PREMATURE EUFORIE




M. B.



A ben vedere, ci sono più motivi di preoccupazione che ragioni di entusiasmo nei resoconti che parlano di una nuova ripresa economica. Che ci sia poco da festeggiare lo sanno gli italiani che stringono la cinghia in attesa di trovare lavoro; lo sanno i commercianti che abbassano le saracinesche; lo intuiscono quelli che immaginavano un futuro di protezioni previdenziali garantite e illimitate e che oggi rifanno i conti su prospettive molto diverse; lo sanno le aziende, grandi e piccole, soffocate da una pressione fiscale che non ha pari nel mondo industriale. Ma lo sanno anche l'Esecutivo e la Banca d'Italia, costretti a non mollare l'energica presa a tenaglia di tassi e tasse nella quale hanno chiuso il Paese per curarne le patologie più gravi.
Proprio la debolezza economica e l'instabilità psicologica di questi tronconi della società italiana, unite all'irrinunciabilità delle drastiche terapie fiscali e monetarie, rendono inattendibile l'aspettativa di un'uscita rapida e duratura dalla stagnazione nella quale ci troviamo da lungo tempo. Le spinte economiche possono, del resto, venire da quattro elementi: i consumi privati, la domanda estera dei nostri prodotti, gli investimenti delle imprese in macchinari e attrezzature, le grandi opere commissionate dallo Stato. Di questi fattori, uno soltanto sta oggi "lavorando" in modo discreto - la domanda estera del made in Italy - mentre i consumi sono in larga parte mossi dagli acquisti di nuove automobili a condizioni vantaggiose per effetto degli incentivi alla rottamazione. Il terzo elemento, gli investimenti aziendali, non si fa più "sentire" da quando sono scaduti i termini della legge Tremonti che, praticamente da sola, aveva sorretto la congiuntura industriale nel '95 e nel '96, premiando fiscalmente il reimpiego degli utili delle imprese. Infine, di commesse pubbliche in grado di movimentare risorse economiche significative non si può ragionevolmente parlare.
Gli unici chiari segnali di vitalità vengono, a conti fatti, da artificiose promozioni della domanda interna e da ordini esteri sui quali, col cambio della lira ormai bloccato, difficilmente si potrà fare affidamento nel futuro. Poiché grandi opere e cantieri sono chiusi dai tempi di Tangentopoli, è da circa un quinquennio che la nostra economia langue, sostanzialmente inerte e anemica. Ogni rimbalzo degli indicatori economici va valutato in questo scenario: un "profilo" recessivo nel recente passato e una modesta aspettativa di stabilizzazione per il futuro immediato, tanto che il governo reputa ancora "Impegnativo" l'obiettivo, invero poco entusiasmante, di una crescita dell'1,2% del Pil nel '97.
Da questa situazione di stallo non si uscirà fin quando l'economia italiana, abituata da quasi trent'anni a sfruttare gli effetti di ripetute svalutazioni della lira e le regalie di una finanza pubblica di manica larga, non avrà recuperato altrove le flessibilità e le risorse che non possono più venire ormai dalle manovre di cambio e da quelle non meno spregiudicate di bilancio statale. I fronti sui quali cercare queste flessibilità e queste risorse sono principalmente due: il fisco e il mercato del lavoro. Si capisce, quindi, perché i facili entusiasmi siano fuori luogo.
Accanto ad ovvie ragioni di prudenza c'è, comunque, qualche motivo di ottimismo. Il primo sta nella percezione che il pericolo di una prematura "bocciatura" dell'Italia nella corsa a Maastricht sia stato scongiurato. Chi temeva (ed erano in molti) una crisi politica ed una emergenza finanziaria rovinosa già per la scorsa estate, ha potuto tirare il fiato. Il secondo motivo è più tecnico, ma non meno importante: la Borsa italiana, avvicinandosi ai valori record della metà degli anni '80, non ha fatto che recuperare, e solo in parte, il gran ritardo accumulato rispetto a tutti i principali mercati azionari internazionali. Infine, inflazione e tassi di interesse calanti inducono a rimpiazzare investimenti in Bot con altri in titoli azionari per cercare rendimenti decenti. Le ricchezze che gli italiani affidano sempre più ai professionisti dei fondi comuni e dei fondi pensione, delle assicurazioni, delle gestioni patrimoniali e delle Sim, mettono così in moto un processo di sostituzione tra diverse forme di risparmio che, tuttavia, non può essere provocato per una ritrovata propensione al rischio finanziario. L'ipoteca di un brusco crac che aleggia su Wall Street e l'affannoso cammino dell'economia italiana inducono a tenere i nervi ben saldi. Del resto, chi fece baldoria nell'86 ha poi vissuto i tempi ben più magri dell'ultimo decennio, o ne serba chiari ricordi.


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