LA GRANDE FUGA DEL POPOLO DELLE TASSE




Bruno Sandri



Lo ha rivelato la rivista The Economist, che su questi argomenti fa testo: diminuisce, nella parte ricca del mondo, il numero di coloro che pagano le tasse. Diminuisce nelle fasce alte del reddito. Diminuisce con una velocità che statistici e ragionerie statali ritengono impressionante. Non si tratta di un'ondata di evasione fiscale, e non siamo di fronte al diffondersi di una ribellione alle tasse. Tanto è vero che il fenomeno è particolarmente marcato in due Paesi funzionanti e ordinati: gli Stati Uniti e l'Inghilterra. Il gettito delle tasse evapora verso l'alto perché il capitale tende a farsi sempre più cosmopolita. La finanza non si fa più industria, preferisce la libertà e la trova nel territorio senza frontiere e senza giurisdizione fiscale delle transazioni elettroniche. Dunque, si congiungono le occasioni della nuova tecnologia e la tendenza già consolidata dei capitali a premiare se stessi in avventure finanziarie mondiali. Evitano, in questo modo, di incagliarsi negli oggetti, le fabbriche, e nelle persone che un tempo chiamavamo "lavoratori".
Ma proprio da questo lato si forma l'altra parte del problema. Meno gente lavora. Anche dove l'indice di disoccupazione è basso, come negli Usa, il lavoro è discontinuo e molto più modesto che nel passato. Metà di tutti coloro che lavorano oggi negli Stati Uniti guadagnano 35 mila dollari, poco per quel Paese, e in media meno che nel passato. Ma chi riscuote le tasse dovrà concentrarsi in quella fascia intermedia, perché trova il vuoto sotto, dove intere masse si sono sganciate dal lavoro. E trova il vuoto sopra, dove una parte consistente della ricchezza si è liberata dal vincolo del territorio.
Bisognerà decidersi, si dice sempre più spesso, a tassare le transazioni elettroniche. Ma in base a quale giurisdizione? Certo, esiste già il progetto della tassazione globale del mondo post-industriale che si unisce per tassare tutto, dovunque. Resta il dubbio se sia tecnicamente possibile, se non richieda una pericolosa "polizia" del mondo, se non comporti costi proibitivi contro risultati perennemente incerti.
La fuga dalle tasse non è una rivelazione che giunge improvvisa. Ma adesso comincia a intravedersi l'immagine di un nuovo mondo, non evitabile e profondamente diverso da quello su cui si erano misurati tutti gli strumenti di intervento e disegnate tutte le possibili riforme. Nel nuovo mondo un peso enorme cade su una zona sempre più stretta dell'attività produttiva, impresa e lavoro.
Questo spiega le reazioni, le tensioni, gli accenti di rivolta. E spiega le difficoltà immense che i governi dei Paesi più ricchi incontrano a far quadrare i loro conti. Spiega perché si deve riconoscere a personaggi come la signora Thatcher e a Reagan la capacità di avere visto in anticipo che per continuare la corsa era necessario sganciare dal treno del benessere molti vagoni, senza badare troppo a questioni morali.
Le numerose spiegazioni filosofiche e tecniche al taglio sanguinoso dello Stato sociale mascherano una manovra abilmente anticipata. Meglio discutere sui meriti e demeriti dei tagli che mettere in discussione la capacità degli Stati di garantire la propria stabilità finanziaria.
Nella breve storia delle democrazie industriali vi sono stati alti e bassi nell'occupazione, e momenti profondamente diversi di pressione fiscale. Ma non si è mai verificata una congiuntura che si può descrivere così: grande liquidità, pochi investimenti, lavoro in diminuzione, capitali che cercano la libertà evitando l'intercettazione fiscale, governi a cercare tasse sempre presso gli stessi bersagli. Bersagli fissi.
Bisognerà abituarsi a guardare un volto sconosciuto, quello di una società sganciata ai due lati, una società che perde lavoro verso il basso e perde il contributo fiscale dei capitali verso l'alto. Un mondo così non corrisponde a quello descritto dai leaders delle associazioni industriali, che rappresentano il lamento delle imprese inchiodate al territorio. Non corrisponde a quello immaginato dai sindacati, che, come le imprese, sperano ancora in un allargamento della base di produzione e dissentono sul modo di raggiungere quell'allargamento. Spiega lo stato di allarme della piccola impresa che, specie nel Nord italiano, ha trovato in Roma la sua nemica, un modo per esorcizzare la paura, per combattere l'incertezza in un mondo che non riconosce e dal quale teme di non veder compensato l'atto di coraggio di "fare impresa".
Una simile descrizione del paesaggio sociale rende irrilevante la predicazione del liberismo tradizionale, perché il mercato si è clamorosamente slabbrato, con rapide e incontrollate corse in avanti di chi può (capitali liberati dall'elettronica) e le retrovie della piccola impresa che si sente perseguitata. Ma rende anche un poco effimera la predicazione social-liberale di Clinton e di Blair, che vogliono dare lavoro invece di assistenza. Occorre dire prima quale lavoro.
Una volta identificato il nuovo paesaggio, non resta da seguire che una strada. Idealmente in ciascun Paese industriale dovrebbero formarsi due gruppi di lavoro impegnati, con precedenza assoluta, in due soli compiti. E il primo è come tassare. La molto reclamizzata versione americana dei tagli profondi alle tasse non è che un trasferimento di pesi e di compiti agli Stati locali, ovvero un uso perverso del federalismo. I singoli Stati, infatti, rischiano di interrompere i servizi essenziali per mancanza di fondi. La versione italiana - più tasse - è difficile da reggere, non può durare per tempi lunghi. E l'altro compito urgente è come formare lavoro. L'incapacità di rispondere a questa domanda non potrà che creare un'ostilità sempre più diffusa alla periferia dello Stato. Mentre al suo centro si sentiranno i colpi di ribellione dell'insofferenza fiscale.
Due spinte così non si reggono. Chi governa e chi fa le leggi sa di non poter evitare i due percorsi. Sono immensamente difficili ma inevitabili. E chiedono una risposta immediata.


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