata di oggi), dalle strade indicative della prevalenza dell'esercizio di un mestiere (baullari, coronari, guantai, orefici, ecc.) a poli fondati su di un solo manufatto (la ceramica, ad esempio), dall'esercizio di funzioni e prestazioni ad utenza personalizzata tradizionali e addirittura che si vengono inventando al villaggio (oggi) artigiano di Modena est, con una maxicooperativa produttrice di robot, macchine strumentali per l'agricoltura, ecc. Robot e artigiani: un binomio fino agli inizi degli anni '90 (ma io ho avuto la ventura di esserci, quale consulente dell'Artigian-Cassa) impensabile, ma oggi e più ancora domani quanto mai vivificatore e complementare.
La stessa alfabetizzazione della tecnologia di cui oggi si parla e che significa utilizzazione, riparazione, applicazioni ulteriori, trova proprio nell'artigianato la risposta attitudinale più pronta.
La Federazione che ho trovato aveva un capo, dotato indubbiamente di carisma, animato dalle intuizioni, dalla capacità comunicativa, con la parola però non spontanea ma lungamente predisposta. Un capo che si era innalzato o lo avevano innalzato al vertice e che Mussolini, all'atto del cambio della guardia con altro presidente, definì come "poeta". Con queste mie poche parole egli rientra in uno dei miei medaglioncini: si chiamava Vincenzo Buronzo.
La burocrazia di questa Federazione era meno organizzata e forse a livello professionale inferiore a quella che avevo lasciato ai lavoratori del commercio. Gli schemi organizzativi e strutturali erano buoni, ma gli elementi direttivi erano in transito, assorbiti o prima o dopo da compiti maggiori nella Confindustria.
Così mi è occorso di avere (anzi trovare) come collaboratori nell'ufficio stampa un ingegnere, un restauratore, un ex segretario di Marinetti (che, come si sa, amava circondarsi di segretari, in quanto gratuiti e attivisti del suo futurismo) e di dover provvedere al rinnovamento di un settimanale con 300.000 abbonati. Esso prima era diretto da un fedelissimo di Balbo, che ne aveva seguito le sorti di Governatore della Libia e che solo per sopravvenute circostanze non era fra quelli, tutti amici, che Balbo era solito avere con sé nei suoi viaggi aerei, allorché vi fu il siluramento alleato nel giugno del 1940.
L'ex direttore del mio settimanale era fra quelli che recavano la bara di Balbo, che fu onorato -come si sa - con il lancio dei fiori degli aviatori inglesi che lo avevano silurato. Penso che sia doveroso ricordare queste cose da parte di chi lo può fare.
I filoni di svolgimento della promozione, dell'assistenza, della difesa di questa categoria, che in antecedenza aveva attraversato le romane Corporazioni, quelle medioevali, l'intreccio dell'Arte con le arti minori, le grandi e veterane associazioni dei barbieri o dei sarti, dei ceramai o degli orefici, ecc. sono stati rappresentati negli anni '30 dalla stretta complementarietà tra Federazione ed Ente nazionale per l'artigianato e la piccola industria (ENAPI).
Di qui l'assistenza sindacale, quella economica, la strutturazione organizzativa di centro e di periferia, l'azione promozionale e di comunicazione esplicate dalla federazione; di qui, nell'orbita dell'ENAPI l'azione artistica fra l'altro con la creazione di prototipi da valere per la produzione artigiana a complemento di quella propria dei maestri d'arte (la Mostra Mercato dell'Artigianato a Firenze è nata così), l'assistenza professionale con compiti di formazione sempre rinnovantisi nei contenuti e nelle metodologie, l'assistenza tecnica, che si fondava in larga misura nell'espletamento delle procedure relative a brevetti (gli artigiani ne erano e ne sono particolarmente fecondi, ricchi di una fantasia che non di rado è però pure sotto le righe), l'assistenza per le esportazioni, quella infine per il credito, nell'assenza però allora di un'Artigian-Cassa poi fortunatamente o attivamente sopravvenuta.
L'artigianato ha dunque battuto e batte queste strade. Si può definire il battistrada produttivo, sociale, culturale (nell'ampiezza di valori che si attribuiscono oggi a questa parola) del ceto medio, con la sua larghissima stratificazione e interna accessibilità.
E' un battistrada che dà un'autorisposta alla sua qualificata offerta di lavoro, che si è addestrato alla gestione, che forma e dà lavoro. Ha conseguito nel tempo corrispondenti strumenti di salvaguardia e di espansione, ha pure incontrato la retorica di certi riconoscimenti, abbisogna di clima e di aggiustamenti che riguardano la bottega-impresa, modi di essere, entità e ritmi dell'occupazione, l'inserimento diretto (condizionante e condizionato) dell'artigianato tra i "fondamentali".
