Alcuni
mesi addietro il Direttore Generale, Dott. Rampino, mi confidò
l'intenzione di intitolare la Divisione da me diretta al Prof. Italo
Vittorio Tondi. La sua aspettativa era certamente quella che nulla opponessi
al suo disegno e comunque nulla io avrei mai fatto in tal senso. Forse
però non immaginava che il progetto potesse incontrare la mia
entusiastica approvazione.
Vittorio Tondi è da tutti conosciuto: primo a dirigere per oltre
un decennio, dopo averla tenuta a battesimo, la Divisione di Malattie
Infettive, glorioso internista e intettivologo, studioso apprezzato
e penna di grandissimo pregio e prolificità in campo scientifico
e non.
Egli però è stato per me più di tanto: insegnante
e guida, più di me stesso artefice della mia affermazione in
questo Ospedale, da Lui in tanti anni preparata con perseveranza e affetto.
Di tanto gli sono immensamente grato e questa mi pare essere l'occasione,
insperata, per dimostrargli pubblicamente riconoscenza, gioire con Lui
e per Lui, con altrettanto affetto, godere del riconoscimento che gli
si offre, per il ricordo che sempre lo seguirà in un Ospedale,
in cui e per cui ha lavorato, in esso profondendo energie, conoscenza,
perizia, amore e tanta umanità.
Egli non è oggi presente perché ammalato, ma il caso o
la Provvidenza ha voluto fornirgli una incontestabile giustificazione.
E' mia convinzione che Egli comunque non sarebbe stato qui con noi,
timoroso di non sopportare una così grande emozione nel ricevere
in vita un così alto e prestigioso riconoscimento.
Ancora una volta ha voluto esprimere l'affetto verso il suo Aiuto caricandolo
di una grande e, questa volta sì, inaspettata responsabilità,
chiedendogli non di rappresentare ma addirittura dare voce al suo Vecchio
Maestro. E' questo che mi accingo a fare con grande orgoglio:
Allocuzione
del Prof. Italo Vittorio Tondi
PAZIENTI E
STAFF SANITARIO NEGLI OSPEDALI
Carissimi,
Del vecchio ma sempre attuale e pregnante problema in conferenze e
articoli mi sono più volte occupato.
A parlarVi mi inducono le persistenti, veementi e inindulgenti critiche
che giornali e mass media quotidianamente ci propinano, di cui alcune
ammantate da sentenze in itinere e altre da sentenze passate in giudicato.
Non sarò aprioristico apologeta di una classe corporativa,
ma esegeta di alcune situazioni, disfunzioni, incidenti e reati di
cui è accusata e pregiudizialmente condannata.
Premetto che se tutti noi, medici e paramedici, operassimo secondo
i precetti di Ippocrate e le norme dal Codice Deontologico previste,
le mie parole non troverebbero giustificazione.
Da gregario prima e da primario e direttore sanitario poi, ho trascorso
42 anni della mia attività professionale negli ospedali. Ciò
penso mi consenta alcune considerazioni e riflessioni.
Ricordo come, storicamente, l'assistenza al malato, improntata dapprima
su di un piano caritativo-spirituale, sì da essere considerata
un atto d'amore verso i sofferenti, abbia assunto, successivamente,
un carattere tecnico-pratico, legato alla preparazione e alla esperienza
e, attualmente, una veste decisamente scientifico-professionale, condizionata
alla cultura, alle capacità tecniche e alla sensibilità
dell'équipe assistenziale. Al primitivo e originario binomio
quindi di vocazionemissione, cui seguì quello di arte-missione,
è oggi subentrato il trinomio di arte-professione-missione,
dovendosi ritenere la preparazione teoricopratica e quella psicologica
prioritarie.
"Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est":
la saggia, umana e orante espressione benedettina è di sì
alta significazione spirituale e di così profondo contenuto
etico da farei sentire l'impegno e la responsabilità per una
tra le più nobili attività per le quali l'uomo vive
e opera.
La crisi dell'assistenza sanitaria negli ospedali è riportabile
a cause estrinseche e intrinseche. Omettendo di parlare di quelle
estrinseche, che investono il Governo, le autorità, gli "addetti
ai lavori" e la stessa organizzazione del SSN, mi soffermerò
su una sinottica analisi di quelle intrinseche.
E' risaputo che i malati non gradiscono la ospedalizzazione. Se poi,
volenti o nolenti, finiscono con l'accedervi su pressione del curante
o per motivi diagnostico-terapeutici, lasciano l'ambiente familiare
con estremo disagio, anche nella incertezza o paura del nuovo. Nella
loro accettazione è implicita e sottintesa per alcuni la convinzione
di un breve periodo di degenza col rapido ripristino della salute
e, quindi, del ritorno a casa; per altri, invece, può essere
il segnale che un male oscuro si nasconda e vi accedono nella speranza
che altri medici e altre cure possano migliorarli o guarirli.
