L'ITALIA NELL' ECONOMIA GLOBALE




Mario Deaglio
Docente di Economia Politica all'Università di Torino



Nel quadro dell'economia globale di mercato, l'Italia occupa un posto rilevante: col 4,1% della produzione mondiale e una popolazione pari a circa l'1% di tutta l'umanità, è la quinta maggiore economia nazionale e precede, sia pure di poco, la Gran Bretagna. Anche con queste dimensioni, il Paese conta relativamente poco in termini qualitativi, ossia in quanto a peso del suo governo e delle sue imprese, nel determinare le scelte fondamentali dell'economia mondiale. Un peso che pare diminuito negli ultimi 5-10 anni.
Una simile realtà scomoda è stata sistematicamente ignorata dai mezzi d'informazione, quasi esorcizzata dal dibattito e dalla stessa coscienza nazionale degli italiani, i quali hanno continuato a ragionare e a comportarsi come se vivessero nella seconda metà degli anni Ottanta, quando un'Italia in forte espansione congiunturale sembrava sul punto di conquistare il resto d'Europa con lo slancio delle sue imprese. Pur essendo quei tempi ormai tramontati, gli italiani hanno l'impressione di essere, come allora, ammirati e persino amati nel resto d'Europa e nel mondo.
La realtà è diversa: l'Italia soffre di una forte caduta di prestigio in campo politico ed economico, divenuta ancora più evidente dopo il '96. L'eccezionale svalutazione della lira (da un quarto a un terzo dopo l'abbandono dello Sme nell'autunno '92) ne fece il bersaglio, non solo rituale, di pressoché tutti i Paesi europei che l'accusarono, nei fatti, di slealtà, e percepirono l'espansione delle esportazioni italiane come un pericolo per i propri commerci. Col rallentamento congiunturale del '95-'96, queste accuse divennero sempre più insistenti e furono una delle ragioni che spinsero Roma a un rapido rientro nello Sme, nel novembre '96. Ciò non bastò a impedire che la credibilità dell'Italia come membro affidabile della futura Uem venisse sistematicamente posta in discussione, con toni sempre più vivaci.
A questo profilo debole sulla scena politica internazionale, si deve aggiungere la debolezza, anche più marcata, osservabile nel confronto fra sistemi economici. Solo una Svizzera con crescita negativa ha tolto all'Italia la dubbia distinzione dell'ultimo posto nella dinamica congiunturale dei Paesi avanzati. In sintesi, l'Italia è un'ultima della classe volenterosa, che si impegna e ottiene risultati, ma è ancora distanziata dagli altri Paesi, sicché la promozione alla classe superiore resta comunque a rischio.
Oltre che dal secondo peggior tasso di crescita, l'Italia è infatti caratterizzata, nonostante i forti miglioramenti ottenuti, dal peggior tasso d'inflazione, e presenta altresì uno dei più elevati rapporti tra debito pubblico e Pil non solo d'Europa, ma di tutti i Paesi avanzati; uno dei maggiori deficit di bilancio; uno dei maggiori livelli d'interesse reale; uno dei maggiori livelli di disoccupazione, superata dalla Spagna e, in misura più lieve, da Francia e Belgio. Se poi si allarga l'arco temporale di osservazione, si può notare che la ripresa italiana è stata meno intensa e la sua tendenza recessiva più marcata di quella dei principali partners. Nel frattempo, il rapporto tra deficit pubblico e Pil, pur sensibilmente ridottosi, è ancora di poco inferiore al 7%, ossia di gran lunga il più elevato tra i Paesi avanzati. E segnali di sofferenza vengono anche dagli indicatori dei comportamenti collettivi: alcune indagini mostrano una riduzione del livello di vita e delle aspettative (dati confermati anche dall'Eurispes), e secondo l'Ocse le famiglie italiane hanno fortemente ridotto il proprio tasso di risparmio tra il '90 e il '96, perdendo il primato mondiale e collocandosi ai livelli di Giappone, Francia e Austria.
Ancora più discordanti dal normale assetto di un Paese avanzato appaiono gli indicatori economico-demografici: l'Italia ha il più basso tasso di natalità del mondo e il più basso tasso di fecondità: 1,2 contro 1,6 della Francia, 1,7 della Gran Bretagna, 2,0 della Svezia. La sua è una delle popolazioni che invecchia più rapidamente. In essa, il tasso di partecipazione alla forza-lavoro è tra i più bassi: il solo Messico presenta una percentuale inferiore di donne che lavorano.
