DAL BIG BANG ALLA BIG BANK




Denis Lobo Roy



Si tratta di una vera e propria rivoluzione: il numero delle banche negli Stati Uniti è sceso da 14.20 del 1987 a 9.530 del 1997 (settembre), e il processo di concentrazione non è ancora finito: a fronte di 544 acquisizioni nel 1996, ce ne sono già 609 nei primi nove mesi del 1997. Per i banchieri italiani ci sono molti motivi di riflessione in questo grande processo storico.
La prima è che non si tratta di un processo in cui il grande fagocita il piccolo, perché spesso si è verificato il contrario. Nel corso degli anni Novanta sono scomparse banche prestigiose come "Manufactures Hanover Trust", "Chemical Bank" e "Securities Pacific", ed emersi nomi sconosciuti come "Nationsbank", un istituto provinciale che ha effettuato tre delle dieci maggiori acquisizioni.
Un secondo motivo di meditazione è che la grande concentrazione delle banche commerciali non passa per la via obbligata di Manhattan. E' la rivincita della provincia, sull'onda della marcia dei profitti, saliti in media dal 13,6 al 15,9 per cento, cifre da far impallidire i banchieri italiani ed europei, che brindano quando mettono a segno un 5-6 per cento. Alcuni esempi: "Nationsbank" ha sede a Charlotte, capitale sperduta del North Carolina, come pure la sua prima concorrente, "First Union", sesta banca degli Stati Uniti, con una rete di filiali in tutta la costa orientale; a Columbus, Ohio, c'è "Bank One" che ha acquisito (per 7,3 miliardi di dollari) "First Usa", la più importante banca specializzata nelle carte di credito; "Us Bancorp" di Minneapolis offre ormai i suoi servizi in 17 States, dopo un'aggressiva politica di acquisizioni.
Terza riflessione utile: ci sono meno banche (-33 per cento in dieci anni), ma più sportelli (+30,2 per cento), il che equivale ad un aumento di oltre tredicimila, in gran numero localizzati presso i supermercati. E c'è meno personale. La politica dei tagli è stata severissima, più che nel resto dell'economia americana, con punte del 23,5 per cento dopo l'acquisto da parte di "Wells Fargo" di "First Interstate", la seconda operazione per ordine di grandezza. L'obiettivo di "Nationsbank", dopo l'acquisizione di "Barnett Bank", un istituto della Florida, è addirittura di ridurre le spese per il personale del 45 per cento entro la fine del 1998.
Alla base di questa rivoluzione ci sono due fattori. Il primo è l'insieme delle nuove tecnologie che, collegando direttamente il singolo sportello, e talora il singolo cliente, alla sede centrale, tendono a rendere irrilevante il costo della singola transazione; si riducono fortemente le spese variabili e il massimo dell'incidenza si concentra sulle spese fisse, rappresentate da costosissimi software. Il secondo è rappresentato dal tramonto delle rigide regole che, dai tempi della Grande Depressione, avevano proibito alle banche commerciali di operare in tutti gli Stati Uniti, sostituite da una legge che impedisce a ogni singolo istituto di controllare più del 10 per cento dei depositi bancari dell'intero Paese o più del 30 per cento dei depositi di un singolo Stato dell'Unione.
Sono pure caduti i vincoli che impedivano alle banche commerciali di partecipare pienamente al ricco mercato della "securitization" in ogni sua formula. E, col venir meno di questi steccati, ormai le banche commerciali debbono vedersela con numerosi concorrenti, spesso avvantaggiati sotto il profilo dei regolamenti e dei controlli: dai colossi del risparmio gestito, a partire dai "mutual funds", agli specialisti delle "credit cards" o addirittura, concorrenza emergente, alle grandi compagnie di software tipo Microsoft che stanno imponendo sul mercato pacchetti convenienti di transazioni bancarie on-line.
Tutto ciò costringe le banche a ripensare le proprie strategie e a sfruttare al meglio le gigantesche economie di scala del sistema.
Di fronte ad una clientela assai più mobile di quella europea (basti pensare alla disponibilità di trasferimento da un capo all'altro dell'America di buona parte della manodopera o degli addetti ai servizi commerciali e distributivi), la possibilità di garantire un mix sufficientemente ampio di servizi elettronici e fisici può essere la carta vincente delle banche. Anche per questo le banche commerciali, libere dal vincoli del passato, meditano una clamorosa invasione di campo nei terreni delle "investment banks". Già si parla apertamente del grande affare di fine millennio: la possibile acquisizione da parte di "Chase Manhattan" di uno dei colossi del ramo, la "Merril Lynch", (forte di 54 mila dipendenti) che, per legge, non può espandersi nel ramo delle banche commerciali e fa così la parte della preda e non quella del cacciatore.
Una rivoluzione analoga, del resto, scuote il settore delle "investment banks", dove, come ha suggerito il Financial Times, "i leviatani di ieri si ritrovano ad essere i nani di oggi". E' ancora fresco l'inchiostro sull'accordo di acquisto della veneranda "Salomon Brothers" da parte di "Travelers", che già si era rafforzata con l'acquisto di "Smith Barney", creando così un nuovo gruppo che si trova a sfidare i tre grandi di Wall Street: "Merril Lynch", "Goldman Sachs" e "Morgan Stanley". Questi quattro colossi non solo dispongono ormai di una rete di distribuzione che copre tutto il mercato americano, ma vantano uno know-how operativo in grado di coprire tutte le esigenze delle piazze internazionali, dall'Europa all'Estremo Oriente. E questa, secondo gli analisti del settore, è l'unica combinazione sicuramente vincente: la capacità di offrire prodotti e assistenza a tutto campo in tutto il mondo.
I colossi americani si stanno muovendo con grande tempestività in Europa per conquistare una parte considerevole del mercato dell'Euro, agendo sugli emittenti (in Italia, ad esempio, c'è un mercato sterminato dell'eurolira grazie agli enti locali, orfani dei trasferimenti di Stato) e sulla domanda di risparmio, e lasciando ai locali il ruolo di agenzie sul territorio, le cui reti specializzate sono acquistate dai grandi a colpi di moneta sonante.
La caduta delle barriere valutarie favorisce le grandi organizzazioni in grado di offrire ai distributori locali la propria capacità di soluzioni innovative e tradizionali su larga scala (dal collocamenti azionari, comprese le partite difficili per i mercati domestici, ai derivati); un allettamento alla vendita viene anche dalla possibilità di evitare in questo modo le costose spese per l'aggiornamento del software in vista dei mutamenti legati all'anno Duemila (e nell'Unione europea anche all'introduzione dell'Euro).
A nostro avviso, tutto questo prepara una nuova "invasione americana dell'Europa", che si basa sul dollaro forte, sull'economia solida e sul primato tecnologico. Già in passato le fasi di espansione internazionale degli Stati Uniti sono state precedute da un profondo e capillare cambiamento del sistema bancario e finanziario. Va aggiunto che la nascita di un vero e proprio mercato finanziario europeo avviene in una situazione di alti costi, di bassi rendimenti e di rapida transizione per le banche europee.