Dalla accettazione al reparto di destinazione il tragitto deve essere
breve, a meno che non subentrino difficoltà logistiche o contrastanti
pareri diagnostici, che ritarderebbero, oltre ogni ragionevole limite,
il ricovero. Una volta in reparto, il paziente viene accolto da uno
o più paramedici che comunicheranno ai medici l'avvenuto ricovero.
Se l'impatto sarà di cortesia, simpatia, comprensione e apertura
verbale, sussisteranno già le premesse per un accattivante
rapporto, in un clima confidenziale che non farà eccessivamente
rimpiangere il nido domestico. Se il paziente viene invece accolto
con indifferenza, insensibilità, incomprensione per le sue
sofferenze e, persino, con arroganza, è facile prevedere l'esordio
di un rapporto conflittuale, di cui il Primario dovrà tener
conto per sanarlo.
Occupato il suo letto e conosciuti i compagni di corsia, egli resta
in ansiosa attesa del medico con il quale darà l'avvio ad un
confidenziale e aperto dialogo se questi, guardandolo negli occhi,
lo ascolterà con attenzione. Soddisfatto dell'approccio, pur
nel disagio della situazione logistica e della limitazione della sua
"privacy", sarà un buon paziente, disciplinato, disponibile
alle indagini e alle cure. Il Primario dovrà farne conoscenza
il più presto possibile e sarà tenuto, come da regolamento,
a visitarlo tutti i giorni della sua presenza in reparto, non demandando
ai colleghi tale compito-dovere. Si instaurerà, allora, una
"empatia dialogica", positiva ai fini prognostico-terapeutici.
Gli psicoanalisti e gli psichiatri fanno rilevare che nel rapporto
col malato nasce quel processo, definito transfert, che si estrinseca
in una dipendenza interpersonale.
"Applicato al paziente, il transfert - asserisce L. Ancona -
rende conto del perché egli, verso chi lo cura, si trova in
stato di intensa speranza, di fascinazione, di amore, oppure di sospetto,
di delusione e di avversione; può essere nel contempo animato
dall'aspettativa di essere aiutato oppure dal timore di non esserlo
per incapacità o per volontà perversa; può quindi
essere sottomesso, dipendente, oppure può essere reattivo,
rivendicativo di ogni suo diritto che possa ritenere contestato".
Accennando all'attività e funzionalità del reparto,
è a dirsi che se autorità e responsabilità sono
in mano di un direttore d'orchestra chiamato Primario, egli dovrà
servirsene con intelligenza, saggezza, tatto, imparzialità
e umanità, e i suoi collaboratori, assecondandolo e attivamente
collaborando, dovranno avere per lui rispetto e stima, anche se, talvolta,
non ne condividono pareri e decisioni. Tutti i componenti lo staff
sanitario sono anelli indispensabili di una catena di montaggio chiamata
assistenza.
Tutto il dinamismo operativo del reparto deve quindi concentrarsi
sul malato, che va considerato nel rispetto della sua personalità
e dignità, come unità somato-psichica, valutato nella
qualità ed entità del suo male, nelle sue sofferenze,
nel suo temperamento e comportamento, nel suo stato civile, sociale
e professionale, nelle sue ideologie, nelle sue preoccupazioni familiari,
economiche e di lavoro.
Se l'attività multiforme dello staff assistenziale, pur fortemente
stressante, si svolgesse in simbiosi col malato e in armonia con le
sue diverse componenti e in una solida collaborazione con le équipes
delle altre Divisioni (quando il malato sia di interesse interdisciplinare),
non si determinerebbero, almeno nella misura con cui vengono segnalate
e propagandate, quelle disfunzioni, deficienze e rimostranze che rendono
confuso, rissoso e controproducente il clima di un luogo di cura e
che inducono molti pazienti ad abbandonarlo ed altri a rifiutarlo.
Ciò ha indotto, con nostra umiliazione e mortificazione, alla
istituzione dei "Tribunali per i diritti del malato" e dei
"Comitati etici ospedalieri", al fine di evitare o eliminare
quelle carenze, ritardi, disfunzioni, omissioni e soprusi molto spesso
denunciati e dai mass media enfatizzati.
I componenti del "team assistenziale" devono dimostrare
di essere in possesso di grande tolleranza e filiale comprensione
per gli "anziani", il cui stato mentale, oltre a risentire
il peso degli anni, è aggravato da una condizione aterosclerotica
e dalla preoccupazione per i loro mali, per cui sono spinti, talora,
a reazioni abnormi. Molto umanitari devono appalesarsi nei confronti
dei malati e portatori dell'HIV, non giudicandoli lebbrosi o untori,
soggetti abietti o reietti, ma persone di immensa comprensione abbisognevoli.
Altrettanto dovrebbero esserlo per i più sofferenti, per gli
affetti da mali irreversibili e a lungo decorso, elettivamente per
i moribondi, non lesinando loro parole di conforto, una carezza, uno
sguardo dolce, un sorriso.