Con un numero così ridotto di lavoratori, l'Italia è il Paese che dedica alle pensioni la quota più elevata del suo Pil, imponendo al sistema un peso sempre meno sopportabile, con trattamenti estremamente generosi e connotati da forti e irrazionali disparità. Anche il sistema di sostegno alla disoccupazione appare alquanto distorto, con sussidi ridicolmente bassi ai disoccupati e sostegni generosi ai cassintegrati.
In quasi tutti questi indicatori - e non si tratta, purtroppo, di un elenco completo, e neppure compilato con particolare cattiveria - la distanza percentuale dalle medie degli altri Paesi avanzati è peggiorata nel corso degli anni '90. Pur mantenendo l'Italia un insieme di favorevoli caratteristiche economico-sociali, l'impressione di gravi e crescenti debolezze, sia congiunturali sia strutturali, risulta fortemente avvalorata. Gli sforzi - coronati da lusinghieri risultati di breve termine - compiuti a partire dal '92, con un'accentuazione nel '96 e col varo della dura Finanziaria '97, miranti a controllare il debito pubblico, ridurre il fabbisogno dello Stato, abbattere l'inflazione, vanno giustamente collocati in questo, assai poco favorevole, quadro generale per misurare l'entità del problema che il Paese ha davanti.
In questo affresco di un Paese in delicata transizione, è opportuno esaminare il funzionamento delle istituzioni economiche, generalmente dimenticate, pur rivestendo un ruolo essenziale nella vita del Paese. E un esame spassionato non può non rilevarne non solo il cattivo funzionamento, ma anche la tendenza delle inefficienze a crescere nel corso degli ultimi anni, soprattutto in termini relativi, ossia nel confronto con il resto d'Europa.
Un indicatore sintetico del funzionamento del "sistema Italia" in ambito europeo è dato dal numero dei ricorsi per inadempimento contro singoli Paesi presentati dalla Commissione europea alla Corte di Giustizia: l'Italia è largamente in testa. I ritardi nell'adeguamento legislativo italiano alle normative europee e alle sentenze della Corte di Giustizia europea sono proverbiali. Questa lentezza si accompagna alla più generale difficoltà di prendere decisioni pubbliche di qualsiasi tipo, con immediate conseguenze economiche negative: fra l'altro, l'Italia non riesce, a livello nazionale e soprattutto regionale, a spendere i fondi comunitari ai quali ha diritto perché non presenta progetti che rispettino i requisiti con cui tali fondi vengono assegnati. Va inoltre considerato che l'Italia fornisce oltre il 70% del lavoro alla Commissione della Corte europea per i diritti dell'uomo.
Anche se ci si limita all'interno, la debolezza istituzionale si traduce in clamorose perdite economiche. Lo dimostra l'assenza di un chiaro iter decisionale nelle questioni ambientali, che si risolve nella possibilità di fatto di qualsiasi autorità territoriale, e persino di gruppi di pressione non ufficiali, di porre efficacissimi veti a ogni tipo di nuova iniziativa.
La paralisi dell'esecuzione tocca anche i più normali funzionamenti dell'apparato fiscale. Nell'agosto '96 il ministro delle Finanze stabilì una serie di princìpi generali dell'azione del suo ministero. Questi comprendevano la chiarezza delle leggi tributarie e la tempestività dell'informazione; l'impossibilità degli effetti retroattivi; il diritto dei contribuenti a un "garante" presso ogni direzione regionale e a ottenere risposte scritte vincolanti per l'amministrazione; l'abolizione del principio "solve et repete" e l'introduzione di quello dell'errore in buona fede in caso di oscurità della norma. Nel febbraio '97, mentre nulla di tutto ciò aveva trovato anche solo un accenno di attuazione pratica, il ministro fece una pubblica denuncia di "sabotaggio" all'interno del ministero.
L'inefficienza dell'apparato fiscale, che impiega un enorme numero di uomini sparsi sul territorio, è divenuta negli anni '90 un fattore importante della vita economica. Quasi ritualmente, ormai, le leggi finanziarie iscrivono recuperi dell'evasione per qualche migliaio di miliardi tra le entrate previste, senza poi riuscire a raggiungere l'obiettivo. L'amministrazione finanziaria, che conta complessivamente 100 mila uomini (Guardia di Finanza compresa), ha un arretrato di 5 anni sulla "lavorazione" dei modelli 740; il contribuente ha una probabilità su 163, pari a poco più del 6 per mille, che la sua dichiarazione sia soggetta a una verifica totale; il personale in alcune aree è carente, in altre sovrabbondante; vi sono 3 milioni di liti tributarie, i provvedimenti tributari in vigore sono oltre 20 mila, e negli ultimi 9 anni il testo unico delle imposte ha subito 398 modifiche. Il costo economico di questa situazione è difficilmente stimabile, ma indubbiamente molto elevato.