Basti pensare che chi vorrà partecipare al mercato dei servizi alle imprese e ai risparmiatori dovrà essere pronto a investire almeno 500 miliardi nel prossimo quadriennio e che, anche in Europa, sta ormai svanendo l'antitesi artificiale tra banca e Borsa. I due mercati si avvicinano, semmai, sempre di più. E così le banche americane d'investimento (che dall'Europa traggono oggi circa il 20 per cento dei loro utili) si stanno attrezzando per affrontare, non più divise sui singoli mercati ma in una prospettiva continentale (con un forte risparmio sui costi organizzativi), le capacità di reazione dei singoli competitori domestici. Tra questi, chi può contrattacca: come "Deutsche Bank" (che ha pagato duramente il noviziato nell'investment banking con l'acquisto dell'inglese "Morgan Grenfell" e le tempeste successive), o come gli svizzeri della "Ubs" (acquisto di "Dillon Read") e "Credit Suisse First Boston"; oppure, più ancora, gli olandesi di "Ing" e di "Abn Amro", capaci di sfidare la leadership americana sui mercati più esotici.
Naturalmente, in questi campi non si trovano nomi italiani. Per le banche europee, e per quelle italiane in particolare, la ricetta vincente non consiste nell'imitare le consorelle americane, la cui esperienza è irripetibile. Parte invece dalla necessaria consapevolezza, ancora troppo diffusa, che le vacche grasse e la vita comoda sono finite e che, in questi anni, i bilanci saranno duri e difficili: saliranno i costi fissi (specie per l'Euro), scenderanno i profitti, per la concorrenza e per il progressivo restringersi della forbice dei tassi.
Per una banca con 50 mila miliardi di impieghi, ogni punto di margine in meno rappresenta una riduzione di 500 miliardi di ricavi; per recuperarli con le gestioni patrimoniali, la strategia più logica e immediata, il volume delle attività gestite dovrebbe aggirarsi sui 62 mila miliardi, mentre la maggiore struttura bancaria italiana non supera i 30 mila miliardi.
I confini nazionali in un mercato continentale stanno naturalmente diventando eccessivamente angusti. Si spiega così, fra l'altro, l'aggressiva politica di "Deutsche Bank" in Italia, avviata verso l'acquisizione di altre reti di raccolta (prima fra tutte "Azimut").
Dopo i tentativi (e le disavventure) degli anni Ottanta, le banche italiane sono state pressoché assenti all'estero. E' urgente riaprire questo capitolo, pena un ritardo forse fra non molto tempo incolmabile.


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