"Un sorriso non costa nulla e produce molto - ha scritto padre
Faber - arricchisce chi lo riceve, non impoverisce chi lo dona".
E circa cent'anni or sono il principe della Medicina clinica, Augusto
Murri, rivolgeva ai suoi discenti queste invocative parole: "Se
ci mancasse questo vincolo d'amore, che stringe tutti gli uomini,
se ci mancasse questo sentimento, che c'ispira pietà per la
sorte comune, se ci mancasse questa aspirazione di dare il meglio
di noi per rendere la vita umana sempre più nobile e meno infelice,
quali attrattive ci fermerebbero più a sopportare le angosce
dell'esistenza?".
Un pensiero di simpatia, di rispetto, di gratitudine m'è d'obbligo
per quei silenziosi gregari costituenti il microcosmo degli "ausiliari"
(nel quale militano diplomati, laureandi e laureati), per il senso
di umiltà, di dignità, di responsabilità, di
abnegazione, di comprensione e compunzione con cui svolgono le mansioni
più degradanti e mortificanti, per l'impegno e la diligenza
con cui cercano di sopperire alle loro personali insufficienze e alle
loro limitate capacità tecniche e cultura, per la loro sensibilità
e solidarietà al dolore umano.
Ciò che mi ha attirato le antipatie, i non consensi, e, ovviamente,
anche le critiche di molti colleghi è stata ed è la
mia idiosincrasia per gli scioperi ospedalieri (non solo selvaggi):
essi m'hanno sempre visto "obiettore di coscienza".
Chi da gregario, ma, soprattutto da dirigente "a rischio",
vive giornate di sciopero ne esce fortemente turbato e psicologicamente
traumatizzato. Assistere, confortare gli ammalati, vedere nei loro
volti e leggere nei loro sguardi la incredulità, il disappunto,
l'amarezza e l'acuirsi delle loro sofferenze per i ritardi, le omissioni,
le carenze, le assenze, per chi è presente è un'angoscia
indescrivibile. Vivere responsabilmente le drammatiche situazioni
che vengono a determinarsi nel Pronto Soccorso, nei reparti, essere
nella impossibilità e impotenza di rimediare alla stasi dei
servizi di laboratorio, di radiologia, di traumatologia e delle cucine,
visionare lo stato igienico delle corsie e dei bagni, ascoltare le
lamentele, le maledizioni, le imprecazioni e le reazioni, anche violente
e minacciose, dei parenti, è penosissimo ed eticamente inumano!
Ai colleghi che non condividono il mio ragionamento e comportamento
(forse perché non tutti hanno occupato posti e ruoli di alta
responsabilità, anche legale) e ai quali la mia posizione mentale
può sembrare o essere antisindacale (ma non immorale) oso chiedere
perché alcuni o molti di noi, quando tra i ricoverati o ricoverandi,
sofferenti nel corpo e nell'anima, vittime innocenti di una parziale
o totale paralisi delle attività assistenziali e funzionali
di un Ospedale, vi sono dei nostri familiari e parenti, perché
- ripeto - contestiamo le motivazioni e le giustificazioni che allo
sciopero hanno indotto?
Non vorrei esservi apparso sotto le vesti del puritano né del
predicatore e precettore, ma sotto l'umile saio di un pedagogo che,
con una malcelata presunzione, vuole suggerire ai giovanissimi e giovani
colleghi le vie da percorrere, perché la fatica di tutti, soldati
al servizio della vita, sia premiata dalla gratitudine, dall'affetto,
dall'amore di chi di essa ha beneficiato e beneficia.
Non mi sono mai sottratto ad una analisi autocritica e da essa ho
appreso che la perfezione è irraggiungibile, ma che ad essa
si può e si deve sempre aspirare!
"Io ho quel che ho donato" - è scritto sul portale
del Vittoriale dannunziano - sia quel motto il nostro credo.
Concludo queste mie pretenziose ma sofferte considerazioni, in una
ultracinquantacinquennale esperienza professionale maturate, con le
sublimi parole, nelle quali è racchiuso e trasfuso lo spirito,
l'affiato e l'etos di una Medicina umanizzata, dal celebre clinico
Cesare Frugoni ereditate: "Dobbiamo essere consapevoli che per
quanto ci si prodighi per i nostri ammalati non faremo mai abbastanza
e che nessuna professione o missione ha, come la nostra, tanto contenuto
ideale di bontà, di nobiltà, perché è
divino rialimentare la fiamma della speranza, trasformare il pianto
in sorriso, la disperazione in fede e arrestare la morte per ridare
la vita ... ".
Ha parlato il Maestro ed io e voi abbiamo ascoltato la sua ultima
lezione. Chiudo con la commozione e l'orgoglio di essere da oggi il
primo a dirigere la Divisione di Malattie Infettive intestata al Suo
nome.
|