Tre nomi, ed a me è occorsa la ventura di collaborare con essi, hanno battuto fin qui questa strada: Buronzo, un ex federale di Torino, un marchigiano che a metà degli anni '30 era solo segretario dell'Artigianato di Macerata ed è morto da presidente onorario della propria Confederazione. E' trascorso un secolo?

Oltre mezzo secolo della rinata Confindustria
Il mio quarto itinerario, infine, è quello percorso nella Confindustria, quella centrale per intenderci, e cioè né settoriale (federazioni), né territoriale (associazioni).
Mi è occorso di assistere agli ultimi aneliti della precedente, il 4 giugno del 1944, allorché l'ultimo apolitico (disimpegnato, si direbbe oggi) dirigente presente a Roma si accingeva ad abbandonare la sede, in Piazza Venezia, anzi a consegnarla al colonnello americano Poletti, che aveva il compito di assumere l'amministrazione civile alleata nella Capitale. lo ero lì semplicemente per cercare di esigere il residuo della liquidazione del mio rapporto di lavoro con l'Artigianato. La questione - com'è "rituale" - fu ripresa tre o quattro anni dopo.
E' invece nel '46 che a richiesta confederale mi "feci rivedere". La sede non era più quella, ma a Palazzo Grazioli in via del Plebiscito. Anche l'appoggio di una finestra, allora, poteva essere punto di riferimento di un ufficio. La sala stampa era nel cortile, all'aperto.
Gli industriali romani e a mano a mano quelli del Sud vi erano di casa. Quelli del Nord vi erano giunti da poco. Con essi era giunto anche Angelo Costa, che è stato il rifondatore della Confindustria costituita nel 1919. I suoi superstiti che hanno collaborato con lui hanno l'anagrafe contro di loro. Non sono censibili. Ma a me è occorso di essere uno di questi.
L'avevo intravisto anni prima alla Corporazione Olearia, quale rappresentante di questo ramo. E con lo sguardo, forte e pure sorridente, mostrava a chi voleva accorgersene la sua identità, quella dei creatori d'industria di una volta.
Ha avuto innanzi a sé tre compiti urgentissimi e primari: ricostruire unitariamente la struttura, determinare e difendere una nuova politica industriale, praticare, con le intuizioni e con senso sociale non di opportunità ma di convinzione, la sempre difficile condotta sindacale.
Il suo è stato il tempo compreso tra il 1946 e il 1970: quasi cinque lustri, anche se nel corso di essi vi sono stati due altri presidenti (De Micheli e Cicogna) ai quali è successivamente subentrato, e non per suo desiderio. Tempo estremamente difficile: del referendum costituzionale, della Costituzione, delle elezioni del 1948, del punto di forza dei sindacati fondato sui consigli di gestione, della scissione delle organizzazioni dei lavoratori (Costa ne auspicava la forza e a me pure confidenzialmente lo confermava, non nascondendomi il personale apprezzamento, che poi era reciproco, per Di Vittorio, 50 anni dopo, e cioè oggi, definito "comunista dal volto umano").
Di quegli stessi tempi scrive anche Giovanni Agnelli (ma solo con riferimento ai 50 anni della Ferrari), con un 1947, lancio del Piano Marshall e della dottrina Truman, della visita di De Gasperi negli Stati Uniti, dell'adesione dell'Italia agli accordi di Bretton Woods al Fondo Monetario, ecc. Ma gli anni della ricostruzione industriale ed economica (ai quali sono legati quattro nomi: De Gasperi, Einaudi, Costa, Di Vittorio), dei Trattati di Roma, dello sganciamento delle aziende a partecipazione statale dalla Confindustria (con le note motivazioni unicamente partitiche che lo determinarono), della liberalizzazione degli scambi, della nazionalizzazione dell'industria elettrica, delle contestazioni e della "contestazione" del 1968, questa durante la rinnovata presidenza Costa. 50 anni, con il culmine a tutt'oggi del quadro economico sociale, quanto mai valido nella sua realtà, che ha tracciato il Governatore della Banca d'Italia il 31 maggio 1997.
50 anni durante i quali la Confindustria ha avuto 9 presidenti, fra cui l'attuale, 4 direttori generali (di cui uno segretario generale dalla ricostruzione al 1970). I soggetti dei miei medaglioncini potrebbero essere diversi. Ma per Costa ci sono i suoi scritti, raccolti da Franco Mattei, che è stato ai vertici della Confindustria e l'ha lasciata perché non gli piaceva che le notizie che lo riguardavano dovessero pervenirgli dagli altri e non da chi aveva il dovere di dargliele, e questi dopo, in altra sede, fruì del recupero dello stesso Mattei che ricercava.
