L'ITALIA CONFISCATA




Maleo Rublo



Incredibile, ma vero: si torna a parlare dell'Iri per lo sviluppo dell'occupazione nel Sud. Anzi, dovrebbe trattarsi di un kombinat, cioè di due Iri in una: la prima struttura dovrebbe interessarsi dell'industria in genere, la seconda dell'impresa industriale nel Mezzogiorno. Duro a morire, lo statalismo rimette le mani avanti, alla faccia dell'economia di mercato, dell'Europa di Maastricht, della globalizzazione, e via fanfalucando. Quale sia la realtà peninsulare ce lo dice il rapporto annuale che il Fraser Institute, un centro di ricerca canadese, in collaborazione con analoghe istituzioni operanti in 47 Paesi, pubblica sullo stato della libertà economica del mondo (Economie Freedom to the world 1997).
Il rapporto riassume un indice di libertà economica per i vari Paesi, allo stesso modo di due altre fondazioni americane: la Freedom House e la Heritage Foundation in collaborazione col Wall Street Journal.
Come è logico, la misura dell'indice di libertà economica presenta complesse difficoltà, ed è quindi comprensibile che si abbiano opinioni molto diverse circa la maniera migliore per quantificarlo. Infatti gli indici dei tre rapporti sono desunti in base a criteri differenti. Tuttavia, queste differenze metodologiche che intercorrono fra le tre misurazioni dell'indice di libertà economica non ci interessano perché, malgrado le differenze di metodo, tutti e tre gli indici forniscono un'indicazione sconsolante per ciò che riguarda l'Italia. Secondo la graduatoria dei Paesi curata dal rapporto del Fraser Institute, infatti, l'Italia si colloca al 55° posto, a pari merito con la Colombia, la Lituania e l'Ecuador.
Fra i Quindici Paesi membri dell'Unione europea siamo al penultimo posto, visto che precediamo soltanto la Grecia. Gli altri due rapporti giungono a conclusioni analoghe.
Si tratta di dati che non possono stupire nessuno. Siamo tutti consapevoli dell'enormità delle vessazioni che ci vengono imposte: una mole insensata di restrizioni legislative e amministrative alle attività economiche, una congerie di imposte, tasse, tributi e balzelli vari, alcuni dei quali di sapore addirittura medioevale. Ma, soprattutto, l'utilizzazione della maggior parte del nostro reddito è decisa da politici e da burocrati, anziché da noi. Infatti, a partire dal 1982, immancabilmente, oltre il 50 per cento del reddito prodotto ogni anno è stato fagocitato dalla spesa pubblica, assorbito dal canali politico -burocratici e sottratto ai singoli, alle famiglie e alle imprese. In particolare, nel 1996 il settore pubblico ha assorbito il 53,6 per cento del Prodotto interno lordo, e soltanto il 46,4 per cento è rimasto in mani private.
Se consideriamo la libertà di utilizzare il proprio reddito come fondamentale caratteristica di un'economia libera, il che ci sembra del tutto ovvio, l'Italia è un'economia libera, privata, di mercato per il 46,4 per cento, ma è statizzata, collettivista, da socialismo reale per il 53,6 per cento.
Né il problema riguarda soltanto l'utilizzazione del reddito prodotto, cioè il livello della spesa pubblica e delle tasse, ma investe persino la proprietà dei mezzi di produzione. Un paio di anni fa, il settimanale inglese The Economist, in uno studio sull'economia della Federazione Russa, sostenne che l'economia russa è più privata di quella italiana! E ancora, la diffusione della proprietà azionaria, che costituisce uno degli indicatori principali del carattere "capitalistico" dell'economia, è in Italia assolutamente marginale. Basti pensare alle dimensioni della nostra Borsa, il cui valore capitalizzato rappresenta poco più del 25 per cento del Prodotto interno lordo: ridicolo, se raffrontato all'oltre 150 per cento del Regno Unito e all'oltre 120 per cento degli Stati Uniti.
Basso indice di libertà economica, spesa pubblica che assorbe oltre la metà del reddito, tassazione da confisca, un settore pubblico gigantesco, vorace e inefficiente, diffusione minima della proprietà azionaria: se dovessimo classificare l'economia italiana non avremmo elementi sufficienti per definirla "di mercato" o "capitalistica". Guardando ai dati obiettivi, dovremmo concludere che l'Italia ha un'economia da Paese collettivizzato, dominato dalla burocrazia, dallo statalismo, dal dirigismo, dalla fiscalità. Dunque, altro che rilancio dell'Iri! Già la nostra fantasia bizantina ha inventato gli zoccoli e i noccioli, gli uni e gli altri, ovviamente, "duri", che in realtà sono l'aggiramento sistematico delle autentiche privatizzazioni, quali sono state realizzate altrove, in Europa e persino nel Paesi dell'America Latina.
Se è vero che l'inefficienza pubblica, da un lato, e la parsimonia, la laboriosità e la creatività del nostro popolo, dall'altro, sono riuscite a compensarsi, ma con danni a senso unico, sempre registrati dalle seconde, dunque dalla parte migliore del Paese, che comunque è riuscito a salvaguardare un minimo di libertà economica e di benessere, è anche vero che bisogna invertire la rotta. Non possiamo più permetterei gli sprechi, le incongruenze, le vere e proprie strategie persecutorie del settore politico-burocratico, onnipresente e onnivoro, né possiamo rassegnarci alla decadenza cui ci sta condannando lo statalismo. Bisogna abbattere la cultura del pauperismo, quanto quella del livellamento verso il basso. Lo dobbiamo a noi stessi, e al nostri figli. Dobbiamo alleggerire il fardello insopportabile dell'ingerenza pubblica per consentire all'economia privata di riprendere la corsa verso il progresso. Prima facciamo questa autentica rivoluzione, meglio è.


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