FEBBRE GIALLA




Karl F. Lietner



Il recente cedimento dei mercati in Asia, il crollo che si è avuto a Wall Street e il contraccolpo nelle Borse europee hanno attirato l'attenzione del grande pubblico sulle complesse interconnessioni della finanza internazionale. Sulle origini di questa crisi si sono avanzate molte interpretazioni. Politiche, innanzitutto: legate cioè alla sostanziale, anche sé ben dissimulata, fragilità della situazione di Hong Kong, dove tra sovranità nominale e sovranità reale esiste una terra di nessuno di cui è il simbolo una moneta improbabilmente legata al dollaro; ma anche riferite all'instabilità di regimi deboli, o antidemocratici, o già in crisi, e a classi politiche inquinate da una corruzione che con il crescente benessere anziché affievolirsi si accentua. Ma anche interpretazioni più propriamente economiche: il fenomeno della globalizzazione, come globalizza i profitti, così globalizza i rischi. In un processo di sviluppo accelerato e sostenuto qual è quello che l'Asia del Sud Est ha conosciuto negli ultimi quindici anni, le fasi recessive, anche violente, sono inevitabili; il Messico ne è l'esempio più recente e vistoso. Altre analisi si soffermano sul retroterra culturale e morale dell'area, sull'assenza di una democrazia reale e sulla pretesa superiorità di modelli etico-sociali autoctoni del tutto fittizi. E altre interpretazioni, senza dubbio, seguiranno, ciascuna con la sua parte di verità e tante più ne avremo quanto più durerà la minaccia di nuove crisi.
Ma intanto può essere utile cercare di ricostruire i meccanismi con i quali si è prodotto uno sviluppo così elevato in un'area così limitata. Le condizioni favorevoli di fondo le conosciamo: un alto livello di secolarizzazione, una forza-lavoro che partendo da basi salariali basse ha una forte propensione al risparmio via via che il salario cresce, una scarsa conflittualità sociale. Queste condizioni sussistono tuttora e chi pensasse che la crisi recente segna un declino irreversibile di quelle economie nel panorama economico mondiale sbaglierebbe di grosso.
Di queste condizioni favorevoli ha tratto vantaggio un settore privato molto aggressivo e disposto al rischio, che ha usato prima con discernimento, poi più spericolatamente, i mezzi che la crescente liberalizzazione dei mercati dei capitali metteva a sua disposizione.
La politica dei governi asiatici di ancorare al dollaro le loro monete assicurava gli imprenditori dai rischi di cambio: i capitali venivano presi a New York oppure a Tokio al 6 o al 7 per cento, e reinvestiti in Thailandia, in Malaysia o a Hong Kong al 20 o al 25 per cento in attività produttive in buona parte destinate all'esportazione o nel settore immobiliare al di là di ogni prudenza. Tutto ciò non ha presentato problemi sin tanto che il dollaro è stato stabile o addirittura in fase di deprezzamento rispetto allo yen e alle monete europee. Ma quando il dollaro, poco più di un anno fa, ha preso a salire sensibilmente e le monete asiatiche hanno cercato di tenergli dietro, si è avuta una immediata perdita di competitività, poi l'arresto e poco dopo la fuga di capitali stranieri soprattutto giapponesi, con l'inevitabile, classica spirale di crisi. Il settore immobiliare, come sempre, ha dato il primo segnale di inversione di tendenza.
Tutte le valute, una dopo l'altra, si sono arrese, abbandonando il cambio fisso e rendendo con ciò più pesante il servizio del debito. Tutte, salvo Hong Kong. La previsione che anche Hong Kong, che ha una posizione strategica nell'area e che già risentiva della debolezza generale, facesse altrettanto, ha innescato il tracollo della Borsa locale e le reazioni a catena dentro e fuori la regione.
Anche come lezione per il futuro, le condizioni di base per una ripresa, controllata dal Fondo Monetario Internazionale, sussistono. Ma c'è da chiedersi come mai un'intera classe imprenditoriale si sia fatta attrarre da schemi in cui i margini di profitto erano troppo elevati per non essere altamente rischiosi, o come mai i governi abbiano incoraggiato così a lungo una gara insostenibile tra i loro tassi di sviluppo.


Nel parlare di economie asiatiche è inevitabile il riferimento al Giappone. Certo, anche gli Stati del Sud Est hanno guardato alla performance di un Paese che ha conosciuto vari decenni di sviluppo continuo, passando da comprimario a protagonista nell'economia mondiale, senza subire sostanziali contraccolpi e che anche quando - come avviene da poco più di due anni - conosce una seria fase recessiva dimostra di saperla tenere sotto controllo. Ad accostare l'esperienza giapponese a quella delle "Tigri asiatiche" si prende però un grosso abbaglio.
Lo sviluppo giapponese è stato intimamente legato all'identità nazionale, ha eretto attorno a sé, nella fase della crescita delle barriere protettive che solo con molta gradualità ha allentato a mano a mano che i settori produttivi raggiungevano dimensioni competitive, ha guardato prioritariamente al mercato interno avventurandosi all'esterno sulla base delle esperienze fatte su scala nazionale.
Alcune condizioni di fondo - scolarità, laboriosità, propensione al risparmio, tendenza alla conciliazione anziché alla rivendicazione -della società giapponese e di quelle di altri Paesi asiatici possono considerarsi affini. Ma la classe imprenditoriale che ha guidato lo sviluppo del Sud Est asiatico più che essere parte della società malese, o indonesiana, o thailandese, è parte dell'etnia cinese.
Anzi, della diaspora cinese, cioè di quella parte più desta ed evoluta della comunità cinese che ha lasciato dietro di sé le tradizioni contadine per avventurarsi in tutta la regione continentale (ad eccezione del Vietnam) ed insulare del Sud Est. La cultura imprenditoriale giapponese è una cultura essenzialmente produttiva, attentissima alla qualità del prodotto e con un forte senso gerarchico organizzativo. La cultura della diaspora cinese è una cultura essenzialmente mercantile e di servizio, che ama il rischio e lo sollecita, e che ha affidato in buona parte i processi produttivi alle comunità locali, trattenendo per sé le funzioni speculative. L'una è metodica, l'altra opportunistica. Non potrebbero esservi due visioni più diverse.
Forse una risposta verrà da una maggiore integrazione delle classi imprenditoriali e degli ambienti finanziari di estrazione cinese nel contesto politico, sociale e culturale locale. Un'omogenea identità nazionale non è cosa che si improvvisi facilmente: il Giappone ci ha messo 2500 anni, e quasi altrettanti ne ha messi la Corea, un Paese il cui modello di sviluppo è più simile a quello giapponese che a quello delle "Tigri asiatiche". Vi saranno altri scrolloni in Borsa, prima che un tale processo si realizzi per davvero.


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