CONSERVATORI D'ITALIA




Sergio Romano



Il presidente del Consiglio ha detto che la riforma del sistema pensionistico entrerà in vigore nel '98 e si farà "col consenso delle parti sociali". Avremo quindi, se non una concertazione, un negoziato in cui il governo avrà di fronte a sé le grandi centrali sindacali. Cercherò di spiegare perché questa scelta mi sembra sbagliata e pericolosa.
Può darsi che i sindacati si dimostrino al momento della trattativa abbastanza comprensivi e ragionevoli. Non credo che la Cgil, in particolare, voglia assumersi la responsabilità di avere provocato il fallimento della politica europea del governo. Ma il negoziato, come quello del '95, avrà inevitabilmente il risultato di confermare e rafforzare lo statuto ufficiale che le grandi centrali hanno acquistato di fatto nella vita istituzionale italiana. Se faranno qualche concessione, i tre leader sindacali avranno tuttavia ottenuto ciò che maggiormente preme ai sindacati italiani: il diritto di essere considerati, a tutti gli effetti, i "plenipotenziari" della società, i rappresentanti accreditati del "mondo del lavoro" per tutte le questioni -salari, privatizzazioni, dismissioni, previdenza, sanità - che lo concernono direttamente o indirettamente. E' una finzione. Non mi riferisco soltanto al fatto che nessuna legge permette di verificare il grado di rappresentanza e democrazia di una organizzazione sindacale. Mi limito a osservare che la centrale sindacale non è più in grado di rappresentare la complessità del "mondo del lavoro". Ormai sono anni che il sindacato si espande applicando la formula del "franchising". Come Benetton concede a un negozio il diritto di fregiarsi del proprio marchio e acquista in tal modo una vetrina di cui non è proprietario, così il sindacato concede il proprio nome a gruppi di dipendenti, soprattutto nell'amministrazione dello Stato, che perseguono obiettivi strettamente corporativi. Il meccanismo è semplice. Per evitare che gli vengano sottratti dal sindacato bianco o verde, il sindacato rosso accetta di farsi rappresentare da un "concessionario" che si riveste della sigla nazionale, ma bada soprattutto a fare una politica di bottega corrispondente alle sue ambizioni e agli interessi dei suoi affiliati.
Il grande sindacato è divenuto così responsabile, obiettivamente, di buona parte dei vizi e delle storture che affliggono il pubblico impiego: la giornata corta, il doppio lavoro, la soppressione delle note di qualifica e del giudizio di merito, l'impunità degli inetti, l'appiattimento delle retribuzioni. Per tirarsi dietro il maggior numero possibile di affiliati, il grande sindacato è divenuto nella realtà una confederazione di piccole sovranità - i ferrovieri, i postini, i paramedici, gli insegnanti, i bidelli, gli impiegati dei singoli ministeri -decise a difendere le loro prerogative. Per continuare ad esistere ha rinunciato a qualsiasi coerenza unitaria. Beninteso, questa strategia non ha impedito che esplodesse sin dagli anni '70 il fenomeno dei "Cobas", vale a dire dei gruppi autonomi su cui la grande centrale sindacale non ha alcuna influenza. Abbiamo così la doppia sventura di dover continuamente negoziare su due fronti: con una centrale sindacale che rappresenta mediocremente una buona parte dei suoi iscritti, e con i sindacati autonomi che non tengono alcun conto degli accordi nazionali.
A questo fenomeno, già vecchio, si è aggiunto un altro, recente. Stiamo assistendo da qualche anno a una sorta di rivoluzione del lavoro. L'informatica e la robotistica hanno drammaticamente aumentato la produttività individuale e stanno falcidiando alcune centinaia di migliaia di vecchi posti di lavoro. Sorprendersi che le fasi di espansione economica, in queste circostanze, non producano nuovo lavoro e che la disoccupazione sia diventata "strutturale", è solo ingenuità o scaltrezza. Poiché nessuno potrà mai disinventare il computer o il robot, l'unica risposta possibile a questa "rivoluzione del lavoro" è quella che è stata data dall'America, dalla Gran Bretagna e dai Paesi Bassi: per creare nuova occupazione occorre incoraggiare l'imprenditore a correre nuovi rischi e liberarlo dai lacci con cui governo e sindacati gli impediscono di muoversi più liberamente sul mercato del lavoro. Ma i sindacati si oppongono o fanno, nella migliore delle ipotesi, una defatigante battaglia di retroguardia. Vogliono continuare ad essere "plenipotenziari", non vogliono perdere il diritto di rappresentare ciò che ancora si continua a definire, anacronisticamente, "classe operaia" o "inondo dei lavoratori". Per ragioni facilmente comprensibili - nessuna istituzione è pronta ad accettare una prospettiva che mette in pericolo, in ultima analisi, la sua stessa esistenza - sono diventati i veri conservatori della società italiana, il fattore che maggiormente impedisce o rallenta la modernizzazione del Paese. Ne abbiamo una conferma indiretta nella paradossale constatazione che i soci della prima organizzazione sindacale italiana, la Cgil, sono in maggioranza pensionati.
E' giusto che il sindacato dei pensionati negozi col governo una riforma, quella delle pensioni, da cui dipende non tanto la loro sorte, quanto il futuro dei nostri figli? Ciò che accadrà prossimamente, quindi, è esattamente il contrario di ciò che serve al Paese. La strada della modernizzazione e dell'Europa vorrebbe uomini di governo capaci di denunziare la finzione della rappresentatività sindacale e di rompere il monopolio delle grandi centrali. E' quanto è accaduto, ad esempio, in Inghilterra, e, prima ancora, negli Usa. E non stiamo citando due economie con la spada di Damocle sulla testa, come quella italiana.


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