Per gli altri presidenti, c'è più che altro da sottolineare la sempre più approfondita procedura selettiva, seguita poi anche da altre organizzazioni di categoria, in un incrocio di fattori diretto ad equilibrio ed efficienza nello sviluppo. Rispetto all'industria: motore e specchio. Nella cultura, nel metodo, nello stile. Vi sono state anche fasi di magistero, non so se ancora vi siano o si comincino ad attraversare. Vi era nella stessa sua burocrazia quello che qualcuno che se ne intendeva e la praticava perfino nell'arredamento chiamava "stile della casa".
Vi erano le assemblee annuali, con la doverosa solennità ufficiale accompagnata da una certa festosità, che mi suggeriva il fortunato paragone di "sorta di festa del sabato del villaggio".
Vi era il travaglio della costituzione e gestione del Comitato per la piccola industria, che ebbe anche come presidente un geometra, da me elevato ad ingegnere per migliorare la figura nelle comunicazioni esterne (alla Confindustria però qualcuno domandò da quando la stessa aveva la facoltà di rilasciare lauree: allora però la Luiss Guido Carli non c'era).
Vi era il Comitato dei Giovani, con il quale si faceva loro largo. Dove? Nelle loro aziende, dove il titolare già era l'avente diritto? Nella società, con le loro promesse e con i loro progetti? Al fondo vi era e vi è, sempre, il principio di Croce, secondo cui il problema dei giovani è quello di crescere.
Comunque attraverso i giovani è arrivato in Confindustria il cosiddetto Piano Pirelli, da cui è derivata la nuova fase della Confindustria, con il cambio della denominazione di segretario generale in quella di direttore generale. L'inizio si caratterizza con il primo direttore generale, già vice segretario generale della precedente. Il resto è storia sotto gli occhi di tutti.
Le angolazioni naturalmente sono: la rappresentativa ed organizzativa, con la relativa motivazione da valere anche per le comunicazioni esterne; la politica economica, quale risultanza di analisi, compatibilità, sintesi perciò nella pratica delle conseguenti strategie; l'attività sindacale, quale convergenza di due sovranità in coabitazione.
La Confindustria aveva ed ha i suoi archivi al riguardo. Dispone dei mezzi perennemente miracolistici dell'informatica. Non ne ha fatto però materia di pubblicazioni o di celebrazioni. Non so se c'entra o non c'entra lo stile. Oppure c'entrino come stimolo alla semplicità le stesse variazioni di abbigliamento sportivo di qualche esponente di vertice, con l'esibizione non evitata della casualità esteriore. Ma di ciò ho avuto occasione già di scrivere su queste pagine.
Nel corso della mia vita confindustriale (tutta svolta nel ramo delle relazioni esterne, tutte rilevabili all'esterno stesso, ma non recepita negli strumenti computerizzati interni e nel pur necessario confronto di esperienze) mi è occorso di riscontrare nella Confindustria una certa "filia del carabiniere". Voleva dire allora pregiudiziale dell'ordine, della stabilità, della normalità.
I tempi sono cambiati. I valori anche. Ci sono il vecchio, il nuovo, gli eterni corsi e ricorsi. Il tutto si accompagna a nuove terminologie. I giovani a loro volta hanno la propria; escludono secondo una pubblicazione dell'Accademia della Crusca dalla loro orbita "chi non è addestrato".
Ma l'addestramento non è ancora neanche il loro. E' da compiere, ad esempio, per il mercato, per il "Welfare State", per lo sviluppo, per l'occupazione, per Maastricht, per la stessa scienza economica che in due secoli, secondo alcuni, ha offerto solo ricette da prendere con le molle.
Ma c'è soprattutto, estremamente difficile e veloce, per tutte le categorie di cui fin qui ho detto, il percorso da compiere. Esso riguarda moneta e inflazione, politica economica e struttura economica, fiscalità, commercio internazionale. 47 istituti di ricerca economica di tutto il mondo ci collocano all'ultimo posto fra i 20 Paesi maggiormente industrializzati del mondo. In particolare, abbiamo un buon voto per moneta-inflazione e per commercio internazionale, sufficienza nelle politiche di governo, crollo nella fiscalità, giudicata tra la più alta del mondo. Non è oro colato anche questo, confrontiamolo perciò con quanto sappiamo ed affrontiamo.
Per fortuna c'è il nuovo millennio sull'uscio di casa. Tutti abbiamo un dovere in più e fra gli altri innanzi a noi gli istituti - conosciamoli così - fin qui richiamati: le categorie.


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