Ci sono, specularmente, segnali di vitalità. Una serie di evoluzioni mostrano, ad esempio, come l'industria italiana stia cambiando di natura e forma, in maniere non ancora ben valutabili nella loro portata, ma che denotano un dinamismo di fondo e il sorgere di un nuovo tessuto di imprese medie. E' possibile tentarne una classificazione approssimativa in alcuni gruppi.
Un primo gruppo è rappresentato da imprese dell'auto o di accessori veicoli che stanno trovando una collocazione a livello europeo e mondiale. Questa categoria comprende imprese di dimensioni ragguardevoli, imprese decisamente medie e anche alcune operanti nel terziario avanzato.
Un secondo gruppo include imprese meccaniche non collegate all'auto, che si sono create o si stanno creando un mercato europeo e mondiale. Sono non meno di un centinaio.
Un terzo gruppo comprende un gran numero di imprese tessili, di abbigliamento o comunque legate all'attività della moda che hanno trasferito parte della produzione all'estero, talora in Estremo Oriente, talora nell'Europa centrale e orientale, in questo seguendo una strategia analoga a quella dei loro concorrenti di altri Paesi avanzati. Va notato che questa dislocazione solo raramente implica perdita di posti di lavoro in Italia, ma si traduce piuttosto nell'allargamento del mercato e della produzione e in nuove prospettive di crescita aziendale.
E' ancora possibile ricordare un gruppo relativamente piccolo di imprese di elettronica applicata e filiali italiane di gruppi esteri, generalmente dotate di autonomia e in grado di produrre ottimi risultati; e vanno citate le centinaia di altre imprese medie non facilmente classificabili in gruppi precostituiti. Tutte, però, caratterizzate da due fattori: le limitazioni imposte dalle debolezze normative e istituzionali italiane, e la forte necessità di avere accesso, a un costo non superiore a quello dei concorrenti, a nuove risorse finanziarie per poter giocare un ruolo nell'economia mondiale.
Tutto ciò sposta l'attenzione verso la politica economica, volutamente mantenuta al termine di quest'analisi per sottolinearne l'aspetto non decisivo in un panorama mondiale in cui ben altre forze sono in gioco. Nel '95 si era accennato a una "finestra di opportunità" rappresentata dal '96: si trattava della possibilità che l'aumento della domanda interna si sostituisse, quale elemento trainante della crescita, in un clima di inflazione calante, a una domanda estera prevista in assestamento. Questa .'staffetta" doveva essere realizzata, fra l'altro, mediante un importante stimolo che doveva derivare dai programmi di edilizia pubblica.
La "finestra" si è chiusa senza essere stata utilizzata, la "staffetta" non è riuscita, i programmi di edilizia pubblica sono rimasti al palo. Invece di una crescita del 3%, il Pil ne ha sperimentato una dello 0,7% appena, un risultato insoddisfacente anche in termini relativi. Pur col miglioramento dell'inflazione e un certo progresso sulla lunga via del risanamento della finanza pubblica, non si può dire che si tratti di un esito soddisfacente. Esso è da attribuire alla chiara variazione di priorità stabilita dal governo in settembre, quando si decise di porre al primo posto l'ingresso nel tempi stabiliti dell'Italia nell'Uem. Ciò implicava uno sforzo di entità molto superiore a quanto precedentemente previsto per rispettare i "parametri" dell'accordo di Maastricht.
La strategia mira ad innescare un circolo virtuoso: il solo annuncio della determinazione italiana, il varo di una Finanziaria severa, il rientro dell'Italia nello Sme hanno provocato condizioni di forte ribasso del rendimento dei titoli pubblici e quindi del costo del servizio di tale debito da parte del Tesoro. La "voglia di successo" diventa una delle componenti essenziali del successo stesso. Si attua così uno spostamento dei metri di giudizio. Dai tradizionali tempi brevi, dai giudizi congiunturali su occupazione, crescita, inflazione, si passa a tempi medi e al rispetto di condizioni generali europee. Per la natura stessa del problema, il giudizio su questo punto deve rimanere sospeso e potrà essere dato solo in tempi lunghi.
Perciò queste pagine vogliono dimostrare come la realizzazione di qualsiasi strategia debba passare attraverso la rimozione di debolezze istituzionali che da sempre gravemente distorcono l'economia italiana, ma in tempi recenti ne stanno compromettendo le possibilità future. Su tale rimozione, a partire da ora, più che sul raggiungimento di questo o quel parametro, si gioca nei prossimi anni il futuro del Paese.


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